Una possibile saldatura tra Cosa Nostra e i Nar: l’omicidio del Presidente della Regione Sicilia e quello del Magistrato Mario Amato collegati da una pistola calibro 38
uarant’anni per comparare un revolver e quattro proiettili. Quarant’anni con gli elementi in bella vista e persino sottolineati. Quarant’anni senza che investigatori e inquirenti disponessero un esame balistico per accertare se la Colt Cobra calibro 38 special impugnata dal killer neofascista Gilberto Cavallini per assassinare il sostituto procuratore Mario Amato, il 23 giugno del 1980 a Roma, fosse una delle due armi che il precedente 6 gennaio, a Palermo, erano state usate per uccidere Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana e fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Quarant’anni. Trascorsi inutilmente. Sì, poiché la perizia affidata al Racis dei Carabinieri dal procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, che da due anni ha avviato una nuova inchiesta sul delitto dell’esponente politico siciliano, non ha dato l’esito sperato, né positivo né negativo, bensì un responso definito «coincidente», come hanno raccontato Lirio Abbate e Paolo Biondani in un articolo pubblicato nell’ultimo numero del 2019 de l’Espresso. La perizia, però, è tecnicamente impossibile a causa del deterioramento e dell’ossidazione dei proiettili estratti dal corpo di Mattarella, quarant’anni fa. Dunque, non c’è la prova che i due delitti eccellenti siano stati commessi con la stessa Colt.
All’una meno un quarto del pomeriggio del 6 gennaio del 1980, mentre Piersanti Mattarella sta per recarsi alla messa dell’Epifania insieme con la famiglia, fuori dal garage di casa, nel centralissimo viale della Libertà, c’è ad attenderlo un giovane killer biondo, «dagli occhi di ghiaccio» e dall’andatura «ballonzolante»: così lo descrive la vedova, ai magistrati. L’uomo si avvicina al finestrino anteriore sinistro dell’auto e spara quattro colpi con un revolver calibro 38, che s’inceppa; si allontana, raggiunge una Fiat 127 bianca parcheggiata sul lato opposto della strada, riceve dall’autista un altro revolver, torna sui propri passi ed esplode altri quattro colpi contro il presidente Mattarella, ferendo lievemente anche la moglie, Irma Chiazzese, che tentava di fare scudo col proprio corpo all’agonizzante consorte. Poi il sicario si allontana definitivamente, insieme con il proprio complice. Mattarella muore meno di un’ora dopo in ospedale. La 127 sarà ritrovata a cinquecento metri di distanza dal luogo del delitto. Era stata rubata il giorno precedente.
Secondo la perizia disposta dai magistrati del pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, «per l’omicidio ai danni di Piersanti Mattarella sono stati usati due revolvers, probabilmente una Colt Cobra e una Rohm oppure una Charter Arms, utilizzando munizioni calibro 38 special».
Nell’ottobre del 1982, davanti al giudice istruttore di Roma, Cristiano Fioravanti, giovanissimo killer neofascista appartenente ai Nuclei armati rivoluzionari (Nar), racconta al magistrato che, col padre, quando videro gli identikit dei due assassini di Mattarella, riconobbero il proprio fratello maggiore, Giuseppe Valerio detto Giusva, e Gilberto Cavallini, entrambi leader dei Nar, e che il genitore avrebbe esclamato: «Dio mio! Hanno fatto anche questo!». Cristiano, inoltre, aggiunge che Giusva e Cavallini, nei primi giorni del 1980 si trovavano a Palermo, ospiti di Francesco Mangiameli, leader siciliano di un’altra organizzazione eversiva dell’arcipelago neofascista, Terza posizione (Tp). Nar e Tp progettavano l’evasione dal carcere di Palermo del terrorista neofascista Pierluigi Concutelli, il loro «mito». Un paio d’anni dopo, nel corso della sua progressione collaborativa, Cristiano aggiungerà che sarebbe stato proprio il fratello a confessargli di avere ucciso il presidente della Regione Siciliana, collocando temporalmente tale confidenza a subito dopo l’omicidio di Mangiameli, commesso dallo stesso Cristiano, su richiesta del fratello, alla fine dell’estate del 1980, proprio per impedirgli di fare rivelazioni sul delitto Mattarella.
I verbali di Cristiano Fioravanti sono inviati ai magistrati di Palermo che indagano sull’omicidio Mattarella, seguendo la pista mafiosa, alla quale va così ad aggiungersi la “pista nera”.
Nell’ottobre del 1988, davanti alla Commissione parlamentare antimafia in missione a Palermo, il giudice Giovanni Falcone racconta così le indagini in corso: «È un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura “la pista nera” sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro paese, anche da tempi assai lontani». Dall’inchiesta, aggiunge Falcone, emergono anche «collegamenti e coincidenze» con le indagini sulla strage di Bologna (commessa dai Nar, secondo le risultanze processuali) e con la strage di Natale sul treno 904 (commessa da neofascisti, camorristi e mafiosi). «Collegamenti – chiarisce Falcone davanti ai commissari – che risalgono a certi passaggi del golpe Borghese, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana. Ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona, e sono tutti fatti noti. Questi elementi – conclude il magistrato poi ucciso a Capaci – comportano per l’omicidio Mattarella, se non si vorrà gestire burocraticamente questo processo, la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi».
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