Servono investimenti, cantieri di lavoro, una nuova moderna
economia montana. È l’analisi di un ex dirigente
superiore della Forestale e poi professore
alla Facoltà di Agraria a Padova
Negli anni ’50 ho lavorato come operaio nei cantieri di sistemazione idraulico-forestale in montagna entrando poi a far parte del Corpo Forestale dello Stato attraverso concorso per ispettore forestale.
Per l’attività svolta e per i compiti affidatimi ho avuto modo di conoscere la montagna appenninica dall’Aspromonte alla Liguria nelle realtà ambientali e socio-economiche più recondite. Non solo, mi si è presentata anche l’opportunità di arricchire le mie conoscenze tecniche, poi trasferite a favore del territorio nazionale, per numerose collaborazioni tecnico-scientifiche con la Germania, l’Austria, con vari Stati dell’Est europeo, con Canada, Colombia britannica, Stati Uniti e Repubblica popolare Cinese, collaborazioni molto proficue l’Amministrazione Forestale dello Stato italiano.
Sono indi uscito dal Cfs dove ero dirigente superiore per passare all’Università di Padova, facoltà di Agraria, corso di laure in Scienze Forestali e Ambientali, prima come professore associato e infine come professore ordinario di Tecnologia e utilizzazioni forestali dopo aver anche insegnato alla Facoltà di Agraria di Reggio Calabria come professore straordinario e ho sempre continuato ad occuparmi dei problemi connessi alla montagna appenninica.
Mi scuso di questa immodesta presentazione personale che però ho ritenuto necessaria per far capire lo scopo e lo spirito di questa mia lettera destinata agli “uomini di buona volontà”.
Dopo miliardi e miliardi di lire spesi per “presidiare” sotto vari aspetti le zone montane con enormi sacrifici di migliaia di operai che talvolta impiegavano anche 2/3 ore per raggiungere a piedi il luogo di lavoro, dopo vaste realizzazioni idraulico-forestali, mi piange il cuore nell’assistere impotente all’abbandono quasi generalizzato dell’Appennino, al desolante spettacolo dell’assenza di manutenzioni di importanti foreste anche pubbliche, al preoccupante aumento del dissesto idrogeologico e di conseguenti tragedie umane con passerelle di politici animati di buone intenzioni ma senza seguito di fatti concreti.
Le nuove classi dirigenti forestali si sono da tempo estraniate da molti problemi della montagna perché tolti alle loro competenze e quindi non hanno mai svolto la vera attività forestale ovvero selvicoltura, sistemazioni idraulico-forestali, applicazioni pratiche delle varie leggi e disposizioni a favore delle zone montane affidate senza concreti risultati a una pletora di Enti con consiglieri, presidenti, apparati burocratici complessi con onerosissime spese di gestione e capacità tecniche che spesso lasciano molto a desiderare. Questi giovani funzionari sono quindi stati in grado di rappresentare ai politici la realtà attuale appenninica oppure si sono solo preoccupati di aspetti carrieristici connessi con la nuova sistemazione? Come si può disinvoltamente affermare che i boschi sono aumentati di superficie per l’abbandono di aree agricole, forse a giustificazione della cronica mancanza di interventi, quando non è corretto attribuire “significato di bosco” a tali superfici sulle quali in tempi lunghissimi e sono in pochi casi la natura, con una precisa sequenzialità floristica, ricostituisce il bosco inteso nella sua specifica struttura e giusta definizione?
Le notevoli superfici distrutte dagli incendi ogni anno, lasciate degradate e abbandonate a loro stesse in preda all’erosione a ruscellamenti, a frane, cespugliati peraltro esposti a nuovi incendi, e di cui nessuno ne parla, sono stati tolti dal computo della superficie forestale italiana? Al giro, peraltro, non si vedono lavori di ricostituzione boschive a seguito di incendi.
La “fusione” dell’Arma dei Carabinieri con il Corpo Forestale, organo preminentemente tecnico dello Stato, non può non suscitare legittime perplessità: la montagna “che non ha più pazienza” per inconcepibile abbandono e che quindi ci ripaga con la stessa moneta, non ha bisogno della “più grande Polizia specializzata per una tutela integrata” ma solo di investimenti, cantieri di lavoro, ripresa di una nuova moderna economia montana.
Come persona che per tutta la vita ha operato con sincera passione a favore dello Stato italiano, ho ritenuto doveroso almeno far conoscere quello che “non succede più in montagna” nella tenue speranza “ut omnia mala fugata sint”.
Adriano Gradi
LA MONTAGNA NON HA PIU’ PAZIENZA
Pro memoria per gli uomini di buona volontà
Adriano Gradi
Una realtà scomoda: l’abbandono della montagna appenninica
La montagna appenninica è da decenni trascurata anche nelle buone intenzioni. Non esiste un presidio selvicolturale e idraulico come si dovrebbe. Circa il 50-60% dei boschi abbandonati soprattutto i boschi cedui che rappresentano il frutto di vicende economiche e sociali di secoli e secoli. Si tratta di ecosistemi estremamente fragili che bisognano della cura e della manutenzione continua da parte dell’uomo. Altrimenti non si evolvono ma degradano.
