Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia è imperniato
sulle dichiarazioni e sui documenti prodotti dal figlio
dell’ex sindaco mafioso di Palermo, ma le perizie hanno minato
l’attendibilità delle fotocopie consegnate ai magistrati
«Il papello consegnato ai pm da Massimo Ciancimino è frutto di una sua grossolana manipolazione» ha lapidariamente scritto la giudice Marina Petruzzella nelle motivazioni della sentenza con cui ha assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, processato a Palermo col rito abbreviato con l’accusa di essere il mandante della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Il processo principale agli altri supposti trattativisti (boss, ufficiali dei Carabinieri ed esponenti politici) è in corso da tre anni e mezzo e non se ne intravede la fine.
Il «papello» è il più noto e importante dei documenti consegnati ai pm di diverse Procure da Ciancimino, perché contiene dodici presunte richieste del capo di cosa nostra Totò Riina allo Stato, inoltrate dopo la strage di Capaci, tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, per porre fine alle stragi. Di «un papello di richieste lungo così» che Riina avrebbe consegnato a intermediari delle Istituzioni, «dopo le stragi» del ’92, ha parlato per primo il boss pentito Giovanni Brusca, nel ’96. Tre anni dopo, lo stesso Brusca, ha corretto le proprie dichiarazioni collocando quella consegna tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Tempistica confermata nel 2008 da Ciancimino jr.
Petruzzella, in realtà, non ha prove della «manipolazione», la sua è una deduzione: Ciancimino ha consegnato una fotocopia ed «è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali»; perciò «a tale papello, così come al contropapello del padre» non può «attribuirsi alcuna validità processuale [...] poiché di inchiostri, fogli di carta, cartucce di stampante datate esiste notoriamente un mercato, tra l’altro anche funzionale alle falsificazioni documentali».
Come il lettore forse ricorda, Massimo Ciancimino è stato arrestato il 21 aprile del 2011 per la manipolazione di una lista di nomi a cui è stato aggiunto quello di Gianni De Gennaro, all’epoca capo dei servizi segreti italiani e oggi presidente di Finmeccanica, indicato come componente di un fantomatico «Quarto livello» mafioso nonché «puparo» dell’altrettanto fantomatico «signor Carlo/Franco», uno 007 attivo dalla fine degli anni Sessanta, anch’egli membro del Quarto livello e da sempre in stretto contatto con don Vito, che, secondo il figlio, non prendeva decisione importante senza prima averlo consultato. Della «trasposizione» di quel nome da un foglio a un altro, si sono accorti i tecnici della Polizia Scientifica di Roma a cui i pm della Dda di Palermo e di Caltanissetta si erano rivolti per periziare le carte che, a rate, Ciancimino ha consegnato a riscontro delle proprie affermazioni sulla trattativa.
Senza volerci addentrare nei tortuosi e articolati meandri della trattativa, è di tali carte – tornate in auge ai primi di novembre, dopo il deposito della “sentenza Mannino” – che intendiamo raccontare, alcune delle quali minano la credibilità, già compromessa dalle numerose contraddizioni, del figlio minore del defunto don Vito, morto a Roma il 19 novembre del 2002.
Tribunale di Palermo, martedì 12 ottobre 2010. Gli esperti della Scientifica testimoniano nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu (ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, accusati di non avere voluto catturare, nell’ottobre del ’95, il boss latitante Bernardo Provenzano). Si parla del cosiddetto contropapello, il presunto elenco di richieste stilate da don Vito per emendare quelle «inaccettabili e impresentabili» del papello (il cui autore è rimasto ignoto). Il presidente Angelo Fontana chiede chiarimenti alla specialista Sara Falconi:
Presidente: «Quindi questa carta, massimo ’91, è stata utilizzata, poi, per fare questa fotocopia».
Teste: «Sì».
Presidente: «Quindi dobbiamo ritenere che il momento in cui è stato scritto “Allegato per mio libro” è quello, o comunque successivo, in cui è stata fatta questa fotocopia. Giusto?»
Teste: «Sì».
La scritta «Allegato per mio libro», stando a Ciancimino, risalirebbe al periodo 2000-2002. Ciò vuol dire che Massimo (o chi per lui) aveva a disposizione carta di fine anni ’80 - primi ’90 e poteva fare fotocopie che, apparentemente, risalgono a quel periodo ma in realtà sono successive. Come poi sostenuto in sentenza dalla giudice Petruzzella. La carta di colore giallo paglierino su cui è fotocopiato il contropapello è dello stesso tipo di quella del papello e del collage del Quarto livello. E qui la cosa si fa ancora più ingarbugliata, perché il collage sarebbe stato consegnato a Massimo nel 2011 da un tal «Rosselli» (mai individuato), che lo avrebbe convinto a darlo ai pm. Colpisce il fatto che Rosselli fosse in possesso dello stesso tipo di carta, in commercio tra il 1986 e il 1991, utilizzata per le altre fotocopie di Ciancimino e ciò farebbe pensare a un’unica “centrale” di produzione dei documenti.
Un altro collage è stato consegnato l’1 dicembre 2009: a sinistra c’è un elenco in stampatello, manoscritto da Massimo; a destra e in basso, appunti di don Vito su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (anch’egli imputato nel “processo trattativa”). Ciancimino ha avvertito i pm di avere fotocopiato quel collage per discuterne col padre, tra il 2000 e il 2002; i periti hanno accertato che la carta era in commercio dal 2004.
Più di un dubbio anche sulla fotocopia della «lettera» all’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio, scritta al computer e firmata da don Vito. Per la Scientifica, la firma sarebbe stata ritagliata da un altro foglio e aggiunta successivamente.
Puzzano infine di falso anche i sette «pizzini» di Provenzano all’ex sindaco, quattro dei quali riconducibili alla trattativa, dattiloscritti dal 1992 al 2001 con la stessa macchina (che non corrisponde a nessuna delle sette usate per gli altri pizzini in possesso dei pm e riconducibili con certezza al boss corleonese). Malgrado i nove anni trascorsi dalla prima all’ultima lettera, i caratteri non mostrano segni di usura, come se i messaggi fossero stati scritti tutti nello stesso periodo. A screditarne l’autenticità, fra gli altri, contribuiscono lo stesso Ciancimino e il boss pentito Ciro Vara: il 2 ottobre 2008, il figlio di don Vito aveva dichiarato che il padre sapeva «se una lettera arrivava dal Provenzano o da Riina... Difatti mio padre non aveva mai accettato cose scritte a macchina ma solo a penna, perché aveva un modo di decifrare l’autenticità delle cose». Vara, dal canto suo, durante un’udienza del processo Mori-Obinu, chiamato a testimoniare dai pm, ha giurato di avere appreso dal boss Giovanni Napoli che sarebbe stato quest’ultimo a insegnare a scrivere a macchina a Provenzano, quando l’ha accudito a Mezzojuso (in provincia di Palermo), nel 1994. Insomma, nel ’92 il capomafia non aveva ancora usato una macchina per scrivere. Ciò ha indotto il giudice Mario Fontana a concludere in sentenza che «i presunti “pizzini” del Provenzano non possono ritenersi autentici». Con buona pace delle carte e delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino.
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