Don Masino Buscetta, “la prima
gola profonda della mafia
Una notte serena e stellata. Una villa enorme in festa. Una pace illusoria e sospesa prima della guerra. Comincia con un raduno di mafia, tra echi de Il Gattopardo e ammiccamenti a Il Padrino, l’ultima creatura cinematografica di Marco Bellocchio, Il Traditore. La presenza del film a Cannes 72 si è rivelata fortunatamente più che una semplice rappresentanza, strappando 13 minuti di applausi alla prima mondiale in Croisette. Il Traditore è un crime all'italiana solido e di sostanza, che ci fa ritrovare un Bellocchio vigoroso e rigenerato rispetto ai suoi ultimi, altalenanti e in parte confusi progetti.
Tommaso Buscetta, soldato fedele della Cosa Nostra vecchio stile, è rifugiato in Brasile, dove la polizia federale lo stana e lo riconsegna allo Stato italiano. Ad aspettarlo c'è il giudice Giovanni Falcone che vuole da lui una testimonianza indispensabile per smontare l'apparato criminale mafioso. E Buscetta decide di diventare “la prima gola profonda della mafia”. Il suo diretto avversario (almeno fino alla strage di Capaci) non è però Riina ma Pippo Calò, che ha sposato gli ideali folli delle nuove cosche e non ha protetto i figli di Don Masino durante la sua assenza: è lui, secondo Buscetta, il vero traditore di questa storia di crimine e coscienza che ha segnato la Storia d'Italia e resta un dilemma etico senza univoca soluzione.
È con l'energia di un regista sorprendentemente moderno che Bellocchio tiene le redini di una storia articolatissima, ricolma di personaggi, passaggi, confronti e giudizi (umani e di tribunali). Il film deve dare fin da subito un colpo di reni e un'infornata di spiegazioni testuali in sovrimpressione, tanto è complessa la vicenda narrata. Infatti non si limita a registrare alcuni passaggi salienti della cronaca nazionale, ma ne indaga l’anima oscura, tra reale e surreale. Anzitutto, con poche sapienti pennellate sono tratteggiati in maniera cruda l’ascesa della violenza sotto il dominio di Riina, gli attimi memorabili del maxiprocesso nell’aula-bunker di Palermo iniziato nel febbraio 1986 e la cui sentenza, proclamata nel dicembre 1987, inflisse ben 360 condanne e incrinò in maniera irreversibile la criminalità organizzata siciliana, e infine la strage di Capaci nel 1992, in cui persero la vita il giudice Falcone, la moglie Francesca e gli uomini della sua scorta. Attraverso una scelta tecnica originale e scioccante, il regista rende il terribile attentato dall’interno della macchina del giudice che, mentre dialoga con la moglie, viene improvvisamente sbalzato fuori strada da una potente esplosione davanti a lui, a cui segue lo schianto letale.
Nell’affannoso percorso di redenzione tuttavia, non c’è solo la storia documentata, i dialoghi condensati dagli scambi verbali avvenuti in sede processuale, o nei lunghi interrogatori di Buscetta. Tra le righe emerge un altro lato della criminalità organizzata particolarmente temibile: l’ipocrisia, che è un’arma quasi più pericolosa di un fucile carico. Il Traditore è infatti un film ambiguo fin dal titolo, perché il tradimento è tale dal punto di vista di Cosa Nostra, ma non lo è dal punto di vista del riscatto umano del primo pentito. La doppia lettura è intrinseca alla vicenda di Buscetta, per alcuni un eroe, per altri un infame, un opportunista di comodo ma anche una cartina di tornasole dell'ipocrisia del sistema di giustizia.
La manifestazione visibile di questo duplice registro è la continua alternanza nel film fra un dentro e un fuori: l'interno e l'esterno delle case, il crimine organizzato in cui si è catapultati da bambini e da cui non si esce veramente mai, il carcere e la libertà, le auto americane con il tettuccio che "si apre e si chiude", la palla dentro o fuori in una partita di calcio guardata da italiani usciti dal loro Paese ma con l'eterno sogno di rientrarci.
Un film nel complesso riuscito, con il fiore all’occhiello della straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino, che a tratti paga però un mancato approfondimento dei personaggi di contorno (discutibili le due apparizioni di Andreotti) e una antispettacolarità stilistica che rischia di non scrollarsi di dosso una certa allure televisiva.
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