Quando l’incongruenza
tra le norme e la loro applicazione
rallenta lo sradicamento
di una pratica disumana
“E’ estremamente difficile consegnare alla giustizia chi pratica la mutilazione genitale femminile perché si chiede a una bambina di testimoniare contro i suoi stessi genitori in Tribunale. Nella sua mente questi genitori non stanno commettendo abusi su di lei. Loro pensano di stare facendo la cosa giusta per le loro figlie e così le figlie non lo vedono come un abuso”. Le parole di Hibo Wadere, attivista anti-Fgm, sigla che sta ad indicare il termine inglese di Female Genital Mutilation, si riferiscono alla situazione nel Regno Unito nella primavera del 2016. Dove, malgrado leggi e grandi dichiarazioni d’intenti, nessuno finora è mai stato condannato per aver praticato la Fgm su bambine e ragazzine.
Una situazione in cui a livello formale c’è la condanna delle autorità e del mondo politico ma nei fatti, nulla accade.
Come accade, su ben più vasta scala, in Nigeria. Secondo un report pubblicato dall’associazione 28Too Many a ottobre e rilanciata dal The Guardian, malgrado la legge, varata nel 2015 dal presidente Jonathan Goodluck che bandiva la Fgm, oltre 20 milioni di donne sono state sottoposte alla pratica e la maggioranza di loro da bambine.
Questa incongruenza tra le leggi e la loro applicazione rende il lavoro di sradicamento della pratica estremamente difficoltoso. In Europa e nel mondo anglosassone in particolare l’attitudine multiculturalista di larga parte dei governi continuano a considerare razzista qualunque critica rivolta a pratiche culturali misogine e lesive della dignità femminile impedendo o quanto meno rendendo difficoltoso il lavoro sul campo delle varie associazioni che si battono affinchè la pratica sia completamente sradicata.
A tale proposito appare chiaro quanto tagliente fosse l’intervento di Ann Marie Waters della National Secular Society, organismo britannico che si batte per la laicità che, nel marzo del 2012 in un articolo online pubblicato sul sito dell’associazione: “La Fgm è un crimine in Gran Bretagna passibile di 14 anni di carcere o almeno così sarebbe se la legge fosse applicata. Malgrado statistiche e ricerche mostrino che migliaia di ragazze e bambine sono mutilate ogni anno qui e all’estero, nessuno è mai finito sotto processo per tali orrori. Il personale della Polizia con cui ho parlato mi ha riferito di mancanza di prove. Perdonatemi il cinismo ma continuo a credere che si tratti di mancanza di volontà e non di prove. Spinta da me, la poliziotta con cui ho parlato è arrivata finalmente al fulcro della questione quando ha detto ‘Non possiamo attaccare la cultura e la fede di ognuno’ Così, nel frattempo sempre più ragazze vivono una vita di agonia perché non possiamo criticare una preziosa cultura. Ecco cosa penso. Questo accade perché queste ragazze non sono bianche. E nel profondo lo sappiamo. Se una famiglia bianca mutilasse la figlia i genitori sarebbero in carcere e la ragazza in affidamento. Quindi dove sta la differenza? Stiamo dicendo che è meno grave farlo a una ragazza asiatica o nera e che il suo corpo vale di meno? Questo è il risultato del multiculturalismo. Quello che è violenza e abuso per una ragazza bianca automaticamente diventa ‘cultura’ (un termine totalmente positivo che non cambia e non può essere cambiato) per una ragazza nera o asiatica.”
Anche l’Uganda nel 2009 aveva reso la Fgm fuorilegge, eppure la sua pratica continua, per quanto in diminuzione. Sradicare la pratica della Fgm significa scontrarsi sul terreno non solo con preconcetti di tipo culturale, ma anche con poteri forti. Uno degli scopi culturali della Fgm è il controllo sulla sessualità femminile. Secondo il pensiero patriarcale e misogino la donna rappresenta l’onore della famiglia e della comunità e la sua sessualità deve essere inquadrata all’interno del contesto matrimoniale e, possibilmente, alla sola procreazione. Ad ogni modo oltre alla quasi impossibilità di poter provare piacere sessuale i rischi per le donne sono decisamente seri: infezioni e ritenzioni urinarie, fistula, rischi durante il parto, epatite, Hiv, incontinenza, cistiti, problemi nel flusso del ciclo mestruale.
Secondo la World Health Organisation oltre cento milioni di donne vivono con una qualche forma di Fgm tra cui quasi cento milioni di bambine sotto i dieci anni nei Paesi africani. La pratica appare maggiormente in voga in circa una trentina di nazioni africane in particolare nella zona centrale del continente ed anche nella penisola arabica. In Paesi come l’Egitto, la Somalia o il Sudan la pratica appare particolarmente estesa. Eppure, malgrado l’estensione del fenomeno, dei passi in avanti sono stati fatti.
Numerose associazioni lavorano sul terreno per sradicare la pratica. E’ il caso di Tostan, organizzazione che da anni si batte sul territorio, grazie a delle attiviste locali, che conoscono la cultura dei villaggi, gli usi e le tradizioni e che sono fluenti nella lingua locale. Un approccio olistico che sta dando i suoi frutti, come testimonia Julia Ritchey nel suo reportage “How Africa stops cutting” nell’edizione invernale del 2012 di Ms Magazine. La fotomodella di origine somala Waris Dirie, naturalizzata austriaca, ha raccontato la sua esperienza di donna a cui è stata praticata la Fgm nel libro “Desert flower” divenuto poi anche film, ed è attualmente una portavoce del movimento globale contro la Fgm. Anche Sister Fa, cantante hip hop di origine senegalese ora residente in Germania si batte contro la pratica della Fgm nel suo Paese natale, denunciando la pratica nelle sue canzoni o attraverso i suoi tour educativi “Education sans excision”.
In alcuni casi i cambiamenti sono evidenti. Secondo il Journal of Sexual Medicine del 2009 le comunità arabe beduine del sud di Israele hanno praticamente abbandonato la Fgm. Le comunità, monitorate da un team di studiosi della Ben-Gurion University of the Negev a Beer-Sheva avevano evidenziato come, nel 1995 la pratica della Fgm fosse diffusa tra le comunità beduine. Dopo 15 anni, nuovi esami medici hanno evidenziato che la pratica era stata totalmente abbandonata. I beduini israeliani, circa 180.000, dall’indipendenza di Israele hanno adottato lentamente uno stile di vita più occidentale e hanno migliorato il livello di salute e di istruzione, fattori che, secondo il professor Robert Belmaker, hanno contribuito allo sradicamento della pratica.
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