Le sistemazioni idraulico forestali e i rimboschimenti iniziati dal Real Corpo delle Foreste verso la fine del 1800, intensificati dal 1910 con la legge Luzzatti con cui si creò anche il Demanio forestale dello Stato e si dette dignità a tutti i livelli alla istruzione forestale, continuati con la legge Forestale del 1923, con il Regio Decreto 13 febbraio 1933, n. 215, poi con la legge della Montagna di Fanfani nel 1952, con i Piani verdi e altre leggi, sono abbandonati a loro stessi.
Dai 20-24.000 ha rimboschiti annualmente dal Corpo Forestale dello Stato fino agli inizi degli anni ’70, cifra comunque modesta rispetto ai 200-300.000 ettari necessari di interventi compreso le ricostituzioni boschive e le decine di migliaia di ha. Percorsi da incendi, superfici anche queste dimenticate e in preda all’erosione, al ruscellamento, alle frane, si è passati a cifre irrisorie. Migliorano le tecnologie e i mezzi antincendio ma gli incendi, quasi tutti dolosi, continuano a provocare ingenti danni ambientali. La domanda sorge spontanea: perché?
A giustificazione della mancanza di interventi si diffonde la notizia che addirittura i boschi sarebbero aumentati di superficie dato l’abbandono delle aree agricole. Non è però corretto attribuire significato di “bosco” a tali superfici sulle quali in tempi lunghissimi e solo in pochi casi la natura, con una precisa sequenzialità floristica, ricostituisce il bosco inteso nella sua specifica struttura e giusta definizione: e poi le notevoli superfici distrutte dagli incendi ogni anno lasciate degradate come sono non possono essere considerate boschi, ma da detrarsi dal computo delle superfici veramente boscate.
Sempre più frequente la regressione a cespugliati, come un tempo dei rimboschimenti invecchiati per non aver avuto le indispensabili pratiche tecniche per la perpetuazione del bosco spesso mediante sostituzione con specie definitice: la progressiva rovina delle opere idrauliche, comprese quelle più importanti realizzate dal Genio civile, i dissesti idrogeologici, il minore assorbimento della CO2, l’alterazione del paesaggio bene economico.
Nella provincia di Arezzo, ad esempio, secondo una indagine della Camera di Commercio Industria e Agricoltura del 1984, nei 36 bacini montani classificati, esistono 5.000 opere idrauliche in stato di abbandono e così circa 8.000 ha. di rimboschimento quasi tutti con la densità iniziale senza gli opportuni diradamenti e la graduale sostituzione con specie definitive.
Ciò non è avvenuto né da parte dello Stato né delle Regioni, delle Province, delle Comunità Montane pregiudicando la perpetuazione del bosco. Nel contempo la situazione è ulteriormente peggiorata.
Nel recente convegno organizzato a Genova dalla Rete Rurale Nazionale sul tema della gestione dei boschi cedui si rileva “come in Liguria (ma la situazione è uguale in tutto l’Appennino, n.d.r.) da molti anni siano cessate le utilizzazioni boschive (si importa legna da ardere dalla Slovenia e dalla Croazia!, n.d.r.). L’abbandono dei boschi cedui, il loro rapido invecchiamento e la conseguente perdita di stabilità uniti alla particolare morfologia del terreno ligure e all’urbanizzazione, stanno causando gravi danni e frequenti in occasione di eventi metereologici anche non eccezionali. Abbiamo anche dimostrato che la corretta gestione del patrimonio forestale, sia privato che pubblico, può essere attuata con risultati positivi per l’economia e l’ambiente”.
I costosi piani di assestamento forestale (piani di gestione delle foreste) spesso non sono più applicati con notevoli danni ai popolamenti in particolare per le specie che richiedano trattamenti intercalari costanti, come ad esempio le faggete appenniniche, per cui ne viene compromessa la struttura e la perpetuazione del bosco trattandosi in molti casi di ecosistemi fragili la cui stabilità deve essere regolata dalla mano dell’uomo.
Alcuni anni or sono, per conto del Corso di Laurea in Scienze Forestali e Ambientali dell’Università di Padova, guidai una delegazione di colleghi della Facoltà di Biotecnica dell’Università di Lubiana attraverso l’Appennino centrale dall’Abetone a Vallombrosa a Camaldoli all’Alto Tevere. Quei docenti rimasero esterrefatti nel vedere migliaia di ettari di foresta r rimboschimenti abbandonati quando, dicevano, che con un minimo di meccanizzazione e di organizzazione di filiere corte, molte biomasse potrebbero essere utilizzate non solo per scopi tecnologici, ma anche per bioenergia, ridando contemporaneamente funzionalità biologica a molti ecosistemi e quindi stabilità: “ma come!” esclamarono ad un certo punto quei colleghi, “venite a ritirare in Slovenia gli scarti delle nostre foreste e, addirittura, legna da ardere quando avete l’oro in casa vostra!”.
Ma in Italia le imprese forestali si stanno dissolvendo in un clima di pessimismo anche se statisticamente sono circa 8.000 quelle registrate: ma molte di esse svolgono attività non più inquadrabili nel vero settore forestale (commercio legname di importazione).
Nel lontano 1954 noi studenti di Scienze Forestali e Ambientali dell’Università di Firenze fummo condotti dai nostri professori in un viaggio di studio in Calabria per conoscerne le gravissime situazioni idrogeologiche.
