Polizia e Democrazia ha intervistato il segretario nazionale del Siulp, Silvano Filippi per fare il punto sull’azione sindacale relativa legge 121.
Chi pensava di aver messo in ginocchio il Movimento democratico dei poliziotti è stato smentito dai fatti. A Roma, al cinema Adriano, erano presenti oltre duemila delegati, venuti da ogni provincia italiana. Da più parti si era sparato a zero contro i tutori della legge, accusati addirittura di scorrettezza costituzionale per voler dar vita al loro sindacato, prima del varo della riforma della polizia, ossia prima che il Parlamento avesse approvato la legge. Si era gridato alla scandalo per questa decisione solo perché i dipendenti della Ps, in base a precise norme (che parecchi si ostinano ad ignorare) seppure con molto ritardo, osavano esercitare un loro diritto”, così Franco Fedeli nell’editoriale di “Nuova Polizia” del maggio 1980. Il giorno 4 di quel mese è scolpito nella storia della polizia italiana: oltre duemila poliziotti provenienti da ogni parte d’Italia si ritrovarono al Cinema Adriano di Roma per la costituente del Siulp, il loro sindacato. Basta promesse, basta annunci: era giunto il momento dei fatti e, in attesa della legge di riforma che avrebbe smilitarizzato la Pubblica sicurezza, i poliziotti approvarono lo statuto. Alcuni politici chiesero l’intervento del Governo per quella che ritenevano una forzatura, una provocazione. In realtà, i poliziotti, pur fermi nella volontà di dar vita al loro sindacato, decisero di procedere al tesseramento solo dopo l’approvazione della riforma.
“Cosa hanno ripetuto di tanto rivoluzionario i poliziotti dalla tribuna dell’Adriano? Che vogliono una maggiore professionalità, una maggiore efficienza e soprattutto non vogliono essere una forza solo repressiva, ma uno strumento capace di difendere tutti i cittadini, di allargare la democrazia e far rispettare a tutti la Costituzione”.
Quello era lo spirito con cui i poliziotti avevano intrapreso la battaglia per la smilitarizzazione e la democratizzazione della polizia, stanchi di essere meri strumenti di repressione. Ma Fedeli avverte: che “[…] vincere una battaglia (seppure importante) non significa vincere la guerra. L’Adriano è solo il primo atto di quel grande processo di trasformazione della polizia che non si concluderà in breve tempo. Non basterà infatti la norma di riforma approvata dal Parlamento per modificare la situazione. Occorrerà realizzare, dall’interno, la rifondazione del vostro Istituto. Per conseguire questo obiettivo bisognerà mobilitare tutti i poliziotti e i cittadini democratici”.
A quarant’anni dalla storica assemblea all’Adriano di Roma, Polizia e Democrazia ha incontrato Silvano Filippi, segretario nazionale del Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia.
Dott. Filippi, siamo ormai prossimi al quarantesimo dall’approvazione della Legge n. 121/1981, di riforma della P.S. Lei da anni “vive” il sindacato, prima come Segretario regionale del Veneto e attualmente come Segretario nazionale del Siulp. Può ricordare ai colleghi più giovani perché e come si arrivò alla sua costituzione?
Mi è capitato spesso, di recente, di intervenire in occasione di incontri pubblici sul tema della riforma della Polizia di Stato che ha, tra l’altro, portato in dote il diritto alla sindacalizzazione dei suoi appartenenti. Una svolta che ha letteralmente rivoluzionato l’assetto dell’apparato preposto alla pubblica sicurezza, e che è stata resa possibile solo grazie alla straordinaria dedizione di persone eccezionali.
Ancora oggi non riesco a capacitarmi di come un gruppo di poche decine di poliziotti, nel corso degli anni ’70, quindi senza alcuno dei supporti tecnologici che noi oggi diamo per scontati e senza risorse, agendo in assoluta clandestinità e rischiando per questo il posto di lavoro, abbia potuto tessere una rete di comunicazione capillare diffusa sull’intero territorio nazionale, convincendo decine di migliaia di colleghi ad aderire al nascente sindacato di polizia quando ancora il percorso legislativo non era compiuto.
Un’epopea che non sarebbe stata possibile se questi che, data l’analogia con le modalità organizzative della celeberrima società segreta ottocentesca, sono passati alla cronaca come “carbonari”, non si fossero potuti avvalere del fondamentale sostegno di Franco Fedeli.
Cosa rappresenta Franco Fedeli per voi del Siulp?
Un vero eroe borghese, qualcosa di più di un padre fondatore. Un giornalista che ha sposato la causa della democratizzazione della Polizia e ne ha fatto la sua ragione di vita. È stato l’ambasciatore che ha accreditato le rivendicazioni del nascente movimento sindacale al cospetto delle Istituzioni e che, con la sua testarda indole di combattente forgiata tra i ranghi della Resistenza, ha saputo trasformare un periodico di nicchia nel megafono attraverso il quale i poliziotti parlavano al Paese.
Questo spiega per quale ragione noi del Siulp tributiamo a Franco Fedeli i medesimi onori che competono ai nostri padri fondatori, dedicando alla sua memoria l’annuale concorso letterario di Bologna che premia il miglior romanzo giallo scritto da autori italiani.
Proprio perché considero fondamentale tenere accesa la fiammella della memoria dedico a queste gloriose gesta una significativa parte delle conferenze informative riservate alle organizzazioni sindacali nei corsi degli allievi agenti, presso le Scuole di Polizia.
In cosa differisce il sindacalismo delle origini da quello attuale?
