È sempre stato uno dei filoni d’indagine sui moventi
degli eccidi di Capaci e via D’Amelio. Dopo un quarto
di secolo, nel “processo trattativa”, i legali degli imputati
lo rilanciano per smontare l’accusa contro i Ros
Hanno chiamato a testimoniare soprattutto magistrati ed esponenti politici, i legali degli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, per dimostrare che le stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 furono attuate da cosa nostra per impedire che Giovanni Falcone, prima, e Paolo Borsellino, poi, potessero approfondire le investigazioni su mafia e pubblici appalti. Cioè sull’ambito in cui gli interessi dei boss incontrano quelli delle imprese, dei politici, degli amministratori e dei pubblici funzionari. Tangentopoli con l’aggiunta della mafia: Mafiopoli.
Venticinque anni dopo, per le Procure di Palermo e di Caltanissetta, invece, il movente della strage di via D’Amelio sarebbe la trattativa. Basti pensare che secondo la Dda di Palermo, come ha ricordato il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria del processo all’ex ministro Calogero Mannino (ritenuto il mandante della trattativa, ma assolto in primo grado), nell’informativa del Ros consegnata dal capitano Giuseppe De Donno a Giovanni Falcone, nel febbraio del 1991, mancavano “acquisizioni addirittura di un anno antecedenti” a carico dello stesso Mannino, di Salvo Lima e di Rino Nicolosi. Per il pm si sarebbe trattato di una “sporca operazione” dei vertici del Ros per coprire Mannino e gli altri esponenti politici.
La Procura di Caltanissetta, titolare delle indagini sulle stragi del 1992, aveva già vagliato a partire dal 2000, in uno dei filoni d’indagine sui cosiddetti mandanti esterni, “l’ipotesi investigativa che le stragi di Capaci e di via D’Amelio costituissero anche una rabbiosa reazione, organizzata ed eseguita in sinergica contestualità con ‘cosa nostra’, da parte di organizzazioni economiche espressione di poteri imprenditoriali e politici ‘forti’, disturbati nella loro attività dalle indagini di Falcone prima e di Borsellino poi o che Borsellino avrebbe potuto iniziare, proseguire o portare a termine”. Arrivando alla conclusione, nel 2003, che “il filone di indagini mafia-appalti abbia potuto costituire un valido movente delle stragi o, quantomeno, abbia potuto agire da catalizzatore di interessi convergenti all’esecuzione delle stragi”, ma senza trovare elementi tali da potere chiedere il rinvio a giudizio di qualsivoglia indagato e, dunque, optando per la richiesta di archiviazione, accolta dal gip.
Vediamo di ricostruire i fatti principali.
Il 20 febbraio del 1991 il capitano De Donno consegna al giudice Falcone la celebre informativa di 890 pagine su mafia e appalti, principalmente composta da intercettazioni telefoniche, ma il magistrato è ormai prossimo a trasferirsi al Ministero di via Arenula; con gli altri colleghi del pool antimafia, è impegnato in una corsa contro il tempo per chiudere l’istruttoria sugli omicidi politici (Mattarella, La Torre, Reina) prima che scadano i termini imposti dalla legge, nel passaggio dal vecchio al nuovo Codice di procedura penale. Così, il documento finisce in cassaforte, perché anche i sostituti Pignatone e Lo Forte, assegnatari del fascicolo con Falcone, sono impegnati nella medesima istruttoria, depositata il 12 marzo 1991. L’inchiesta del Ros svela che cosa nostra non ha più un atteggiamento parassitario (imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali) ma, come spiega Falcone durante un convegno organizzato in quei giorni dall’Alto commissariato Antimafia, “indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici”. L’inchiesta è così complessa e la mole degli atti talmente monumentale che, in maggio, il procuratore Giammanco affianca a Pignatone e Lo Forte altri sei sostituti e il Procuratore aggiunto Spallitta. Il Ros individua 45 persone – mafiosi, noti imprenditori nazionali, progettisti, faccendieri e un paio di politici palermitani – a carico dei quali ipotizza i reati di associazione mafiosa (per 24 di loro) e di associazione per delinquere finalizzate alla spartizione degli appalti pubblici (per 21). L’organizzazione sarebbe capeggiata da Angelo Siino, un massone mafioso legato ai Brusca di S. Giuseppe Jato e al catanese Nitto Santapaola, arrestato il 9 luglio ’91 con altre quattro persone: il geometra Giuseppe Li Pera, capoarea in Sicilia occidentale della Rizzani De Eccher di Udine, e gli “imprenditori” Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, tutti accusati di mafia. Ai cinque, all’inizio del ’92, si aggiungono Vito Buscemi e Rosario Cascio.
