I provvedimenti approvati in via definitiva il 27 settembre 2018
dal Consiglio dei Ministri altro non sono che buoni propositi:
la cronistoria dei decreti, da Napolitano al ministro Orlando
fino al governo Conte
Il 27 settembre 2018, il Consiglio dei Ministri (governo Conte) ha approvato, definitivamente, cinque decreti in attuazione della legge delega per la riforma del Codice penale, del Codice di procedura penale e dell’Ordinamento Penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 103).
Tre di questi decreti, in particolare, hanno riguardato il sistema penitenziario italiano:
1 - assistenza sanitaria, procedimenti e vita penitenziaria (su questo spicca la scelta del governo di mancata attuazione della delega nella parte volta alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi alle misure alternative alla detenzione in carcere);
2 - vita detentiva e lavoro;
3 - esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni.
Gli altri due riguardavano il casellario giudiziale e le spese per le intercettazioni.
Si è così concluso un lungo iter che vale la pena di riassumere per comprendere meglio (ancora prima di capire cosa prevedono i tre decreti) come negli ultimi anni si sia decisamente abusato della definizione di “riforma penitenziaria”, associata a dichiarazioni di intenti e di proposte che poi hanno trovato definitiva espressione in questi tre decreti, i quali avrebbero dovuto stravolgere la riforma penitenziaria originale, quella del 1975 che pure ha avuto molte modifiche e integrazioni in tutti questi anni.
Come spesso avviene in simili ambiti, non è facile stabilire con certezza un preciso momento in cui tutto è iniziato, però questa cosiddetta “riforma penitenziaria” sembrerebbe avere un ispiratore illustre: l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
L'8 ottobre 2013 infatti il Presidente, rieletto ad aprile dello stesso anno per il secondo mandato, si era rivolto alle Camere “con la massima determinazione e concretezza” per parlare di una “questione scottante”: la “drammatica questione carceraria” e partendo “dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell'uomo”. Appena qualche mese prima, l'8 gennaio 2013, secondo la procedura della sentenza pilota - (Torreggiani e altri sei ricorrenti contro l'Italia), la Corte Edu aveva accertato la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea che, sotto la rubrica "proibizione della tortura", pone il divieto di pene e di trattamenti disumani o degradanti a causa della situazione di sovraffollamento carcerario in cui i ricorrenti si sono trovati.
Quello del sovraffollamento delle carceri, in quei mesi, era ancora un'emergenza. A ottobre 2013 la popolazione detenuta era di 64.323 presenze per circa 47.700 posti dichiarati disponibili (in realtà a questi ne vanno sottratti ancora oggi circa 5mila non agibili). La situazione andava migliorando di mese in mese, anche grazie ai provvedimenti legislativi che Parlamento e governi andavano assumendo e di cui è stato dato ampio spazio su questa rivista nei numeri precedenti, ma si era ancora lontani dal minimo storico (dell'ultimo decennio) del dicembre 2015 con 52.164 presenze per 49.600 posti.
Per questo, e per tutti i mesi a seguire, il monito del Capo dello Stato ottenne vasta eco fino a raggiungere le orecchie e il cuore del ministro della Giustizia Andrea Orlando (scelto proprio da Napolitano al posto di Nicola Gratteri, nel governo Renzi nato nel febbraio 2014), il quale nel maggio del 2015 convocò gli “Stati generali dell'esecuzione penale”. Anche quel richiamo agli “Stati generali” è sembrato da subito sproporzionato, ma sta di fatto che i 18 tavoli di lavoro, composti da oltre duecento personalità ritenute esperte del sistema penitenziario e di diverse discipline, produssero riflessioni e proposte circa l’esecuzione della pena che consegnarono a Orlando nell'aprile 2016.... [continua]
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