Rosario Valanidi, piccolo paese, era stato in parte “asportato” dalla immane violenza della acque della “fiumara” compresa la caserma dei Carabinieri spostata di alcune decine di metri rimasta intatta ma seminterrata e inclinata per cui gli occupanti, tutti salvi, la mattina poterono uscire solo dalle finestre. E non solo Valanidi; la montagna calabrese era un disastro.
Si effettuarono quindi estesi rimboschimenti – circa 150.000 ettari – e opere idrauliche con lo scopo di ridurre l’erosione e la portata solida delle acque discendenti da dissestati bacini montani. L’acqua, più limpida, avrebbe gradatamente rimosso in pianura il materiale solido – ghiaie, sabbia – costituente gli alvei pensili delle grandi “fiumare” con doppio beneficio eliminandosi funeste inondazioni e ripascendosi le spiagge erose dalle correnti marine. E così è avvenuto nel tempo.
E’ successo però che, con la costruzione di grandi infrastrutture e di edifici, si sono abusivamente asportati inerti degli alvei abbassandoli pericolosamente oltre i limiti ottimali conseguiti con le opere idrauliche /forestali effettuate a monte, alvei divenuti vere e proprie cave dopo aver eliminato la figura del “sorvegliante” e dell’“ufficiale idraulico” quali ufficiali di Polizia Giudiziaria. Ciò ha causato crolli di argini e minato la stabilità di ponti stradali e ferroviari. In tale situazione assurdamente si è data la colpa ai rimboschimenti e non agli scavi abusivi! (“Conservazione del suolo e forestazione in Calabria”, conferenza regionale Bovalino, 1987).
La montagna italiana nello sviluppo rurale
Nel convegno, organizzato dall’Anci Toscana, dall’Accademia dei Georgofili a Firenze il 24 febbraio 2017 in collaborazione con l’Accademia italiana di Scienze Forestali, è emersa chiaramente la necessità di riprendere in chiave moderna investimenti in montagna ricreando un’economia montana che si basi su attuali possibilità di sviluppo di imprese in un’ottica tecnologica secondo modelli di sostenibilità ambientale. Aggregazioni delle piccole imprese che utilizzino “nicchie” economiche in modo da accrescere la capacità imprenditoriale del singolo e quindi la competitività aziendale.
Il progetto punta quindi alla salvaguardia e alla valorizzazione del territorio e delle sue risorse anche attraverso l’incentivazione al ricorso a metodi produttivi conservativi, biologici e biodinamici.
Quindi valorizzazione di prodotti di origine da parte delle popolazioni e qualità della vita, razionalizzazione della filiera foresta/legno/energia, selvicoltura, difesa idrogeologica e del paesaggio bene economico, ovviamente il turismo in prima linea; questi gli ingredienti di base per un concreto sviluppo della montagna.
La fusione Arma dei Carabinieri-Corpo Forestale organo preminentemente tecnico dello Stato: alla montagna non serve “una grande Polizia specializzata” ma investimenti, nuove economie, lavoro e difesa dell’ambiente.
Il Corpo Forestale dello Stato, organo preminentemente tecnico con proprie scuole a Cittaducale e Sabaudia per guardie e sottufficiali, nonchè con vari corsi di Laurea in Scienze Forestali per i dirigenti, ha una propria storia, tradizione, preparazione specifica e competenze in molte materie naturalistiche già della propria nascita come Real Corpo delle Foreste.
Abbiamo già visto come nel 1910 con la legge Luttazzi si sia data dignità a tutti i livelli all’istruzione Forestali creando altresì il Demanio forestale per la gestione e l’ampiamento del patrimonio forestale dello Stato. Seguirono importanti investimenti in montagna con la legge Forestale del 1923 con il Regio Decreto 13/02/1933, n. 215 poi soprattutto con la legge della Montagna di Fanfani del 1952 e successivo rinnovo nonché con Piani Verdi e altre leggi.
In complesso attività agricole e forestali oltre a riflettere aspetti sociali per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni montane. Infine importante difesa del suolo con sistemazioni idraulico-forestali nella parte alta di bacini montani classificati in stretta collaborazione con il Genio Civile ottimamente operante nelle parti basse dei bacini stessi.
Il tutto con il controllo dei progetti di bonifica da parte dei Comitati tecnici per la bonifica integrale (montagna, pianura, occupazioni). Da ricordare anche l’Accademia italiana di Scienze Forestali di Firenze inaugurata nel 1951 da Amintore Fanfani e “consacrata” da Einaudi che tuttora esiste con molti soci con interessanti lavori di ricerca, anche se in ristrettezza di fondi, indispensabile guida per chi operi nel settore forestale e ambientale.
Passate molte competenze alle Regioni con varie operazioni di delega da parte delle stesse, il Corpo Forestale dello Stato si è trovato con pochi compiti. Gli è stato addirittura tolto il controllo, applicazioni comprese, del vincolo idrogeologico passato prima alle Province e poi ai Comuni, vincolo che molto spesso, si elimina disinvoltamente per poter realizzare insediamenti e cose del genere. Anche la gestione dei Parchi Nazionali da parte di Enti locali suscita notevoli perplessità perché andrebbe in mano a persone senza sufficiente sensibilità ambientale.
