Dall’Università di Padova un’originale ricerca sulle condizioni
di lavoro del personale della Polizia Penitenziaria negli istituti di pena
del Veneto. Maculan: «Non bastano le indagini sullo stress lavorativo
e sul burn out; occorre concentrare gli studi anche sull’analisi
del contesto organizzativo così come descritto e vissuto dal personale
di Polizia Penitenziaria. Solo così sarà possibile individuare su quali
aree critiche intervenire, apportando miglioramenti alle condizioni
di lavoro degli agenti e, di conseguenza, al benessere dei detenuti»
Pochi conoscono in che cosa consista effettivamente il lavoro dei poliziotti penitenziari all’interno di un carcere, i rischi che corrono quotidianamente questi operatori, i loro rapporti coi detenuti, coi colleghi e con l’Amministrazione.
“La polizia penitenziaria in Veneto: condizioni lavorative e salute organizzative” è la prima ricerca italiana sul tema, ideata e condotta da due giovani ricercatori del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova – Francesca Vianello, docente di sociologia della devianza, e Alessandro Maculan, dottore di ricerca in Scienze sociali. Pubblicata grazie al contributo della Cgil Funzione pubblica del Veneto, è stata presentata presso la Sala delle Edicole dell’Ateneo patavino il 4 marzo scorso. La giornata di studio, che ha coinvolto rappresentanti sindacali della Fp-Cgil e dell’Amministrazione penitenziaria, tra cui il vice capo del Dipartimento, Massimo de Pascalis, ha rappresentato l’occasione per promuovere una maggiore conoscenza dell’importante ruolo svolto dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria all’interno degli istituti di pena veneti.
“Chi ha il compito di sorvegliare e gestire la comunità reclusa si trova al centro di una pesante contraddizione” – sostiene Giuseppe Mosconi, professore ordinario di sociologia, che ha discusso i risultati della ricerca assieme ad Adriano Zamperini, associato di psicologia sociale –. Quella di dover da un lato reggere l’immagine positiva, disciplinata ed efficientistica dell’istituzione, di contro, dall’altro, al diretto, quotidiano contatto con gli aspetti più problematici che la caratterizzano. Non a caso le notizie e immagini più correnti riferibili alla polizia penitenziaria si riferiscono al burn out, frutto del concorrere di esaurimento emotivo, di spersonalizzazione, di difficoltà di realizzazione del sé; ad episodi di violenza inflitta ai detenuti a fenomeni di corruzione e di traffici illeciti; di frequenti conflitti e rivendicazioni. Non sono questi certo la normalità dell’esperienza di chi è addetto alla custodia, ma il fatto che le immagini correnti si riferiscano a questi aspetti può essere indicatore di un disagio diffuso, di una difficoltà di comunicare e far conoscere la propria condizione, con le relative problematiche; di una cultura a sua volta accerchiata e ghettizzata che non ha statuto sociale”.
Le ricerche finora svolte sul personale di polizia penitenziaria hanno indagato le condizioni di lavoro del personale, dando centralità all’analisi delle problematiche lavorative sofferte dalle singole figure professionali. Si tratta di studi sullo stress lavorativo e sull’esaurimento emotivo (burn out), in una dimensione quasi esclusivamente individuale, tralasciando le complesse dinamiche organizzative. L’originalità del lavoro dei ricercatori dell’Università di Padova consiste nell’aver mutato la prospettiva di ricerca, proponendo un approfondimento sul contesto organizzativo, come descritto e vissuto dal personale di polizia penitenziaria.
“Il nostro studio – spiega il curatore Maculan – si differenzia dagli altri poiché partiamo dal concetto di salute organizzativa. Si distingue poiché il non considerare esclusivamente l’aspetto individuale, in qualche modo annacqua, per così dire, anche la tradizionale contrapposizione che di solito si registra tra il benessere dei poliziotti, da una parte, e il problema dei detenuti, dall’altra. Condizioni di lavoro migliori per il personale di polizia indubbiamente comportano anche ricadute positive sulla vita quotidiana dei detenuti. Con la presente ricerca – prosegue Maculan – gli operatori coinvolti hanno potuto esprimere un giudizio nei confronti del loro ambiente, delle condizioni di lavoro, delle relazioni coi colleghi e delle dinamiche coi superiori”.
La scelta di concentrare il lavoro sulla salute organizzativa (ossia sull’insieme di condizioni che caratterizzano la presenza e l’evoluzione della salute all’interno di un’organizzazione) è dovuta, primariamente, alla considerazione che gli agenti di polizia penitenziaria, pur trovandosi ad operare in un contesto tutt’altro che semplice, caratterizzato da sovraffollamento e da un diffuso degrado delle strutture, non fatichino a riconoscere quanto un “buon carcere” non sia dipendente solo dallo stato dell’ambiente in cui operano, ma anche dalle condizioni di lavoro. In secondo luogo, la rilevazione dei fenomeni critici che caratterizzano l’ambiente penitenziario (le morti in carcere, gli episodi di violenza verso i detenuti, i casi di suicidio degli operatori, ecc.) ed il riconoscimento della sistematica opera di prevenzione che gli agenti stessi sono chiamati a svolgere quotidianamente, hanno spinto i ricercatori a valorizzare la dimensione situazionale come fattore determinante per l’attivazione e la comprensione di comportamenti patologici o virtuosi.
“La polizia penitenziaria si ritrova, di fatto, a gestire le ricadute della principale contraddizione che attraversa le nostre società: quella che, basandosi sul presunto volere della maggioranza, pretende il contenimento e la segregazione di quella parte della collettività che ha infanto, con il diritto penale, le regole riconosciute della convivenza. In un periodo di crisi economica, di crescenti diseguaglianze, di potenziale conflittualità sociale le ricadute di una simile contraddizione rischiano di farsi particolarmente pesanti. Oggi più che mai appare dunque necessario aprire le porte del carcere e far conoscere il vissuto di coloro che vi operano e di coloro che vi sono ospitati. In ragione del mandato sociale che si vuole affidato al carcere, la responsabilità di ciò che avviene al suo interno non può essere che responsabilità di tutti. Speriamo che lo sforzo di indagare lo stato di salute delle strutture penitenziarie possa complessivamente contribuire a promuovere questa consapevolezza” (dalle “Conclusioni” della ricerca).
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Alessandro Maculan è dottore di ricerca in “Scienze Sociali: Interazioni, Comunicazione, Costruzioni Culturali” presso l’Università degli Studi di Padova. Collabora con l’osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone ONLUS ed ha lavorato allo “European Prison Observatory” coordinato sempre dall’Associazione Antigone. I suoi interessi di ricerca si sono rivolti principalmente allo studio dell’istituzione carceraria, del personale di polizia penitenziaria e dei processi di criminalizzazione dei migranti.
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Francesca Vianello è ricercatrice in Sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale presso l’Università di Padova, dove insegna Sociologia della devianza. Autrice di numerosi saggi su temi legati al controllo sociale e allo studio sociologico del sistema penale apparsi in riviste italiane ed estere e in volumi collettanei, ha inoltre pubblicato "Sociologia della devianza e della criminalità" (con Alvise Sbraccia) (Laterza 2010) e "Il carcere. Sociologia del penitenziario" (Carocci 2012).
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