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Marzo/2017 - Articoli e Inchieste
Diritti Civili
Zhara Kazemi: dimenticata nel nome di interessi economici
di Gianni Verdoliva

La fotoreporter iraniana è stata sacrificata dall’Occidente
sull’altare del dialogo con il regime teocratico.
È stata uccisa in carcere: era stata reclusa per aver
fotografato una manifestazione
dei familiari di studenti dissidenti imprigionati

Per circa un decennio la sua morte è stata motivo serio di tensione tra Canada e Iran. “Le relazioni bilaterali con l’Iran non possono procedere normalmente” aveva detto nel 2005 l’allora Ministro degli esteri canadese Pierre Pettigrew. Poi, dopo l’elezione di Trudeau e l’accordo con l’amministrazione Obama, il Canada ha modificato il suo atteggiamento. Sacrificando in nome della politica di “dialogo” Zhara e i suoi famigliari. Per l’attuale Ministro degli esteri Stephane Dion, come riporta il National Post, altre sono le priorità in quanto le sanzioni economiche contro l’Iran possono danneggiare le aziende canadesi.
Il figlio Stephan, in un’accorata lettera pubblicata sul Toronto Star nel 2015, anno in cui il Canada ha votato Trudeau, si era appellato all’allora Primo Ministro Harper, perché intervenga nella situazione di stallo ai limiti del kafkiano, in cui si trova come figlio in cerca di giustizia per la madre. Promesse non mantenute dai politici, timorosi di urtare un potenziale partner economico e una verdetto in stile Ponzio Pilato della Corte Suprema canadese che, il 10 ottobre 2014, pur riconoscendo la gravità dei fatti, si dichiarava non competente rinviando la responsabilità al Parlamento.
Zara “Ziba” Kazemi era una fotoreporter coraggiosa. Oggi compianta. Perché Zara è morta. Uccisa nel luglio del 2003 nel carcere iraniano di Evin. Praticamente sconosciuta in Italia. Per lei non ci sono state manifestazioni, appelli, dichiarazioni. Shahram Azam, medico dell’esercito iraniano, scappato nel 2004 e attualmente in esilio in Canada, ha raccontato di aver esaminato il corpo della fotografa. Riscontrando segni di tortura e violenza sessuale. Oltre alla frattura del cranio, naso rotto e dita spezzate. Quanto basta perché la famiglia della Kazemi ed il governo canadese considerino la sua morte per quello che è stato. Un omicidio.
Nata nel 1949 in Iran, la Kazemi si era trasferita nel 1974 a Parigi prima di emigrare nuovamente alla volta del Canada. Ciononostante aveva conservato la cittadinanza iraniana e si considerava a tutti gli effetti canadese-iraniana. Dal Canada aveva cominciato a girare per il mondo come fotoreporter. Campi profughi, guerre, povertà. Con i suoi scatti la Kazemi immortalava donne, uomini e bambini che vivevano in condizioni estreme. Ultimamente infatti il suo lavoro si era concentrato nei territori palestinesi, in Afghanistan ed in Iraq. Il 23 giugno del 2003 Zahra si trova di fronte alla prigione di Evin. A fare il suo lavoro di fotografa. In quel giorno infatti era stata indetta una manifestazione dei familiari degli studenti dissidenti incarcerati. Zahra viene arrestata ed imprigionata con il pretesto che fotografare la prigione, anche le mura di cinta, è proibito. Da quel giorno di lei si perdono le tracce. Almeno per diciannove giorni. Trascorsi i quali viene dato l’annuncio ufficiale della sua morte. Inizialmente, dopo alcuni tentennamenti, il governo, per bocca di Mohammed Ali Abtahi, Vice presidente degli affari legali e Masoud Pezeshkian, ministro della salute, ammettono che la sua morte è stata causata da una frattura al cranio in seguito a gravi percosse. Abtahi ha inoltre dichiarato di aver subito delle pressioni da parte del governo affinché negasse i fatti ma di essersi opposto alle stesse. La morte della Kazemi aveva causato una tensione nei rapporti diplomatici tra il Canada e l’Iran. Alle iniziali richieste del governo canadese, che voleva che il corpo della fotoreporter venisse restituito a Stephan Kazemi, il figlio, Tehran ha risposto negativamente. Adducendo come scusa che la madre della Kazemi aveva insistito che la figlia venisse seppellita in Iran. Salvo poi essere smentito dalla stessa madre che ha poi dichiarato aver subito pressioni in in tal senso. La famiglia della Kazemi non si però arresa. In Iran la mamma e in Canada il figlio hanno cominciato una battaglia giudiziaria. A sostenerli Shirin Ebadi, avvocata dei diritti umani e Premio Nobel. Eppure neanche l’appoggio della Ebadi, il sostegno del governo canadese, le proteste delle organizzazioni dei giornalisti canadesi della Canadian Journalists for Free Expression è setrvito.
Il processo è andato avanti come una farsa. Tehran, tra l’altro, riconosceva solo la nazionalità iraniana della Kazemi, e non quella canadese. Con questa scusa il governo iraniano aveva rifiutato l’accesso degli osservatori canadesi al processo. Solo dopo che l’allora Ministro degli esteri canadesi Bill Graham aveva richiamato l’ambasciatore a Tehran, era stato accordato il permesso. Ma Philip McKinnon, l’ambasciatore, aveva potuto essere presente, insieme a diplomatici britannici, olandesi e francesi, che rappresentavano l’Unione Europea, solo ad una udienza del processo. Prima che Il giorno dopo il giudice Farahani facesse marcia indietro. Niente osservatori occidentali al processo. Presenza non gradita. E rifiutata con una scusa ai limiti del comico. Mancanza di sedie necessarie in aula.
Come riferito da Reza Assefi, portavoce del Ministero degli affari esteri iraniano. Il processo termina con un nulla di fatto. Malgrado la denuncia degli avvocati della famiglia della Kazemi, i giudici non prestano alcuna attenzione all’evidenza delle prove. Non convocano i testimoni, non esaminano le prove, non arrestano gli assassini. Tre guardie carcerarie, due delle quali, erano stati quasi immediatamente rilasciate. Il terzo giudicato innocente alla fine del processo. Quanto alla causa della morte vengono fornite dal governo e dai giudici varie versioni. Infarto, caduta accidentale, sciopero della fame. Nessun colpevole quindi. Poi il regime teocratico dell’Iran dichiara di voler pagare alla famiglia una somma di denaro. Nel caso di Zahra, la somma è inferiore della metà. Essendo una donna la somma dovuta è la metà di quella riservata per la morte di un uomo. Stephan Kazemi, il figlio, ha rifiutato con sdegno l’offerta. Accettarla avrebbe significato compromettere il senso di giustizia, libertà ed uguaglianza che la madre aveva sempre seguito. Per onorare la madre Stephan ha creato in Canada una fondazione in suo nome e organizza mostre con le sue foto. Perché Zahara Kazemi non sia dimenticata.

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