“Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi foste stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.
Il brano citato non è l’unico riferimento allo straniero nei testi sacri; lo si ritrova anche nel Vangelo di Matteo e nell’Esodo. Questi passi mettono in luce immediatamente come nell’attuale società siamo ben lontani dall’auspicato modello bibblico. Infatti, oggi la regolare permanenza del cittadino straniero (extracomunitario) in ambito nazionale è direttamente correlata al possesso di un valido titolo di soggiorno in assenza del quale, il migrante viene rimpatriato - previo giusto vaglio giurisdizionale - nel proprio Paese di origine.
Per comprendere le scelte in atto e le risposte legislative però, si deve volgere lo sguardo indietro e considerare che il fenomeno dell’immigrazione in Italia inizia a crescere dagli anni ’70 del secolo scorso ed oggi ha assunto dei livelli macroscopici a causa delle continue guerre, dell’instabilità politica e dello stato di profondo disagio economico/sociale in cui versano i cosiddetti Paesi in via di sviluppo e non solo. Inoltre, una quota parte di persone ha un’immagine sfocata e la falsa percezione di trovare l’eldorado in Italia, affrontando i cosiddetti viaggi della speranza per un improbabile miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche. In questo scenario in costante mutazione, i cittadini si trovano quotidianamente a diretto contatto con lo straniero, il diverso, l’altro, il che determina una crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica rispetto alle problematiche connesse al tema. Lo straniero è una componente ineliminabile della società italiana.
Quest’ultima è caratterizzata da un forte deficit demografico. Se da un lato non è possibile fare a meno di importare nuova forza lavoro, nuove risorse, nuove energie per far funzionare un Paese altrimenti destinato al declino, dall’altro va considerato che un’immigrazione clandestina, incontrollata porta con sé numerose problematiche relative a vari aspetti del vivere sociale quali l’economia, l’istruzione, i diritti umani, il diritto di voto, l’assistenza sanitaria e così via; la stessa, inoltre, è in molti casi intimamente connessa all’aumento di reati quali lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di schiavi (che vedono proprio nei migranti stessi le vittime del reato) ed i delitti in materia di stupefacenti. In particolare, un flusso migratorio incontrollato porta a conseguenze difficilmente prevedibili in termini di ordine e sicurezza pubblica.
L’accrescersi di episodi di microcriminalità urbana che spesso hanno visto protagonista il migrante clandestino quale reo, ovvero quale vittima, dell’altrui sfruttamento e la congiuntura economica negativa, caratterizzata da un considerevole aumento della disoccupazione, hanno determinato, nell’ultimo decennio, l’espandersi del disagio sociale interno. Il che si è tradotto in un’accorata istanza di “sicurezza”, rivolta dai cittadini alle Istituzioni. Tale necessità ha fatto sì che i temi principali della pregressa campagna elettorale siano stati, appunto, l’ordine pubblico e la sicurezza.
Il governo insediatosi a seguito delle consultazioni parlamentari dell’aprile 2008 ha, fin dall’inizio della legislatura, introdotto provvedimenti di carattere marcatamente restrittivo nei confronti dello straniero irregolare. Di questi fa parte la legge 15 luglio 2009 n. 94 recante: “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” che, tra l’altro, ha portato all’introduzione di una nuova fattispecie penale: “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”. Quest’ultima sanziona penalmente l’ingresso e la permanenza in violazione delle norme di legge del cittadino straniero nel territorio dello Stato e viene annoverata dalla dottrina nell’alveo dei cosiddetti “reati di pura creazione legislativa”.
Oggi la situazione non può dirsi migliore anzi negli ultimi anni è drasticamente peggiorata fino a mettere in crisi il modello stesso di Europa che risponde, nell’emergenza, erigendo degli improbabili muri lasciando – nella maggior parte dei casi – fuori dalla porta solo la componente debole (donne, bambini ed anziani) delle società in questo movimento epocale di massa. Parimenti va sottolineato che un flusso migratorio incontrollato porta a conseguenze difficilmente prevedibili in termini di ordine e sicurezza pubblica ed è per tale ragione che il legislatore ha cercato, nel passato recente, di regolamentare gli ingressi contingentandoli in forza della capacità di assorbimento del Paese. Una regolamentazione dei flussi che si prefigge di contemperare una molteplicità di interessi non ultimo quello di riuscire ad assorbire il migrante straniero integrandolo nella società in condizioni decorose, nel pieno rispetto dei valori di tutte le diverse culture che convivono in questo grande Paese che è l’Italia.