In tale situazione, anziché ritrovare una giusta collocazione della “Forestale” riprendendo investimenti organici in montagna con tutti gli interventi che sia pur sinteticamente si sono descritti per la difesa della pianura dal disordine idrogeologo, si è pensato di attribuirgli solo compiti di polizia.
Il Corpo Forestale dello Stato, unico esempio del mondo, si è visto quindi andare sulle strade a fare contravvenzioni e a interessarsi della circolazione di motoveicoli, di auto, ecc.
E’ vero che si è occupato anche di controlli zootecnici e faunistici, inquinamento, ma la sua opera raramente ha “potuto” colpire le “grosse” cause per cui i più colpiti sono stati piccoli imprenditori, agricoltori con non gravi infrazione ma che comunque, quali reati ambientali, sono dovuti comparire in Tribunale con le conseguenze che ne derivano. Questo nuovo modo di esistere, in parte voluto dagli stessi forestali, è stato il principio della fine del Corpo Forestale dello Stato e dei propri compiti istituzionali. La milizia forestale nazionale del periodo fascista fu accusata di atteggiamenti autoritari e repressivi: in altri termini atteggiamenti polizieschi a danno, si diceva, delle povere popolazioni montane. Perciò, terminata la guerra, nel ricostruito Corpo Forestale dello Stato, agli elementi dirigenti fu tolta la divisa lasciata solo alle guardie e sottufficiali. Nei programmi istruttivi forestali si privilegiarono gli aspetti tecnici a tutti i livelli: e questa fu una buona cosa.
Adesso appaiono però contraddizioni nella fusione Arma/Cfs da alcuni definita “calda”. In occasione della cerimonia inaugurale il 66° Anno Accademico avvenuta a Firenze con la prolusione tenuta da un Generale di Corpo d’Armata, si è parlato di un “Comando Unità per la tutela forestale ambientale e agroalimentare Carabinieri: la più grande Polizia specializzata per una tutela integrale”.
A parte la retorica del titolo la montagna, che “non ha più pazienza”, non ha bisogno di Polizie speciali ma solo di investimenti, cantieri di lavoro, ripresa di una nuova moderna economia montana, ecc. come del resto abbiamo già parlato.
Occorrerebbe quindi, rivista in chiave moderna, una nuova legge quadro nazionale per la montagna, adattata poi dalle Regioni, con un programma a lungo termine tenuto conto dei cicli naturali e che, in prima istanza, privilegi gli abbandonati interventi manutentori delle foreste e delle opere idrauliche per salvare il “salvabile”.
Altro aspetto del mettere in evidenza è il costo di tutta l’operazione “fusione”: non sembra che comporti poca spesa. Basti pensare all’adeguamento dei mezzi meccanici in dotazione, al costo delle divise, dell’organizzazione nella nuova struttura delle caserme e casermette sparse nel territorio italiano (che dovrebbero essere conservate), alla ridistribuzione degli Uffici e così via. Si parlerebbe già di alcuni milioni, per cui sarebbe stato saggio aver iniziato investimenti in montagna affidando al Cfs, come ha sempre fatto, il compito di dirigerli e realizzarli ovviamente con un sistema amministrativo snello e con un controllo trasparente di tutte le operazioni riportandolo, cioè, veramente a lavorare in montagna.
Conferire il compito agli organi di bonifica, a parte una necessaria lunga preparazione e istruzioni, significherebbe allestire una nuova costosissima struttura uguale a quella del Cfs ma non ugualmente funzionale.
La difesa di Firenze: alluvioni e sottovalutato pericolo sismico
Nel quadro del desolante quanto preoccupante abbandono della montagna, si inserisce la difesa della città di Firenze sempre più a rischio idraulico e di tutti i centri abitati a valle dei tre sbarramenti, due sul fiume Arno e uno sulla Sieve.
Le costosissime casse di espansione non risolvono il problema senza contare il pesantissimo onere e il molto tempo necessario per la loro realizzazione e manutenzione. Il disordine idrogeologico va affrontato organicamente cercando il più possibile di ridurre l’erosione in montagna e quindi la materia solida trasportata durante le piene che aumenta l’energia cinetica della massa d’acqua facendo disastri nei tratti a maggiore pendenza dei corsi d’acqua per poi depositarsi quando la velocità diminuisce ovvero nelle zone vallive riducendo così la sezione degli alvei, e quindi la loro capacità di portata causando nefaste esondazioni.
Le casse d’espansione che dovrebbero salvaguardare (ma quando? Forse tra 15 anni) Firenze dalle piene dell’Arno presentano i molti difetti tipici di tali opere o meglio più difetti che vantaggi. Infatti:
- sono difficili da individuare e da realizzare;
- alti costi e lunghi termini di realizzazione;
- notevole impatto ambientale per tutti gli ecosistemi circostanti: sono scelte politiche che spesso esulano dal razionale;
- sedimentazione, a ogni piena, di limo e di materiale terroso/ghiaioso con molti inquinanti derivati dalle attività agricole e industriali, periodicamente da eliminare con costose operazioni anche per difficoltà di reperimento di siti idonei per la loro collocazione;
- rapido sviluppo di vegetazione palustre e di specie invadenti sempre annualmente da eliminare poiché anche ricettacolo di insetti di specie varie, di patogeni, comunque dannosi alle vicine comunità e all’agricoltura;
- l’effetto delle casse d’espansione sulla regolazione dei livelli di piena è valido entro certi limiti di piovosità ovvero della durata delle piogge poiché, una volta riempite, tanta acqua arriva e tanta ne riparte; in tali situazioni l’effetto delle casse è nullo.