Il 26 luglio del ’91, dopo i primi arresti, la Procura delega il Ros ad approfondire il filone d’indagine sulla Sirap, società pubblica regionale incaricata di gestire la realizzazione di una serie di aree artigianali in Sicilia, per un ammontare complessivo di mille miliardi di lire. Così facendo, la Procura mette in campo una strategia articolata in tre punti: 1) l’arresto degli elementi più pericolosi, sui quali c’erano elementi sufficienti per ottenere il rinvio a giudizio e la condanna; 2) acquisire altri elementi su soggetti già individuati dal Ros; 3) individuare i referenti politici e amministrativi dei boss.
In realtà, non tutto fila liscio, visto che a metà giugno del 1991, La Sicilia, il quotidiano di Catania, avvia una campagna contro la Procura, accusata di tenere “nel cassetto” il rapporto del Ros, pubblicando anche stralci delle intercettazioni “insabbiate”. Campagna che presto tracimerà sulle pagine di quotidiani e periodici nazionali.
Il 13 luglio del 1992, sei giorni prima della strage di via D’Amelio, ritenendo di non avere elementi sufficienti per il giudizio, la Procura deposita la richiesta di archiviazione per 21 indagati e il 22 la presenta al gip, che il 14 agosto firma il decreto di archiviazione. Resta aperto il corposo filone Sirap.
Giuseppe Li Pera è uno dei cinque incarcerati del luglio ’91. Li Pera è interrogato due volte dai pm di Palermo, ma si rifiuta di rispondere. Lo stesso fa il 5 marzo, durante un interrogatorio dei pm Lo Forte e Scarpinato al quale assiste anche il capitano De Donno. 5 marzo 1992: questa data è importante, perché alla fine dell’interrogatorio l’ufficiale si apparta coi due magistrati, si dice convinto che l’imputato sia condizionato dal suo avvocato (poi condannato per mafia) e chiede di poterlo incontrare da solo per convincerlo a collaborare. Permesso accordato.
Il 9 marzo la Procura chiede il rinvio a giudizio di Li Pera, Siino e gli altri tre coindagati, per associazione mafiosa,
Il 30 aprile al Ros di Palermo arriva una lettera anonima con la quale li si invita a “interrogare Li Pera” per scoprire “imbrogli” su alcuni appalti pubblici in provincia di Catania e a chiedere “informazioni al giudice Lima”, al quale il Ros, il 3 maggio, trasmette l’esposto e una nota esplicativa. Risulterà che l’anonimo era stato scritto dallo stesso Li Pera, che dal 13 al 15 giugno e il 27 agosto è interrogato in carcere dal pm etneo Felice Lima, come persona informata sui fatti, mentre il 20 luglio è De Donno, su delega del pm, a interrogarlo. Li Pera racconta in maniera meticolosa il funzionamento del sistema degli appalti siciliano e nazionale, tacendo su cosa nostra, che si intravede solo nell’espressione “forza di tipo diverso” delegata alla “risoluzione dei contrasti” tra imprese che non riesce a sbrogliare Filippo Salamone, l’imprenditore agrigentino delegato a risolvere le situazioni complicate. Il 14 ottobre 1992, il collaborante è interrogato per la prima volta in presenza di un avvocato, poiché indagato in seguito alle sue stesse rivelazioni.
