Una fiction innovativa
senza i soliti eroi bravi e buoni
che tanto piacciono al servizio pubblico
Fumo che esce da una finestra nel bianco luminoso di una neve implacabile. Fumo di cannabis che abbandona svelto l’ufficio di un funzionario di Polizia.
La città è Aosta, il vicequestore è Rocco Schiavone, un poliziotto romano, trasferito tra le Alpi per motivi disciplinari, cresciuto nella Trastevere degli anni ’70. E’ cinico, sboccato e ha un senso etico del tutto personale, che spesso non coincide con quello che un poliziotto dovrebbe avere. Ha un passato oscuro, ha amici che sono rimasti delinquenti (ma per loro l’affetto è rimasto immutato) e le sue azioni esondano quasi sempre dagli argini della legalità.
Ricapitolando: fuma erba, dice parolacce, non si fa problemi a forzare porte senza mandato e mette in piedi qualche affaruccio losco con l’amico malvivente Sebastiano. E’ andata in onda sulla Rai. Eh sì, perché Rai Fiction e la Cross Production di Rosario Rinaldi hanno deciso di trasformare i romanzi di successo di Antonio Manzini in una serie tv da sei puntate, e piazzarla su Rai2 in prima serata.
È stato lo stesso Manzini a occuparsi della sceneggiatura, coadiuvato da Maurizio Careddu, prendendo spunto da due racconti brevi e quattro romanzi: Pista nera, La costola di Adamo, Castore e Polluce, Non è stagione, Era di maggio, Pulizie di primavera.
Gli obiettivi dichiarati di Rai 2 erano innovare nel campo della fiction e recuperare il pubblico giovane non abituato alla serialità italiana. Il primo di questi scopi è stato certamente raggiunto, con un prodotto anticonformista per il panorama italiano, anche se non ai livelli di produzioni internazionali (che hanno budget diversi), per il secondo parlano gli ascolti: 14% di share la prima puntata e 15% la terza, per due volte su quattro vincitore della prima serata.
Una scelta coraggiosa, premiata dal pubblico. Un’idea che mette in campo un mix vincente: la tradizione del giallo italiano, il noir europeo del commissario Adamsberg e dell’ispettore Wallander (creature di carta di Fred Vargas e Henning Mankell poi arrivate sul piccolo schermo) e la eccelsa interpretazione di Marco Giallini, un attore per troppi anni sottovalutato e ora finalmente esploso, che sa infondere al suo personaggio il sarcasmo e la sensibilità tipici della romanità.
Dal punto di vista prettamente visivo, trasportare la complessità caratteriale di Schiavone ad Aosta non era facile. Il regista Michele Soavi, vecchio mestierante del thriller/horror (Deliria, Dellamorte Dellamore) e da tempo dedito alla televisione (Ultimo, Uno bianca) ha rischiato e si è superato. Il personaggio entra nei colori grigio-blu dei paesaggi con cui è stata virata la pellicola con la color correction, e si fonde col bianco delle Alpi aostane e del vestito della moglie Marina con cui Rocco parla come se fosse viva. Come Montalbano, anche Schiavone ha delle macchiette come collaboratori e un collega fidato e sveglio. È alla ricerca della verità, così come il commissario siciliano.
Ma Schiavone non è Montalbano: intorno al vicequestore c’è puzza di obitorio, c’è il marcio più nero della media borghesia arricchita e arrivista, c’è voglia di ottenere giustizia passando sopra a tutto e tutti. C’è un pessimismo di fondo non convenzionale che aspira a divenire umanità. C’è una canna pronta ogni mattina, nel cassetto della scrivania in questura. E l’insieme di queste cose non poteva passare inosservato, specie a chi pensava che la Rai fosse il giusto contenitore solo per le allegre scampagnate di Don Matteo o le massime elementari di nonno Libero.
Per il senatore del Popolo delle Libertà Maurizio Gasparri, “Schiavone è un eroe per imbecilli, un violento, corrotto e cannarolo”, tanto fuori luogo per quelle frequenze da meritare una interrogazione parlamentare, firmata anche da Giovanardi e Quagliariello, per chiedere la sospensione della fiction.
Gianni Tonelli, segretario generale del Sap - Sindacato autonomo Polizia - afferma che nelle prime 3 puntate “Schiavone ha commesso reati quantificabili in circa 28 anni di reclusione” e punta il dito sul mancato coinvolgimento del Dipartimento nella realizzazione della serie, invitandolo a denunciare gli autori, per mancata autorizzazione delle auto civette e dello stemma araldico.
Ma chiedere la sospensione di un prodotto artistico sulla base dei contenuti e delle abitudini di un personaggio di fantasia non è forse un po’ esagerato? Soprattutto se consideriamo che il prodotto in questione meriterebbe elogi e critiche entusiaste, non battaglie di retroguardia che strumentalizzano una fiction per scopi politici. Si parli piuttosto delle miriadi di sfumature che Giallini sa dare al personaggio o della scrittura di una serie televisiva che, per una volta, ci risparmia la solita infornata di eroi senza macchia nel nome del servizio pubblico. Si sottolinei il fatto che la qualità di questo prodotto lo porterà a essere esportato e trasmesso in altri Paesi europei, altra anomalia positiva per una fiction nostrana.
Antonio Manzini dice della sua creatura che fa cose orribili e cose bellissime, e che non lo considera assolutamente un eroe. “E’ una persona empatica, che esiste nei miei libri da tanti anni, ma ha suscitato polemiche solo quando è finito in televisione. Ma a me non interessano le polemiche, io scrivo libri e quando si scrive si è liberi”.
Liberi noi spettatori di giudicare, liberi di farci affascinare dall’ambiguità di un uomo solo e in lotta contro i suoi demoni. Schiavone libera tutti.
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