Ad esempio, durante l’ultima alluvione in Valdambra (Ar) dove è stata costruita una grande costosa reclamizzata cassa d’espansione a monte dell’abitato di Ambra, si è verificata a valle della stessa una notevole esondazione. Perché tutto questo? E’ evidente che qualcosa non torna.
Il problema dell’uso e della funzione degli sbarramenti sul fiume Arno per la produzione di energia elettrice è molto dibattuto. Sostenere che il rialzamento di diversi metri di uno di essi in modo da “laminare” le piene e quindi salvare Firenze è discutibile: l’uso delle dighe “niente ha a vedere con quella che i tecnici chiamano laminazione delle acque ovvero l’attenuazione della piena. Così, finché l’acqua corre con una portata fino a centro metri cubi al secondo, questa finisce tutta nelle turbine. Quando la portata dell’Arno aumenta (il che succede sempre d’inverno) i tecnici non possono fare altro che aprire le paratie e far passare l’acqua come non ci fosse la diga.
“Noi possiamo fare da sentinelle”, dicono gli addetti alle dighe, informando le autorità ogni volta che le portate in transito superano determinate soglie.
Se facessero diversamente, ovvero se gli addetti tenessero le paratie chiuse, il livello del fiume bloccato dallo sbarramento salirebbe in poco tempo, scavalcando facilmente la diga. Pensare di poter salvare Firenze dall’alluvione attraverso l’azione delle barriere del Valdarno è ancor oggi un’utopia come lo era la notte del 3 novembre 1996 quando la portata del fiume, normalmente 50-70 mq/sec, raggiunse il livello spaventoso di 2.250 mc/sec (per capirci il 6 novembre 2016 la punta massima è stata di 1.000 metri cubi).
Così scrive in un recente interessante articolo sul giornale La Nazione di Firenze Stefano Checchi e inoltre: “se davvero si volessero usare le due dighe per contenere in qualche modo le piene, l’unica soluzione è innalzarle e realizzare poi le successive opere di contenimento dell’acqua (casse di espansione).
Per la diga di Levane c’è già un progetto di massima realizzato dall’Enel per alzarla di 5 metri ma ancora non ci sono i soldi (20 milioni) che la Regione e lo Stato devono trovare mentre per la Penna (meno male! n.d.r.) l’innalzamento è impossibile, pena l’inondazione di Ponte Buriano ovvero dell’area storica che fa da sfondo alla Gioconda di Leonardo.
Ammesso poi che si possano reperire vaste aree per casse d’espansione, ci vorrebbero almeno 10 anni per terminarle. Da considerare poi che in presenza di intense e durature tempeste di pioggia, si riempirebbero sia la diga rialzata sia le casse d’espansione e quindi il loro effetto si annullerebbe totalmente.
Gli ambientalisti “tagliano la testa al toro” affermando che tutti i pericoli di esondazione sicuramente si annullerebbero vuotando gli invasi da utilizzare, ecco il punto, solo come casse di espansione in occasione di emergenze. Dicono che dietro il rialzamento della diga di Levane “sbandierato” come salvezza di Firenze, ci sarebbero interessi di ben altra natura. Conviene ancora favorire questi interessi stimando che sono superiori ai valori storici, artistici, culturali, economici di Firenze e di tutti gli altri insediamenti urbani lungo il corso del fiume, Pisa compresa, nonché alla salvaguardia della vita di una moltitudine di persone? Sicuramente no è la loro logica conclusione.
Ma c’è un altro terribile pericolo che non viene preso in seria considerazione e cioè quello di un forte terremoto non certamente prevedibile ma sempre possibile affermano i sismologi. Le opere di sbarramento della Valle dell’Arno giacciono tra i rilievi preappenninici dei Monti del Chianti e la catena appenninica vera e propria del Pratomagno, rilievi soggetti anche a forti fenomeni geosismici di assestamento. Non lontano, poi, nella vicina Valtiberina esiste una faglia che si allunga verso la Romagna e che causa frequenti sommovimenti storicamente responsabili di tragici eventi in Sansepolcro, Monterchi, Arezzo. Guarda caso, sul percorso di questa faglia si ritrovano piuù o meno il grande invaso del Tevere di Montedoglio di circa 160 milioni di mc. Con una diga in terra a gravità e, sembra, anche la diga di Ridracoli (Forlì), diga ad arco. Il cedimento anche di una sola di queste opere avrebbe conseguenze catastrofiche. Nelle carte dei sismologi si rileva in tali aree una miriade di punti che hanno registrato statisticamente nel tempo movimenti tellurici e la loro intensità. Per il cedimento del canale sfioratore non ben costruito dell’invaso di Montedoglio, una parziale esondazione di recente ha causato notevoli danni a valle e molta paura tra le popolazioni sottostanti alla diga, paura che non accenna a diminuire mentre nessuno sembra responsabile di quanto è successo.
