Parla Tarek Fatah convinto oppositore del terrorismo di matrice
islamica e delle ramificazioni estremiste: “Personalmente sono
affascinato da Ali, genero del Profeta, da Ghandi, da Lenin
e dai suoi Dieci giorni che sconvolsero il mondo.
Indiano nato in Pakistan, immigrato in Canada, da giovane militante di sinistra, fondatore del Muslim Canadian Congress, e, da musulmano, convinto oppositore non solo del terrorismo di matrice islamica ma anche delle ramificazioni, insidiose ma non meno pericolose sul lungo termine, dell’estremismo islamico.
Tarek Fatah, autore di The tragic illusion of the Islamic State e di The Jew is not my enemy, riconosce la complessità umana della sua storia e delle sue origini e racconta della sua lotta contro l’oscurantismo religioso.
Lei è uno dei musulmani in Canada che si oppone alla mozione Anti-Islamofobia recentemente approvata alla Camera dei Comuni. Cosa ne pensa del successo politico di una mozione che condanna qualcosa che non è specificatamente definito?
L’obiettivo della cosiddetta mozione Anti-Islamofobia non è di prevenire il razzismo verso i musulmani, ma di usare questo slogan come tentativo sotterraneo di attaccare quei musulmani che sono critici riguardo alla Sharia e al mescolare Islam e politica. Dietro la mozione c’è un gruppo di musulmani membri del Parlamento canadese e di due in particolare che sono di origine pakistana e che hanno legami lavorativi molto stretti con l’ambasciata pakistana in Canada.
Spesso si sente che i giovani musulmani nel mondo occidentale sono molto più estremisti della loro controparte nei Paesi di origine. Cosa ne pensa?
E’ sempre stato così nel mondo islamico contemporaneo dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la fine della Guerra fredda. Solo i musulmani benestanti e laureati aderiscono al concetto di nazione panislamica di un singolo califfato che guidi il mondo.
Non sentirà mai di un contadino o di un operaio di una fabbrica che prende le armi per combattere la jihad. I turchi e i marocchini che si sono stabiliti in Europa come lavoratori immigrati non avevano nessun rimpianto per le regole islamiche da cui erano scappati, ma i loro figli istruiti nati in Europa, che conoscono bene il Corano e i suoi versetti, seguono l’Islam alla lettera e non c’è dubbio che la legge della Sharia richiede che ognuno di noi sia obbligato a lottare una jihad armata per distruggere la cristianità, gli ebrei e gli idolatri indù.
Questi giovani musulmani nati in occidente e istruiti, a meno che non respingano la sharia, sono influenzati da gruppi come i Fratelli Musulmani e Jamat-el-Islami e di conseguenza si considerano soldati di Allah.
Lei ha vissuto in Arabia Saudita in passato. Cosa ha imparato da questa esperienza riguardo alla mentalità di persone che vivono in uno Stato teocratico?
L’Arabia Saudita è più uno Stato di apartheid razzista che uno stato teocratico. E’ il Sultanato di Nejd (Riyadh) che avendo occupato il Regno di Hejaz (Mecca) nel 1925 lo controlla come un feudo personale invocando Allah come arma principale per sottomettere il dissenso interno.
Detto ciò molti musulmani, indipendentemente da dove vivono, credono che la vera vita cominci dopo la morte. Noi consideriamo la terra come una specie di vagone della metro in attesa di prendere il nostro volo di collegamento per la nostra destinazione ultima, il paradiso. Quelli tra noi che applicano questa dottrina alla politica sono simili ai seguaci della setta mortale di Jim Jones e per noi la fine della vita è l’inizio dei tempi.
Purtroppo l’Occidente non si è mai reso davvero conto seriamente di questo fenomeno e si lascia imbrogliare dagli apologisti dell’islamismo che parlano con modi affabili con veli alla moda e vestiti curati.
Di questi tempi, quando musulmani intellettuali si oppongono al punto di vista islamista e presentano un approccio moderno e laico, non solo rischiano la violenza ma sono anche attaccati e ostracizzati dalle stesse persone che dovrebbero essere i loro migliori alleati. Può raccontare la sua personale esperienza?