Purtoppo nel settore in esame le leggi hanno spesso mostrato dei limiti oggettivi. Il primo riposa nel fatto che le sole norme giuridiche nulla possono contro la disperazione, contro un esodo planetario, contro la fame, contro la guerra e contro l’assenza di prospettive alternative che vedono i profughi rischiare la propria vita in mezzo al Mediterraneo per approdare lungo le coste del Bel Paese; oppure intraprendere un viaggio via terra impegnando tutti i propri averi e talvolta accendendo un mutuo con feroci criminali senza scrupoli che non riusciranno mai a pagare. Ancora per comprendere il fenomeno nella sua portata è bene rivedere brevemente il passato, la storia che sempre insegna, ma della quale nessuno mai impara a sufficienza; un passato che mostra come le migrazioni siano sempre esistite nei secoli e sempre esisteranno fino a quando l’uomo avrà vita e sussisteranno situazioni di forte squilibrio nell’assegnazione di risorse e ricchezza.
Il migrante, fin dai tempi antichi, è stato presente nella società e le sue sorti sono sempre state correlate ai mutamenti culturali, politici ed in particolar modo economici della stessa. Ad oriente lo straniero era già presente in età antichissima. In India, ad esempio, la suddivisione interna della società in caste, corrispondeva, all’esterno in un’assoluta separazione tra le genti. Gli stranieri, ovvero quelli che vivevano al di fuori della terra sacra, erano considerati impuri nei costumi e nel linguaggio e venivano chiamati “Mletka ”, parola corrispondente all’espressione “barbari” dei Greci.
In Cina, in età pre-cristiana, vigeva un sistema di Stati di tipo feudale sotto la supremazia di un imperatore. I rapporti tra i singoli stati erano pacifici, vi era circolazione di merci e mercanti, scambi di studenti. I filosofi ed i riformatori politici, di qualunque nazionalità fossero, erano ammessi al servizio dei principi e viaggiavano di corte in corte. In relazione a questo popolo però, vi sono anche testimonianze contrastanti che vedono i cinesi trattare con diffidenza lo straniero, incitandone il popolo al disprezzo perché considerato pericoloso.
Gli ebrei erano un popolo dominato totalmente dall’idea religiosa. Tuttavia, anche se la legge di Mosè conteneva disposizioni più miti verso i forestieri, il trattamento riservato ai nemici di questo popolo era di estrema durezza ed i loro schiavi non avevano il diritto all’emancipazione.
Nella civiltà egizia ogni diritto era precluso allo straniero; questo popolo, malinconico e superstizioso, sfogava il suo odio verso i non cittadini, in guerre continue. Per indicare il totale disprezzo nei confronti degli stranieri, gli egiziani scolpivano sui monumenti che nessun cittadino vi aveva prestata la sua opera.
Nella quasi totalità del mondo antico, tranne alcuni precetti di umanità inseriti nelle leggi dei popoli teocratici, i sentimenti prevalenti nei confronti dello straniero erano l’odio ed il disprezzo. Il popolo greco, che considerava straniero anche lo stesso cittadino greco proveniente da un’altra città, conosceva varie discriminazioni verso i non cittadini. Questi erano suddivisi in “stranieri di origine greca”, ai quali potevano essere attribuiti alcuni diritti preclusi ai “barbaros”. Quest’ultimi, infatti, erano in una posizione di assoluta estraneità rispetto all’ordinamento giuridico. A Sparta vigevano le severe leggi di Licurgo che contenevano numerose disposizioni contro gli stranieri. La più grave era la “xenelasia” ovvero il diritto dello Stato di espellere lo straniero il quale, per il modo di vivere e le opinioni professate, potesse corrompere i costumi pubblici e privati.
Il popolo Ateniese, invece, manteneva nei confronti dei non cittadini una posizione meno rigida e meno conservatrice. Gli stranieri erano suddivisi in tre categorie: alla prima appartenevano i forestieri che, per affari o diletto, trascorrevano un periodo limitato di tempo ad Atene conservando lo spirito del ritorno; della seconda facevano parte coloro i quali si erano stabiliti nella città e vi esercitavano la propria industria. Costoro dovevano pagare una tassa annuale e scegliersi un patrono che rispondesse delle loro azioni e li rappresentasse negli atti della vita ed, eventualmente, in giudizio. Il mancato rispetto di questi vincoli, però, portava lo straniero ad essere sottoposto a procedimento penale e, in caso di soccombenza, ad essere venduto. La terza categoria, infine, era costituita dagli stranieri che, avendo reso dei servigi utili allo Stato, erano esentati dalla tassa annuale ed ottenevano perfino la possibilità di acquistare immobili nell’Attica. Il diverso trattamento riservato allo straniero e la sua sistemazione su di un piano inferiore rispetto al cittadino, sarà una costante che abbraccerà trasversalmente nello spazio e nel tempo tutti i popoli.