E’ accettabile minimizzare questa situazione? Non sono un sismologo ma credo proprio di no anche perché l’uomo per quanto costruisca cercando la massima sicurezza nulla può contro certi fenomeni della natura.
“Quando il dito indica la luna lo sprovveduto guarda il dito”
E’ veramente sconfortevole assistere, ormai da tempo, al disinteresse di fronte alle gravi situazioni della montagna appenninica, salvo poi affidarsi ai soliti “lamenti greci” in occasione di ricorrenti disgrazie richiamando ai “cambiamenti climatici”, alle “bombe d’acqua” (nuova terminologia), all’urbanizzazione selvaggia che però si lascia disinvoltamente continuare: dimenticavo poi le solite Commissioni d’inchiesta.
E’ possibile che dopo uomini illuminati con il Luttazzi (1911), Serpieri (1933), Fanfani (1952), legislatori della montagna, non esista una volontà politica per affrontare organicamente certi problemi. Ricordo i ministri Sedati, Natali, Fanfani, Bartolommei, i quali venivano di persona a visitare i cantieri idraulico-forestali del Corpo Forestale dello Stato e del Genio Civile. Anche le associazioni ambientalistiche si impegnano solo a eseguire mirabili mosaici su pareti di una casa senza fondamenta tralasciando infatti di far capire quali sono le reali esigenze di una “montagna che non ha più pazienza” e che ci sta già ripagando con uguale moneta: “serva me, servabo te” è l’indiscutibile motto di latini che di selvicoltura e di agronomia se ne intendevano. Lo stesso Platone in “De Replublica”, nell’interesse della collettività, istruisce ispettori agronomi per una corretta agricoltura e per la salvaguardia del territorio al fine di uno sviluppo sostenibile e ispettori forestali per gli aspetti forestali e idrogeologici.
In tutto l’Appennino, i bacini montani classificati dove operava il Corpo Forestale dello Stato il quale si era dotato di una moderna rete vivaistica forestale per la produzione di milioni di piantine da rimboschimento certificate in base alla legge sul controllo del materiale propagazione forestale (n. 269), sono da decenni gestiti con produzioni irrisorie, se non abbandonati, salvo eccezioni che confermano la regola.
Il presidente del Consiglio Prodi a suo tempo, e non solo lui, in occasione del protocollo di Kyoto, prese solenne impegno di riprendere per scopi ambientali la “forestazione” (!), tra l’altro parola impropria per l’Italia in cui al massimo un tempo siamo giunti a 20-22.000 ha. di rimboschimento all’anno, un “giardinaggio”, occorrendo invece interventi almeno su 200-250.000 ha. considerando anche le superfici continuamente distrutte da fuoco abbandonate a loro stesse in preda all’erosione, a ruscellamenti e frane e di cui “nessuno” ne parla. (In Francia si rimboschiscono circa 300-350.000 ha. di superfici all’anno).
Ebbene, dove sono andate a finire tutte queste buone intenzioni?
Il Centro per la biodiversità di Pieve Santo Stefano (Ar), forse il più moderno del mondo, dotato di modernissime attrezzature per la raccolta di materiale di propagazione forestale controllato dai boschi da seme italiani, per la preparazione, conservazione, distribuzione di semi e piantine da rimboschimento, dovrebbe essere mantenuto. Attualmente svolge anche importanti ricerche di biogenetica e così l’annesso vivaio forestale di circa 12 ha. avrebbe un enorme potenzialità, elemento base ove i politici saggiamente decidessero di riprendere investimenti in montagna.
Come già detto, asserire che sono aumentate le superfici a bosco è pura disinformazione poiché, nei rari casi in cui possa avvenire, la ricostituzione del bosco è un processo lunghissimo. Cinque-sei milioni di ettari di territori montani attendono organici interventi. Questa è la realtà.
Purtroppo questi appelli rimangono senza risposta come quello da parte della Rete Rurale Nazionale nel recente Convegno di Genova la quale, ripetiamo, denuncia che “l’abbandono dei boschi cedui, il loro rapido invecchiamento con conseguente perdita di stabilità, per le particolari condizioni dei versanti e l’urbanizzazione, stanno causando gravi e frequenti danni in occasione di eventi meteorologici anche non eccezionali. Abbiamo anche dimostrato che la corretta gestione del patrimonio forestale, sia privato che pubblico, può essere attuata con risultati positivi per l’economia e l’ambiente”. Pertanto, “quando il dito indica la luna, lo sprovveduto guarda il dito!”
E’ accettabile questa situazione? La montagna non ha più pazienza!
Nel dopoguerra in Italia si presentò il fenomeno dello spopolamento delle campagne e, in particolare, dell’Appennino. Per graduare questa emigrazione verso aree cittadine e industriali con conseguenti gravi problemi, Amintore Fanfani ideò la legge della Montagna del 1952 che aveva tre scopi e cioè difesa del suolo e dell’ambiente, incentivi per l’agricoltura montana e la zootecnia e, soprattutto, sociale con infrastrutture/acquedotti rurali, restauro case coloniche, ecc., per il miglioramento delle condizioni di vita dei residenti. Fanfani intravide, già allora, le grandi possibilità che avrebbe avuto in futuro il turismo e pertanto inserì nel contesto della legge n. 991/1952 un articolo che contemplava l’aiuto dello Stato per “migliorie igienico ricettive”. Ovvero c’era la possibilità anche per i piccoli agricoltori di sistemare parte degli edifici agricoli per accogliere nel migliore dei modi le persone amanti dell’agriturismo e della natura.
