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Agosto/Settembre/2018 - Interviste
Intervista
Un Dna locale per la sicurezza urbana
di a cura di Michele Turazza

A colloquio con la criminologa Rossella Selmini.
Centralismo e abbandono della prevenzione sono i mali di politiche
sempre più sbilanciate sul fronte della repressione e del controllo
della marginalità. L’urgenza di recuperare il ruolo
di coordinamento delle Regioni


A dieci anni dal pacchetto sicurezza del 2008, promosso dall’allora ministro Maroni, e dalla conseguente stagione delle ordinanze “creative”, dovrebbe ormai essere tramontata la cieca fiducia dei sindaci nello strumento dell’ordinanza, figlia della convinzione che bastino alcuni atti amministrativi per garantire una maggiore sicurezza nelle nostre città. Nonostante le cause delle questioni inerenti alla sicurezza siano complesse, i vari governi hanno sempre puntato a rimedi semplici e immediatamente azionabili, magari pure di impatto mediatico. In assenza di strategie a lungo termine in tema di sicurezza, le ordinanze del sindaco rispondevano a tali requisiti: semplicità e immediata disponibilità. L’ultimo “pacchetto sicurezza”, approvato dal precedente Governo, ha definito la sicurezza urbana come quel “bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile”. Tra gli strumenti promotori di sicurezza nelle città (centri urbani e aree rurali limitrofe), vengono ridefiniti i Patti per l’attuazione della sicurezza urbana i quali, sottoscritti dal prefetto e dal sindaco, perseguono prioritariamente i seguenti obiettivi: prevenzione e contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa e predatoria, attraverso servizi e interventi di prossimità, nonché l’installazione dei sistemi di videosorveglianza; promozione e tutela della legalità; promozione del rispetto del decoro urbano; promozione dell’inclusione, della protezione e della solidarietà sociale. A una prima lettura può apparire senz’altro degno di approvazione il, sia pur generico, richiamo alle politiche sociali, come finalità da perseguire coi nuovi Patti. Una lettura più approfondita del provvedimento, però, rivela che non ci si è discostati dal solco dei precedenti decreti. Su tutto l’articolato pende la spada di Damocle della clausola di neutralità finanziaria (l’attuazione del decreto dovrà avvenire, cioè, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente). Le uniche risorse aggiuntive stanziate sono destinate soltanto all’installazione di sistemi di videosorveglianza, riponendo forse una fiducia eccessiva nella modalità di prevenzione situazionale più rapidamente attuabile (ossia la diffusione capillare di telecamere sul territorio).
Merita un cenno conclusivo l’introduzione del cosiddetto “daspo urbano”, con sanzioni amministrative pecuniarie per chiunque ponga in essere condotte che impediscano l’accessibilità e la fruizione di infrastrutture di trasporto e loro pertinenze, oltre all’ordine di allontanamento dal luogo di commissione del fatto. Al di là di possibili vizi di compatibilità con le libertà fondamentali sancite dalla Costituzione, tale nuovo strumento di promozione del “decoro urbano” pare confermare la tendenza, ormai da tempo in atto, di criminalizzazione della miseria, con la conseguente – e purtroppo radicata – illusione fallimentare di poter trattare questioni di ordine eminentemente sociale, con gli strumenti del diritto punitivo. Anziché intervenire alla radice dei problemi, agendo sulle loro cause, si colpiscono i sintomi, perpetuando situazioni di marginalità che, scomode alla vista, vengono rimosse, spostate ove non siano di disturbo: “[…] la cattiva gestione della sicurezza urbana costituisce, in definitiva, un elemento chiave per comprendere appieno il processo di produzione dell’insicurezza urbana” (così Jaume Curbet, intervistato sul numero luglio/agosto 2011 di questa Rivista). Polizia e Democrazia torna a parlare di politiche per la sicurezza urbana con la prof.ssa Rossella Selmini, docente di criminologia all’Università del Minnesota (che ha recentemente pubblicato, in Italia, il volume “Da Kurt Wallander a Salvo Montalbano. Polizia e poliziotti nella letteratura europea contemporanea”, edito da Carocci).

2008-2018: la sicurezza urbana in un decennio. Partiamo dall’anno zero, il 2008, quando, anche al di fuori del mondo accademico, si inizia a parlare di sicurezza urbana. Il decreto Maroni, le ordinanze dei sindaci, le ronde, per garantire la sicurezza urbana. Innanzitutto, quale concezione di sicurezza urbana sottintendevano quei provvedimenti e che cosa si intende, invece, per sicurezza urbana?

Innanzitutto concordo sul considerare l’anno 2008 come punto di svolta nelle politiche di sicurezza urbana, perché a mio avviso, proprio in quel momento (con qualche avvisaglia precedente), le politiche di sicurezza urbana hanno perso la connotazione fortemente localistica e orientata alla prevenzione, per diventare centraliste (controllate cioè dal governo centrale e quindi dal ministero dell’Interno) e orientate al controllo e alla repressione. Per esempio, nella riforma del sistema delle ordinanze sindacali prevista da Roberto Maroni, allora ministro dell’Interno, il sindaco agisce come “ufficiale di governo”, non come rappresentante della comunità locale (da essa eletto). E l’anno precedente, il ministro Amato aveva avviato un processo di standardizzazione dei cosiddetti protocolli di sicurezza, riportando anche queste esperienze sotto il controllo diretto del governo centrale. ... [continua]

LEGGI L'INTERVISTA COMPLETA:
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