Se parliamo del panorama sindacale della Polizia di Stato in generale, registriamo una grave crisi del sistema della rappresentanza, scientemente provocato ed agevolato da chi aveva interesse ad indebolire il vento del cambiamento portato dalla Riforma. Il pluralismo, anche nei corpi intermedi, è sicuramente un fattore che contribuisce ad una sana concorrenza tra i portatori di diverse prospettive ideali. Siamo passati da un’offerta estremamente chiara tra l’impostazione confederale del Siulp e quella autonoma del Sap, ad una perniciosa frammentazione delle organizzazioni sindacali che ha approfittato di una più che discutibile, e a mio sommesso avviso del tutto illegittima, interpretazione della disciplina sul riconoscimento della rappresentatività.
Anche su questo Franco Fedeli ha dimostrato una impressionante lucidità e una non comune capacità di analisi nel presagire che l’Amministrazione avrebbe cercato di indebolire l’azione riformatrice infestando il sistema della rappresentanza con la mala pianta del sindacalismo giallo.
E infatti oggi le sigle sindacali non si contano più…
Esattamente. È difficile tenere il conto di quante siano oggi le organizzazioni sindacali, stimabili intorno alla trentina, alcune delle quali a livello nazionale contano meno di cento iscritti. Se da un lato non contano nulla dal punto di vista del confronto politico, dall’altro è evidente come questa dispersione eroda il consenso e la forza dei portatori degli interessi collettivi. Questo passaggio dalla rappresentanza democratica al confuso assemblearismo, che della democrazia è la negazione, intacca inevitabilmente la credibilità dell’intero movimento sindacale.
Basti qui ricordare le funamboliche esternazioni riprese dagli organi di stampa da capetti di un manipolo di qualche decina di iscritti che hanno gettato discredito sull’intera categoria, posto che l’opinione pubblica non dispone degli strumenti per discernere quale in effetti sia la reale consistenza ed il seguito di chi rilascia dichiarazioni scomposte.
Come è evoluto il sistema delle relazioni sindacali?
Direi che c’è stato un necessario adattamento alle mutate condizioni sociali, normative ed economiche. Il sindacato delle origini ha dovuto combattere per ottenere il riconoscimento sul piano contrattuale di fondamentali diritti del poliziotto lavoratore, e questo quando un contratto ancora non c’era, dovendosi peraltro confrontare con una classe dirigente ammantata di una mentalità militare che di tutto si preoccupava, tranne che delle condizioni in cui era chiamato a lavorare il personale. Oggi, a distanza di quattro decadi, in un momento in cui le tutele di base sono assicurate da un soddisfacente impianto di garanzie contrattuali, l’azione del sindacato si è dovuta necessariamente differenziare, affiancando al momento delle rivendicazioni negoziali quello dell’assistenza e dei servizi agli iscritti.
Per quel che riguarda il Siulp credo che questo processo possa essere ben descritto dal titolo dato ai lavori dell’VIII congresso nazionale celebrato a maggio 2018: “Dal movimento al rinnovamento: la centralità della persona quale motore per lo sviluppo e la sicurezza del futuro”. Una sintesi che spiega come per noi del Siulp la discussione intorno alla condizione del poliziotto lavoratore sia pregiudiziale rispetto a qualunque forma di modifica degli assetti del sistema preposto alla gestione della pubblica sicurezza.
L’attuazione della Legge 121/1981 è avvenuta lentamente e ancora molto resta da fare: come giudica il suo impianto a distanza di 40 anni? È ancora valido o necessiterebbe di modifiche?
Direi che, dopo una travagliata gestazione, il legislatore che ha dato alla luce la Legge 121 ha dimostrato una straordinaria capacità di mediare tra le opposte istanze rappresentate da non omogenei schieramenti parlamentari e le preoccupazioni dell’opinione pubblica. Si è sempre posto l’accento sul tema della smilitarizzazione, animando le contrapposizioni e le inquietudini di chi non riusciva ad immaginare fosse possibile mantenere l’ordine senza una rigida impostazione tipica del modello militare, quando invece, come dimostrano i quarant’anni trascorsi dall’entrata in vigore di questo fondamentale testo normativo, sarebbe stato più opportuno parlare di democratizzazione della Polizia di Stato. Il fatto che oggi questa Istituzione risulti essere la più apprezzata nel gradimento dei consociati per un verso comprova il positivo slancio offerto dalla legge di riforma, e per l’altro ne attesta la sua capacità di mantenere questa forza propulsiva nonostante il trascorrere del tempo. Detto che la centralità dei temi portati dalla Legge 121 è tuttora attuale, è giunto il momento di sottoporne l’impianto complessivo ad un tagliando di verifica.
Anche in considerazione del processo riorganizzativo in atto tanto del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, quanto delle articolazioni territoriali…
Sì. Fenomeni un tempo sconosciuti, come la transnazionalità dei sodalizi criminali e le sconfinate praterie del web nelle quali imperversa una efferata nuova generazione di delinquenti, impongono un aggiornamento delle strategie investigative che non può essere disgiunto da una profonda revisione normativa. Sempre però lasciando il timone che controlla la rotta della navigazione della pubblica sicurezza nelle salde mani dell’autorità civile. Una frontiera che occorre continuare a presidiare per evitare la tentazione di replicare esperimenti fallimentari quali quello che ha visto l’assorbimento del personale del Corpo Forestale nelle fila dell’Arma dei Carabinieri, le cui infauste conseguenze, a tacere della forzata militarizzazione di migliaia di operatori, avvenuta ad oltre 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sono davanti agli occhi di tutti. Un’operazione con la quale si è soddisfatto esclusivamente l’interesse di una lobby militare che continua a svolgere un pesante condizionamento sulle scelte del legislatore.
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