Si realizzarono strade forestali non solo per l’accesso ai vari cantieri di lavoro (in provincia di Arezzo vi furono anche 600 operai nei bacini montani Foglia-Marecchia, Alto Tevere, Alto Valdarno comprensivo della Valdichiana oltre gli operai facenti capo ai progetti del Genio Civile), ma anche per collegare sperdute piccole frazioni storicamente, artisticamente interessanti, strade oggi molto utili per l’agriturismo. Un settore in sviluppo crescente scelta dei turisti verso piccole località, luoghi storici, secondo una ricerca di Confturismo.
Perché dunque non riproporre anco oggi interventi in montagna sulla base delle linee di massima esposte? Ci sarebbe lavoro per molti italiani e anche per profughi provenienti dalle zone di guerra e un notevole conseguente “indotto” economico tanto più che attualmente non si opera con badile e piccone come una volta e trasporti animali, ma prevalgono i mezzi meccanici con grande risparmio di energie umane e rapidità dei lavori?
Agli “uomini di buona volontà” ogni decisione.
Consorzi di bonifica, infinita storia all’italiana, molta spesa poca resa
Politici, pubbliche amministrazioni, esperti, ecc. non molto tempo fa erano concordi nell’affermare che i Consorzi di bonifica erano da eliminare adducendo più o meno i seguenti motivi:
- sono Enti inutili, costosi con alte spese di gestione, con presunta inefficienza dimostrata da disastri avvenuti anche dove si era operato, discutibile azione impositiva sui proprietari di immobili anche urbani che con i presupposti delle leggi di bonifica nulla hanno a vedere.
- Elezioni da contestare poiché si eleggono anche con percentuali minime organi politici retribuiti (il presidente incasserebbe 30-40mila euro all’anno) nei quali entrano ex locali amministratori consiglieri, consulenti, ecc.
- Sotto l’aspetto legale il Regio Decreto 13 febbraio 1933 n. 215 dice: sono tenuti al pagamento del tributo i proprietari degli immobili ricompresi nell’interno del territorio che traggano beneficio diretto dalla bonifica (vedi Cassazione 05/07/1993 n. 7322, 08/07/1993 n. 7511 – 14/08/1996 n. 8957, 15/08/1996 n. 8960, 14/08/1996 n. 8957; vedi Corte Costituzionale 05/02/1992 n. 66). Spalmare le spese di interventi di bonifica come si fa tra tutti i proprietari è quindi escluso dalla legge (vedi sentenza n. 57 del 19/04/2005 della Commissione Tributaria regionale del Lazio).
- La legge regionale 05/05/1994 n. 34 afferma che i proprietari di immobili posti nel comprensorio concorrono a sostenere gli oneri finanziari delle opere di bonifica qualora dalle stesse ricavino particolari benefici.
- Molte perplessità tecniche sui progetti che, tra l’altro, per la loro disorganicità, non sarebbero assolutamente approvati dall’organo di controllo di un tempo (Comitato tecnico per la bonifica: Genio Civile, Ispettorato Agrario, Ispettorato Forestale). Si dovrebbe agire poi contemporaneamente sia sugli effetti del disordine idrogeologico, ovvero in pianura, sia delle cause del disordine medesimo e cioè in montagna da decenni abbandonata. Pertanto costituzionalmente inaccettabile è la mancanza di un’equa compensazione tra contribuenti montani e di alta collina e quelli di pianura poiché tutti hanno diritto in egual misura alla tutela e alla difesa dell’ambiente. Assurdi i contributi da immobili rurali.
- Da ricordare anche che fu presentata un proposta di legge per l’abolizione dei Consorzi.
Ciò premesso, con una mozione dell’ottobre 2014 del vice Presidente del Senato, si dimentica improvvisamente tutto quello in precedenza reclamizzato e si valorizzano le strutture private dei Consorzi con notevole capacità impositiva sui proprietari di terreni e case in pieno contrasto con tutte le sopracitate leggi e sentenze. Una vera e propria tassa sul patrimonio quasi sempre con nessun nesso con la bonifica e a danno soprattutto delle famiglie meno abbienti.
Il Regio Decreto 13 febbraio 1933, n. 215, afferma che sono soggetti alla tassa di bonifica i proprietari di terreni e fabbricati che traggono beneficio diretto della bonifica (storicamente la legge sulla bonifica del 1933 fu ideata dall’economista fiorentino Arrigo Serpieri, definita “integrale” presupponendo tre momenti essenziali: bonifica montana-cause del dissesto idrogeologico, bonifica di pianura -effetti del dissesto, assegnazione di terre ai coloni).
Così la legge regionale 5 maggio 1994, n. 34, dice che i proprietari degli immobili posti nel comprensorio concorrono a sostenere gli oneri finanziari delle opere di bonifica, qualora dalle stesse ricavino particolari benefici e la legge regionale 29 luglio 2003, n. 38, recita che il contributo consortile è determinato in proporzione ai benefici riferibili a ciascun immobile.