Avendo appena scoperto che sono in una lista di persone da colpire stilata dall’Isis e che nessuno in Canada si preoccupa della notizia che è stata riportata da Times of India, ciò che posso dire è che noi musulmani che lottiamo contro l’islamismo siamo vittime del senso di colpa dei bianchi per il loro passato razzismo che preferirebbero vederci morti piuttosto che fronteggiare le sfide cui va incontro la civiltà umana.
La diversità e l’intersezionalità sono parole alla moda nel mondo accademico e tra i progressisti, eppure queste parole non sono definite con chiarezza. La diversità può indicare preferenze di taglio di capelli o diversità di sistema di valori. Come questa mancanza di chiarezza sta avendo effetti, secondo lei, su discussioni serie e razionali?
Le persone che usano questi linguaggi illustrano bene la separazione tra loro e la realtà. L’intersezionalità non sarebbe potuta che nascere dagli accademici e dai loro studenti marionette che credono reciprocamente alle rispettive idiozie.
Abbiamo una parte della popolazione dedicata a distruggere la civiltà umana per scatenare la fine dei tempi e invece di dichiararli islamofascisti o una setta mortale, i professori che vivono in ambienti protetti si limitano a guardare come se fossero in uno spettacolo circense.
Mi ricordano il Primo Ministro britannico Chamberlain che ha sventolato il suo foglio “pace in mano” dopo essersi sottomesso a Hitler solo perché poi avrebbe potuto gustare il suo brandy di qualità nella hall di Westmister.
Il termine destra religiosa è associato con i cattolici o gli evangelici ultraconservatori ma mai con i conservatori musulmani. Perché?
Questo deriva dallo stesso sentimento di “senso di colpa” dei bianchi che è in apparenza ignoranza ma in realtà codardia.
Chi sono le persone che ammira di più e perché?
Come musulmano sono sempre stato colpito da Ali, il genero del Profeta, come indiano sono un seguace di Gandhi, che era il mio soprannome da ragazzo, ma come cittadino del mondo sono sempre stato affascinato dalla grinta di Lenin e dai suoi Dieci giorni che sconvolsero il mondo come lo ricorda John Reed.
Quest’anno in ottobre c’è il centenario della rivoluzione bolscevica e voglio rileggere i reportage giornalistici di Albert Rhy Williams e di John Reed di quegli avvenimenti che hanno cambiato il mondo per sempre.
Alcuni considerano che i miei eroi riflettano le mie contraddizioni ma poiché penso che siamo tutti depositari delle esperienze, delle fatiche e dei trionfi dei nostri antenati, c’è bisogno di vedere il mondo attraverso un sovrapporsi di valori e di sentimenti evitando una visione strettamente in bianco e nero.
Lei ha rapporti di amicizia con persone che hanno opinioni politiche e ideologiche differenti? Per molte persone è una situazione complicata.
Molti degli amici della gioventù sono oggi in campi opposti al mio, ma ci incontriamo sempre, ovviamente non conto coloro che mi hanno tradito e colpito alle spalle.
Cosa ne pensa dei musulmani che hanno abiurato la loro fede di origine?
Li posso capire, ma hanno lasciato il gioco e sono meri spettatori avendo lasciato che il lavoro pesante sia fatto da altri.
Un’ultima cosa. Cosa può suggerire venga fatto in Italia per fermare la violenza estremista islamista ma anche l’Islam radicale?
Una cosa che l’Italia deve fare è assicurarsi che le moschee non ricevano fondi come enti non a scopo di lucro a meno che evitino di pronunciare sermoni o preghiere che attaccano i “Qaum al-Kafiroom”, la gente kafir, i miscredenti, i cristiani, gli ebrei, gli atei, gli induisti.
Questo è solo l’inizio o il primo passo. Finché l’Italia non rende sicuro e possibile che i musulmani liberali e laici parlino contro la Sharia e la teocrazia, i mullah prevarranno. Ciò di cui l’Italia ha bisogno è coraggio, non odio o la compiacenza verso gli jihadisti.
FOTO: Tarek Fatah
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