I pm di Palermo, della collaborazione di Li Pera, non sanno nulla fino al 28 ottobre 1992, quando da Catania arrivano i verbali d’interrogatorio del geometra, un rapporto di 843 pagine del Ros di Palermo redatto dal capitano De Donno, datato 1 ottobre 1992, e una nota introduttiva di 8 pagine firmata dai capi dell’ufficio etneo. Dopo avere chiuso in un cassetto la richiesta di custodia cautelare avanzata da Felice Lima nei confronti dei vertici della Regione siciliana, grandi imprenditori regionali e nazionali, professionisti e qualche boss: 22 in tutto. Lima aveva provato a contattare Paolo Borsellino (lo ha confermato al Csm la madre del magistrato ucciso) ma il tritolo lo ha tolto di mezzo prima che i due potessero incontrarsi.
Nello stesso periodo, il capitano De Donno indagava per conto dei pm antimafia di Palermo e per il pm Felice Lima di Catania, su fatti che a volte si sovrapponevano (alcuni appalti Sirap), consegnando corpose informative ai due diversi uffici inquirenti (a Palermo, il 5 settembre 1992), tanto che, come ha scritto l’ex Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli in una dettagliata relazione consegnata alla Commissione parlamentare Antimafia nel 1999, gli allegati dell’informativa consegnata a Lima erano costituiti “in massima parte da fotocopia di atti compiuti dalla Procura della Repubblica di Palermo”.
Il 19 ottobre ’92 a Palermo inizia il processo a Li Pera, Siino e gli altri arrestati dell’estate del ’91, ma i pm non sanno della collaborazione del geometra, lo apprenderanno solo quando da Catania gli arriveranno i verbali (28 ottobre) e dovranno cambiare radicalmente la strategia accusatoria a processo avviato. Non solo. Siccome le dichiarazioni di Li Pera si incastrano alla perfezione con le intercettazioni telefoniche alla base del primo rapporto dei Ros, le 21 archiviazioni forse non ci sarebbero state.
L’inchiesta “insabbiata” dai magistrati di Palermo raggiunge il suo apice la notte tra il 25 e il 26 maggio 1993, quando vengono eseguiti 25 arresti di boss, amministratori della Sirap, imprenditori d’alto rango e politici di livello nazionale, mentre alcune decine di esponenti politici ricevono degli avvisi di garanzia, per tre dei quali (Nicolosi, Mannino e Buttitta) si rende necessario chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere. Determinanti risultano le dichiarazioni di Li Pera che, nel frattempo, dopo l’insediamento a Palermo di Caselli, ha descritto senza reticenze anche il ruolo “regolatore” di cosa nostra nel sistema degli appalti.
Insomma, stando ai fatti, il Ros avrebbe “epurato” l’informativa consegnata a Falcone dai nomi degli esponenti politici di spicco, consegnando gli atti completi solo due anni dopo. Ciò sarebbe “frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino, che avevano contattato i Carabinieri?” ha retoricamente chiesto il pm Tartaglia, durante la requisitoria nel processo a Mannino. Per concludere con altre domande altrettanto retoriche: “Chi, nel Ros, poteva avere la forza di epurare quella informativa e di proteggere Mannino? Chi, se non il suo comandante Subranni? Questa copertura sarà stata determinata da contatti occulti con Mannino, che aveva contattato i Carabinieri?”.
Antonio Subranni era all’epoca il capo del Ros, il superiore diretto di Mori e De Donno. Tutti e tre, oggi, sono sotto processo a Palermo perché, secondo l’accusa, dopo l’omicidio di Salvo Lima si sarebbero attivati per salvare la vita a Mannino, avviando una trattativa coi boss di cosa nostra. Mannino, però, è già stato assolto in primo grado (col rito abbreviato), come in precedenza sono stati assolti (in primo grado e in Appello) il generale Mori e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di non avere voluto catturare il boss Provenzano, nel 1995, proprio per via della trattativa. Incastri che, quando pare si stiano saldando, non reggono alla verifica dibattimentale. Mentre il tempo annebbia i ricordi dei testimoni e rende sempre più difficile l’accertamento della verità, a venticinque anni dalle stragi.
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