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Marzo/2020 - Articoli e Inchieste
Gerarchie militari
Rapporti tra pm e polizia giudiziaria
di Cleto Iafrate

Un Maresciallo dei Carabinieri, comandante di Stazione, viene condannato dal Tribunale militare di Verona alla pena di anni uno di reclusione militare per i seguenti reati:
a) insubordinazione con ingiuria continuata e aggravata (art. 189 c.p.m.p., comma 2 e art. 47 c.p.m.p., n. 2) per aver offeso il prestigio, l'onore e la dignità del suo Comandante di Compagnia;
b) disobbedienza aggravata (art. 173 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2) per essersi rifiutato di obbedire all'ordine di servizio di firmare per presa visione il provvedimento di avvio di un procedimento disciplinare.
La decisione viene prontamente impugnata dal Maresciallo e la Corte di appello militare riforma la sentenza e riduce la pena a mesi cinque di reclusione militare. I giudici di appello ritengono penalmente rilevanti solo le seguenti condotte poste in essere dal Maresciallo:
a) l'aver ostacolato il colloquio fra un Brigadiere della Stazione da lui comandata e il Capitano. Quando quest'ultimo gli aveva chiesto di allontanarsi dall'ufficio per potergli consentire di parlare con il Brigadiere, il Maresciallo aveva risposto al suo superiore: «No, l'ufficio è mio, esca lei».
b) l'aver rispedito al Capitano in busta chiusa una missiva che il superiore gli aveva inviato, poi risultata essere un provvedimento di "esortazione ad un più diligente e corretto assolvimento dei compiti di comando riferiti al settore della Polizia Giudiziaria".
Il difensore del Maresciallo, però, convinto delle ragioni del suo assistito, propone ricorso avverso la sentenza della Corte militare d'appello, chiedendone l'annullamento.
La prima Sezione penale della Corte di Cassazione rileva un vizio di motivazione che "mina in modo decisivo la coerenza e logicità del discorso" seguito dalla Corte d'Appello. Il ricorso è fondato. La sentenza, dunque, viene annullata e il caso rinviato per il nuovo giudizio alla Corte di appello militare, in diversa composizione.
La sentenza n. 31829 del 18.07.2019, Sez. I, Cassazione penale.
Per meglio comprendere le ragioni che hanno spinto la Corte di Cassazione ad annullare la sentenza, occorre far luce sui motivi alla base del contrasto tra il Maresciallo e il suo comandante.
Il conflitto insorge in ordine alle indagini di polizia giudiziaria che il Maresciallo stava eseguendo; in particolare, "il contrasto fra il Capitano e il Maresciallo si era manifestato a seguito delle ripetute richieste rivolte dal superiore al subordinato di fornire chiarimenti sul tema della conduzione da parte del secondo di determinate indagini di polizia giudiziaria".
La difesa del Maresciallo sostiene, infatti, che il sottufficiale con l'uso di determinate espressioni "non aveva fatto altro che manifestare il suo dissenso rispetto alla posizione autoritaria assunta dall'ufficiale"; pertanto, "la Corte militare di appello ha omesso di contestualizzare la condotta messa in essere dal sottufficiale, da valutarsi invece in stretta relazione con le indiscriminate pressioni legate ai continui interventi del superiore gerarchico nell'attività propria della sfera del militare subordinato".
"Era stato proprio il contrasto su questo argomento che aveva determinato la frattura nei rapporti fra i due militari, avendo il Capitano richiesto al sottoposto delucidazioni sull'attività svolta ed avendo invece il Maresciallo risposto in modo del tutto oppositivo, anche con il comportamento e con gli atti oggetto di contestazione".
Scrive la Cassazione che la motivazione posta a base della sentenza impugnata non appare adeguata al fine di sorreggere il giudizio di colpevolezza dell'imputato, in relazione all'esigenza di verifica approfondita "della rilevanza dell'interferenza fra gli episodi incriminati e lo svolgimento da parte del militare subordinato di indagini di polizia giudiziaria a lui direttamente demandate dall'autorità giudiziaria".
In particolare, si dà atto nelle decisioni di merito che il Maresciallo "non aveva inteso deflettere dal compimento dell'indagine già intrapresa e riteneva di non doversi coordinare, per quelle attività di polizia giudiziaria, con i colleghi della Stazione di (OMISSIS), che invece il Capitano considerava essere competenti per territorio, per cui aveva ripetutamente dato indicazioni nel relativo senso".
La Cassazione evidenzia che la giurisprudenza costituzionale stabilisce che "l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria e, così, esprime il preciso, non equivocabile, significato di scolpire i due termini del rapporto di dipendenza funzionale, con riferimento all'autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria, in modo da escludere interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, pur quando tali poteri promanino dalla medesima scala gerarchica dell'operatore di polizia incaricato della conduzione delle indagini: è proprio in virtù di questa salvaguardia assicurata dalla Carta fondamentale alla dipendenza funzionale che la direzione delle indagini risulta effettivamente riservata all'autonoma iniziativa e determinazione dell'autorità giudiziaria medesima".
In altri termini, scrive la Cassazione, "il rapporto di dipendenza funzionale non tollera che -foss'anche per comprensibili esigenze di natura informativa ed organizzativa- nella dialettica propria del rapporto gerarchico si sviluppino forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dalla competente autorità giudiziaria".

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