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Marzo/2012 - Laboratorio
Info@laboratoriopoliziademocratica.org - www.laboratoriopoliziademocratica.it
La rappresentanza militare? Uno strumento obsoleto
di Cleto Iafrate - Componente Direttivo nazionale - Associazione civica Ficiesse

È noto come il nostro ordinamento giuridico sia ispirato al principio della libertà di organizzazione sindacale.
Le organizzazioni sindacali sono inquadrabili in quelle formazioni sociali di cui parla l’art. 2 della Costituzione, all’interno delle quali la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.
L’art. 39 della nostra Costituzione ha dato la possibilità a tutti i lavoratori di riunirsi in liberi sindacati. Tali organi hanno il compito di rappresentare i loro iscritti nella stipula di contratti collettivi di lavoro e, a tal fine, essi possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica.
Com’è noto, però, per condurre con efficacia qualsiasi trattativa, che interessi gli iscritti ad un sindacato, è necessario che allo stesso sia riconosciuto un ruolo negoziale di contrattazione ed abbia un ordinamento interno a base democratica. Solo in questo modo, si può giungere alla stipula di accordi ed ottenere concessioni con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria dei lavoratori di un determinato settore.
La legge di principio sulla disciplina militare ha istituito degli organi particolari, detti di “rappresentanza”. Essi furono presentati come un’importante innovazione che avrebbe dovuto “informare” l’ordinamento militare ai principi costituzionali in materia di tutela del lavoro e realizzare l’avvicinamento delle Forze armate allo “spirito democratico” della Repubblica.
Gli organismi di rappresentanza militare furono immaginati in “funzione sostitutiva rispetto alla negata libertà sindacale”.
Nelle intenzioni del legislatore del 1978, tali gli organi avrebbero dovuto, parallelamente alla linea gerarchica, realizzare un insieme di istanze, pareri e richieste che dalla base sarebbero confluite verso il Parlamento, attraverso i vertici delle Forze armate, per favorire «lo spirito di partecipazione e collaborazione e mantenere elevate le condizioni morali e materiali del personale militare nel superiore interesse delle Istituzioni».
L’applicazione pratica dell’istituto della rappresentanza militare, però, è risultata molto difficoltosa. Nel concepire tali organi, il legislatore ordinario ha partorito una legge “zoppa”.

La legge di principio
La legge di principio sulla disciplina militare è la legge 382/78, essa è stata accolta, unitamente ad altre leggi ordinarie, in un unico testo normativo: il Codice dell’Ordinamento Militare.
La norma più controversa della legge di principio sulla disciplina militare, a mio parere, è il primo comma dell’art. 3 della L. 382/78 (recepito dall’art. 1465 del Codice dell’Ordinamento Militare). Tale norma è assai simile a un sillogismo, cosiddetto “entimematico”; questo tipo di sillogismo è un ragionamento logico deduttivo in cui è taciuta una delle premesse. L’articolo, infatti, si compone di una premessa implicita (a tutti i cittadini la Costituzione riconosce certi diritti), di una esplicita (ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini) e di una conclusione (la legge impone ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti). Il sillogismo, però, è contrario a ogni logica aristotelica, in quanto la conclusione è antitetica alle premesse.
È del tutto evidente che le due premesse non possono convivere insieme alla conclusione, per cui o si accettano le premesse oppure la conclusione.