Tutta una serie di sentenze della Corte di Cassazione e Corte Costituzionale rilevano che la sola appartenenza di un bene, pur se extragricolo, all’interno di intervento dell’opera di bonifica, non sia sufficiente per determinare la tassa di bonifica quando un vantaggio specifico e diretto non sia accertato. Per configurare un beneficio, derivante dalla bonifica, non si rileva il beneficio complessivo che si ottiene con tutte le opere di bonifica destinate a scopo di interessi generali, né si rileva il miglioramento complessivo dell’igiene e della salubrità dell’aria, ma occorre un incremento del valore dell’immobile soggetto a contributo che sia in rapporto causale con le opere di bonifica e la loro manutenzione, così da tradursi in una qualità aggiunta all’immobile.
Non so poi se i vari Consorzi di bonifica abbiano perfettamente rispettato le procedure di legge e se le Regioni abbiano operato nell’ambito delle leggi dello Stato. In un quadro organico di bonifica, secondo i fondamentali e universali principi di idronomia, bei bacini idrici si dovrebbe agire contemporaneamente sia sugli effetti del disordine idrogeologico e cioè in pianura e nelle parti basse dei bacini, sia sulle cause del disordine medesimo e cioè in montagna, cercando con opportune opere, anche modestie, di ridurre la portata solida (erosione) verso valle.
Gli interventi vengono invece condotti negli alvei dei corsi d’acqua di pianura per cui i contribuenti dei territori d’alta collina e montani con terreni spesso a reddito negativo, devono pagare senza ottenere nessun servizio e beneficio nelle proprie aree. Nel contempo, passando gli anni e continuando il non indifferente apporto di materia solida verso valle (erosione diffusa, smottamenti, frane, crolli, ecc.) si riempiranno di nuovo gli alvei da cui si è asportato materiale o si è provveduto al loro ricondizionamento, con scontato ritorno al punto di partenza.
E’ noto poi che, riducendo la portata solida in un corso d’acqua, aumenta la capacità dell’acqua a rimuovere il materiale depositato in alveo a valle. Ovvero la natura si sostituisce all’uomo (ruspe) con il vantaggio che detto materiale rigenera le spiagge (ripascimento), fenomeno di cui ormai anche in Toscana si constatano e si denunciano gravissimi danni al punto di dover riportare sulle spiagge costosissima sabbia prelevata dai fondi marini. C’è anche una legge dello Stato, ignorata dagli Enti pubblici, che regola per scopi idrodinamici la sistemazione in alveo della materia solida depositata in eccesso, a non la rimozione (esempio: “sistemazione a savanella”, lateralmente nell’alveo con profilo a “V” dello stesso, per cui l’acqua si concentra, aumento di velocità al centro asportando così gradualmente materia solida).
Ritornando ai Consorzi, non sembra inoltre costituzionalmente accettabile la mancanza di un’equa compensazione dei benefici tra i contribuenti delle aree montane e di alta collina e quelli di pianura poiché, a termine dei disposti costituzionali, tutti i cittadini hanno diritto in egual misura alla tutela e difesa dell’ambiente in una visione non statica ma dinamica di protezione integrata e complessiva dei valori naturali.
Difficilmente i progetti di interventi dei Consorzi di bonifica sarebbero stati approvati un tempo dai Comitati provinciali di controllo per la bonifica per un semplice motivo, ovvero per mancanza di organicità, con interventi a pioggia, veri e propri palliativi che non possono portare concreti contributi.
Inoltre, sempre sotto l’aspetto tecnico, i progetti di bonifica dovrebbero rivolgere molta attenzione anche ai grandi complessi forestali esistenti che vanno degradandosi abbandonati senza un piano organico di interventi a lunga scadenza: E’ appena il caso ancora di ricordare che detti estesi ecosistemi, fragili perché in gran parte artificiali e costituiti da specie pioniere provvisorie che avrebbero dovuto essere da tempo sostituite, svolgono un’importante funzione idrogeologica, paesaggistica, disinquinante e anche economica ove si ragioni con un’ottica moderna collegata alle possibilità offerte dalle moderne tecnologie. Personalmente ritengo che vi siano altresì responsabilità per il deterioramento di pubblici patrimoni: a tal riguardo ricordo la mia relazione-denuncia da me tenuta nel 2008 al Convegno di Pieve Santo Stefano sull’opera svolta da Amintore Fanfani come legislatore della montagna (legge sulla Montagna – 1952) sui risultati ottenuti, sulla situazione attuale e futura del rimboschimento e delle sistemazioni idraulico-forestali.
C’è poi l’aspetto economico dei Consorzi di bonifica. Una volta c’erano il Genio Civile e il Corpo Forestale che operavano razionalmente nei bacini idrici di comune accordo secondo le rispettive competenze senza chiedere tasse ai cittadini. Adesso abbiamo una pletora di Enti con consiglieri, presidenti, apparati burocratici complessi con spese di gestione, mi si dice, pari al 40-50% delle somme introitate (pubbliche-private) con capacità tecniche che spesso non possono non suscitare perplessità.
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