È una forma di violenza estrema che continuerà a lasciare
tracce di sé nella storia delle vittime. È importante che chi indossa
gli abiti dell’Autorità non smarrisca mai il senso del legame
tra diritti e doveri propri dell’essere
un cittadino tra altri cittadini
Sono due gli anni che costituiscono uno spartiacque nella storia delle Forze dell’ordine nel nostro Paese: il 1981, anno di svolta e cambiamento, con l’approvazione della legge di riforma della Pubblica Sicurezza in senso democratico, frutto delle lotte dei movimenti dei poliziotti democratici, e il 2001, anno di regressione, col G8 di Genova, dove – come sostiene efficacemente Nando dalla Chiesa nella Prefazione del volume “Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico” di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto (Liguori Editore, 2011) – si realizza “l’epifania dell’impossibile, o meglio di ciò che i cittadini nati e vissuti in uno Stato democratico provvisto di una Costituzione avanzata ritengono impossibile”, ossia “la fulminea dissoluzione del pudore democratico”.
Gli strascichi istituzionali, giudiziari e socio-culturali del G8 sono molteplici e non è questa la sede per indagarli; e non è possibile dar conto nemmeno dei casi, tristemente noti a tutti, di soggetti arrestati, deceduti successivamente alla permanenza in posti di Polizia o detenzioni. Spetta alla magistratura indagare e accertare, caso per caso, le responsabilità dei singoli. Compito di chi crede in una Polizia democratica, siano essi giornalisti, avvocati, magistrati, agenti stessi o cittadini comuni, è tenere alta la guardia e non tollerare alcun episodio di violenza contro persone sottoposte, per qualsiasi motivo, a restrizione della libertà, così come imposto, se non bastasse il senso di umanità, dalla stessa Costituzione repubblicana. Perché con le torture e le violenze il tempo non è galantuomo: le ferite restano aperte.
La nostra rivista, nata per supportare il Movimento di democratizzazione della Polizia, non ha mai giustificato la violenza, né taciuto “di fronte a certi rigurgiti di sapore sbirresco” o “a iniziative di qualche sbirro di scelbiana memoria”. Ha sempre denunciato, spesso sola tra gli organi di stampa, gli eccessi del potere. “Pensavamo che finalmente fosse tramontata fra le Forze dell’ordine – scriveva il direttore Franco Fedeli nel 1988 – l’epoca delle maniere forti e che ormai nessuno avrebbe consentito a chi rappresenta uno Stato di diritto di avvalersi di un presunto diritto di Stato, laddove per diritto di Stato s’intenda l’arbitrio di violare le garanzie costituzionali dei cittadini (di tutti i cittadini, anche quelli indiziati di reato, sospettati, colpevoli, giudicati, condannati, reclusi)”; e invece in troppi hanno dimenticato “che, per una Polizia democratica, la vita di ogni cittadino, foss’anche il peggior criminale, è sacra e che in nessun caso il fine può giustificare i mezzi; semmai un fine lecito deve avvalersi di mezzi altrettanto leciti”.
Il lucido pensiero di Fedeli rimane di estrema attualità. Non ha mai esitato a stigmatizzare ogni violenza “da parte di chi ha facoltà di agire nel nome di uno Stato democratico per la difesa della collettività”, o il riaffiorare di “un falso spirito di Corpo che può essere in nessun modo né compreso, né apprezzato. I poliziotti devono convincersi che tollerare o coprire certe degenerazioni significa rendere inutile il sacrificio di tutti quei loro colleghi che sono caduti nella dura lotta contro il crimine”, evitando di “cadere nel tranello di una inutile difesa corporativa, ma al contrario ritrovando quelle spinte ideali che animarono il Movimento democratico prima della riforma”. “Non si può tollerare – concludeva il direttore – che il patrimonio di tante lotte venga buttato al vento e vogliamo sperare che anche il sindacato di Polizia dimostri la necessaria intransigenza: rifiutare certi metodi cileni, significa non solo rendere onore alla giustizia, ma dare anche una inoppugnabile testimonianza dell’avvenuto cambiamento della polizia”. (I passi citati sono tratti dagli editoriali di Franco Fedeli, pubblicati sui numeri 4/1982, 11/1985 e 6/1988 della rivista Nuova Polizia).
Il dibattito sulla tortura in Italia si è riaperto negli ultimi anni a seguito delle pronunce di alcune Corti, sia italiane che internazionali, sui fatti del G8 e di alcune discusse “promozioni” di funzionari di Polizia condannati nell’ambito di procedimenti relativi ai fatti di Genova. Occasione di riflessione sono le pubblicazioni di due studiosi dell’Università di Padova, Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto, che hanno indagato, a distanza di anni, sulle conseguenze della “macelleria messicana” della Scuola Diaz sul piano della fiducia individuale, ma soprattutto di quella istituzionale, e sul rapporto tra forme di violenza e regimi democratici. “Violenza e democrazia. Psicologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie” è il titolo del loro volume, edito da Mimesis (2016, pp. 198, euro 18,00). Polizia e Democrazia ha incontrato i due Autori.
Il binomio “Violenza e democrazia” dà il titolo al vostro ultimo libro. Iniziamo con alcune precisazioni terminologiche: violenza, forza, coercizione, in una democrazia.
Al centro di una democrazia ci sono i diritti dei cittadini che lo Stato è chiamato a rispettare e tutelare. Lo stesso Stato è sottoposto alle leggi e può esercitare le sue funzioni di comando solo seguendo determinate regole. Se in uno Stato di polizia un’autorità può decidere d’imperio di adottare misure eccezionali per affrontare un certo problema, in uno Stato democratico qualsiasi provvedimento deve essere conforme alle leggi vigenti. E tutte le leggi devono sottostare alla legge delle leggi, ossia la Costituzione. Senza questa Carta vincolante, lo Stato disporrebbe di un potere sregolato. Pertanto, ogni organo di una democrazia deve inchinarsi davanti alla Costituzione. Uno Stato costituzionale è uno Stato che autolimita il proprio potere, riconoscendo la presenza di diritti inviolabili. Uno Stato costituzionale è quindi al servizio della società. Però, se lo Stato democratico è chiamato a essere rispettoso del quadro giuridico di riferimento, senza procedere con protervia e discrezionalità, tuttavia non va dimenticato che è pur sempre uno Stato dotato di potere e apparati coercitivi. ... [continua]
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