Era il fratello del giudice Ferdinando che stava indagando
su Cosa nostra e la Banda della Magliana.
Fu eliminato per vendetta trasversale
da un’alleanza Mafia-Camorra
Il primo ottobre 1983 a Maddaloni, Caserta, fu ucciso Franco Imposimato mentre usciva dalla fabbrica in cui lavorava. Era in macchina con la moglie e il cane per rientrare a casa.
A trecento metri dallo stabilimento della Face Standard di Maddaloni una Ritmo 105, con tre sicari a bordo, gli sbarrò la strada. Due di loro scesero dall’auto e aprirono il fuoco. Undici proiettili colpirono Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando e sindacalista, oltre che impiegato della Face. Nell’agguato riuscì a salvarsi la moglie, impiegata come lui alla Face, anche se ferita gravemente da due pallottole sparate dal killer Antonio Abbate, riconosciuto dalla donna alcuni anni dopo in sede processuale.
Il giorno dopo arrivò una telefonata all’Ansa che rivendicava quell’agguato: “è stato ucciso il fratello del giudice boia”. Si pensò, a quel punto, a un omicidio di matrice terroristica, forse a opera delle Brigate Rosse. Successivamente, invece, si capì che si era trattato di un agguato di matrice mafiosa e camorristica.
In realtà Franco Imposimato fu colpito perchè si voleva colpire il fratello magistrato, Ferdinando. Una classica e odiosa vendetta trasversale.
Quell’omicidio fu deciso dalla Banda della Magliana, che operava a Roma, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, come una vera e propria agenzia del crimine, spesso per conto terzi, con la complicità della Camorra napoletana e della Cosa nostra siciliana. Lo scopo era quello di intimidire Ferdinando Imposimato, il magistrato che faceva il giudice istruttore a Roma e che si era occupato di importanti processi e che, proprio nel 1983, aveva depositato la prima e la seconda sentenza del processo sull’omicidio di Aldo Moro, lo statista democristiano che fu rapito nel 1978 a Roma dalle Brigate Rosse.
Ferdinando Imposimato stava sferrando un duro colpo alla mafia. Era sul punto di svelare i suoi legami con la politica e le sue alleanze romane e campane. Indagando infatti sulla morte di Domenico Balducci, un pregiudicato romano associato ai siciliani, era sul punto di scoprire la vera identità di don Mario Aglialoro o, come era detto anche, Salamandra. Ovvero Pippo Calò, il capo della famiglia mafiosa di Porta Nuova, a Palermo, e cassiere di Cosa nostra, a Roma.
In quel periodo Cosa nostra siciliana era legata, da un lato, al Lazio e a Roma, attraverso la Banda della Magliana, e dall’altro, alla Campania, a Napoli e a Caserta, attraverso la Camorra casertana e napoletana nelle persone di Antonio Bardellino, capo e fondatore, potremmo dire, del clan dei casalesi, egli stesso affiliato a Cosa nostra, Lorenzo Nuvoletta, boss di Marano e Vincenzo Lubrano, boss di Pignataro Maggiore. ... [continua]
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