La RARM
Il Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (Rarm), emanato con Dpr 691/1979, è stato accolto, unitamente ad altre norme di rango regolamentare, in un unico testo normativo: il Dpr 15 marzo 2010, n. 90.
Ebbene, dopo aver esposto, in breve, le motivazioni per cui la legge di principio è stata definita «zoppa», relativamente alla disciplina della rappresentanza, si espongono le ragioni di fondo che inducono a definire il relativo regolamento di attuazione come gravato da ulteriori impedimenti, che hanno depotenziato ed anestetizzato il funzionamento degli organismi di rappresentanza militare.
Da un esame complessivo del Rarm emerge come sia stata sostanzialmente posta in ombra la valenza partecipativa della rappresentanza e la irriducibilità della figura del delegato; circostanza che incide sul clima di partecipazione e collaborazione che avrebbe dovuto informare le riunioni.
Pur non negando la necessità di prevedere delle specifiche sanzioni disciplinari per i delegati, a causa della particolarità del ruolo che ricoprono, si deve osservare come le norme predette, attualmente, non siano poste con funzione di controllo e di indirizzo dell’attività dei delegati e a tutela dei rappresentati, ma allo scopo di restringere l’autonomia degli organismi stessi.
Queste ultime considerazioni assumono maggiore rilievo se solo si considera che la sanzione della consegna è disciplinata anch’essa da un regolamento e non da una legge. Tale circostanza induce a nutrire notevoli perplessità di ordine costituzionale, perché non è conforme alla necessità di garantire il libero esercizio delle funzioni di rappresentanza previsto nella legge di principio e il cui contenuto è stato poi ulteriormente ristretto nella disciplina introdotta dal regolamento attuativo.
L’art. 1479 (già art. 20 della legge 382/78), inoltre, vieta comportamenti assunti ex ante, a scopo intimidatorio, «diretti a condizionare o limitare l’esercizio del mandato», ma non reprime atti e comportamenti punitivi esercitati ex post, ossia quale ritorsione della gerarchia nei confronti dei delegati. In altri termini, sembra mancare del tutto un mezzo di difesa giudiziale dell’organismo in quanto portatore di interessi collettivi, in analogia a quanto previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
Ad onor del vero, il punto n. 50 dell’allegato C, al Regolamento di Disciplina Militare, prevede tra le infrazioni punibili con la consegna di rigore, «gli atti diretti a condizionare l’esercizio del mandato dei componenti degli organi di rappresentanza militare»; tale formula, però, è di difficile applicazione a causa della sua eccessiva genericità e andrebbe meglio specificata.
Se è vero che esiste un diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero per il militare rappresentato, tale diritto andrebbe, a fortiori, riconosciuto al militare rappresentante, con le uniche limitazioni previste dalla legge di principio, cioè argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio.
In effetti, al militare rappresentante è concessa tale possibilità ma solo dietro autorizzazione dell’autorità gerarchica competente. In tale modo la libertà che sembra riconosciuta al militare prima della sua elezione, finisce, inesorabilmente, per comprimersi quando costui viene eletto membro della rappresentanza. L’assoggettamento ad autorizzazione sembra proprio eccessiva e rappresenta un’ulteriore chiara restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero. Tale restrizione presta il fianco a dubbi e perplessità sotto il profilo della sua legittimità costituzionale.
Tutto quanto sopra brevemente visto, fa capire come i singoli rappresentanti siano costretti ad agire, in modo eroico, in un campo irto di insidie, quasi come fosse un percorso di guerra; essi, pertanto, non devono essere biasimati, ma vanno sostenuti e aiutati dai colleghi della base (almeno fino a quando non chiedono di essere prorogati e poi riprorogati!).
Giunti a questo punto, non si può certo sostenere che gli organismi di rappresentanza siano immuni dai condizionamenti derivanti dalla gerarchia.

Conclusioni
È evidente che la rappresentanza militare, così come concepita dall’attuale normativa, appare oggi uno strumento obsoleto e drasticamente inutile a rappresentare le istanze della base, per cui un’intera categoria di pubblici dipendenti, in possesso di sconfinati poteri e strumenti investigativi, continua a rimanere in una situazione di assoluta separatezza.
Ci si chiede quale sia il motivo per il quale il legislatore italiano sia da sempre contrario a riconoscere ai cittadini militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o di aderire a quelle esistenti.
Ebbene, la diffidenza del legislatore ha una radice “biforcuta”.
a) Il mancato riconoscimento delle libertà sindacali sarebbe giustificato dalla preoccupazione secondo la quale un eventuale sindacato armato si porrebbe in conflitto con lo Stato (“datore di lavoro”).
Ritengo che i suggerimenti e le istanze provenienti dalla base potrebbero rappresentare un utile contributo al miglioramento dell’efficienza della macchina amministrativa della difesa. A tal proposito, si consideri, che le Forze armate e, soprattutto, la polizia giudiziaria e tributaria militare hanno acquisito una notevole professionalità. Non sono infrequenti i casi in cui singoli settori dell’amministrazione della difesa (es. Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza, ecc.) avanzano proposte, volte a rendere più efficiente e produttivo il loro operato, che sono destinate a restare lettera morta perché chi le propone non ha gli strumenti per portarle all’attenzione della collettività.
Si consideri, inoltre, che non è il riconoscimento del diritto di libertà sindacale, in quanto tale, a mettere in pericolo lo svolgimento del ruolo tipico delle Forze armate, ma solo certe ed eventuali modalità del suo esercizio. E’ giusto il caso di far rilevare come forme illegittime di esercizio del diritto di libertà sindacale sarebbero sicuramente represse con l’applicazione del Regolamento di Disciplina Militare, oppure con il Codice Penale Militare di Pace oppure con il Codice Penale.
b) La seconda motivazione posta a fondamento del divieto risiede nella preoccupazione secondo la quale l’esercizio della libertà sindacale esporrebbe le Forze armate e di polizia militarmente organizzate al rischio di strumentalizzazione e politicizzazione e ciò potrebbe mettere in pericolo l’assolvimento dei compiti istituzionali.
Tali timori, però, risultano pretestuosi e privi di qualsiasi fondamento.
Il mancato riconoscimento dei diritti sindacali non contribuisce in alcun modo a scongiurare o allontanare il rischio di strumentalizzazione e politicizzazione. Le stesse preoccupazioni, infatti, potrebbero nutrirsi anche nei confronti degli esponenti più alti della gerarchia, proprio perché questi si trovano più a stretto contatto con i vertici dell’esecutivo. Qualora ciò si verificasse, si correrebbe un pericolo ben più grave per la sicurezza della democrazia.
Si rende, perciò, assolutamente necessario uno strumento di tutela effettiva, a garanzia non solo dei militari, ma anche, e soprattutto, dei superiori interessi della democrazia. Si consideri che la polizia giudiziaria militarmente organizzata è come una «stella polare» per l’autorità giudiziaria: con la sua luce consente al magistrato di orientarsi nelle indagini; essa deve poter continuare a brillare anche quando le indagini conducono a «menti sopraffine».

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