Un’ultima osservazione relativa al mondo ellenico si rinviene nell’istituto dell’ospitalità. In base a tale accordo, ospite ed ospitato stabilivano un legame che si trasmetteva di padre in figlio. I Greci avevano nei confronti dell’ospitalità un altissimo sentimento e di questo istituto ne facevano un punto d’onore tale che non ne avrebbero mai infranto la regola. Ciò contribuì in modo significativo a mitigare le sofferenze dello straniero nel mondo antico. L’importanza dell’istituto lo fece assurgere a pubblica cura ponendolo, in Atene, nelle mani dell’Arconte Polemarco il quale, incaricato della tutela dei forestieri, è stato paragonato al praetor peregrinus del diritto romano.
Va sottolineato, infine, come le leggi ed i costumi in uso, nell’antica Grecia, divergessero dalle acute ugualitarie considerazioni dei filosofi della società ellenica. Pitagora si dice non facesse alcuna differenza tra i greci ed i barbari; Socrate, alla domanda rivoltagli di qual patria egli fosse, rispose d’esser cittadino del mondo.
Le opere della scuola storica sono intrise del principio di uguaglianza. Zenone affermava che il mondo intero è una grande città e sosteneva che tutti gli uomini debbano vivere “come un gregge che gode di pascoli comuni sotto leggi uguali”. Anche nell’antica Roma lo straniero era privo di capacità giuridica. La cittadinanza romana aveva la funzione specifica di classificare gli individui in due classi distinte: quella dei cittadini i quali potevano giovarsi delle norme del diritto privato e quella degli stranieri che ne erano esclusi. Il binomio cittadino-straniero costituisce la base del moderno jus migrandi e le sue radici possono datarsi al 187 a. C.
Allora gli Ambasciatori sociorum Latini nominis giunsero a Roma lamentando un’emorragia di uomini stabiliti dal Latium nell’Urbe. Il governo romano, investito della questione, affidò al pretore peregrino il compito di rintracciare chi fosse censito quale latino, al fine di espellerlo da Roma. Il provvedimento espulsivo decretato dal Senato affidava la fase esecutiva al pretore. L’onere della prova era posto in capo alle autorità locali che dovevano segnalare a quelle romane i nomi degli immigrati censiti nell’arco temporale specificato dal disposto del Senato. L’inchiesta portò al rimpatrio di 12.000 Latini. A dire il vero questa non fu la prima volta in cui il governo romano ricorse ad un siffatto provvedimento. Già nel 206 a. C. i consoli avevano ordinato, sulla base di un senatoconsultum, che i cittadini delle colonie di Piacenza e Cremona dovessero ritornare nelle loro sedi entro un certo termine. Anche nell’Urbe però, al pari di quanto accadeva presso le altre popolazioni, nella fase più antica, lo straniero era considerato come un nemico.
Il cittadino romano era il solo destinatario del diritto, come prova la legge delle XII tavole che, senza possibile interpretazione di sorta affermava: “Adversus hostem aeterna auctoritas esto”. Tuttavia, come la Grecia, anche Roma conobbe l’istituto dell’Hospitium il quale, al pari di quanto era avvenuto sulle coste ad est dell’adriatico, divenne una pubblica istituzione: Hospitium pubblice datum. Coloro i quali non appartenevano alla gens romana erano detti peregrini, hostes. I loro diritti si differenziavano in base alla categoria d’appartenenza. La suddivisione in tre classi richiamava quella in uso presso l’antica Grecia. Vi erano i “peregrini” ai quali era precluso lo jus civile, riservato solamente ai cittadini romani. Essi potevano servirsi solamente del diritto delle genti e, solo per il tramite degli istituti da esso derivati, erano ammessi a negoziare con i cittadini romani. Vi erano poi i “Latini”, ovvero gli abitanti del Lazio, i quali avevano un particolare rapporto con Roma dovuto alla vicinanza ed alla razza. Questi si trovano in una condizione intermedia tra i cittadini e gli stranieri; potevano intraprendere con i romani il commercium che li abilitava a compiere atti di diritto civile ed il conubium, che permetteva loro di contrarre matrimonio giusto e legittimo. Nell’ultima categoria si collocavano i “peregrini dedictii”, i quali avevano combattuto contro Roma ed erano stati vinti con la forza; essi per tale motivo erano divenuti schiavi, bottino di guerra.
Tutte queste differenze cessarono quando Caracalla, nel 212 d. C., concesse la cittadinanza Romana a tutti gli abitanti dell’impero emanando la Constitutio Antoniana. La civitas romana garantiva ai neo cittadini soggettività giuridica, libertas, tutela giurisdizionale, protezione sociale e privilegi economici e fiscali. Tali motivi economici determinarono la migrazione di massa del 177 a. C. che portò una moltitudine di persone nell’Urbe, anche a costo di frodare la legge.
Lo splendore romano culminò con la legislazione giustinianea, grazie alla quale vennero meno le differenze tra matrimonio civile e matrimonio delle genti, la proprietà degli stranieri ricevette quella stessa protezione accordata alla proprietà dei cittadini, i fondi provinciali furono assimilati ai fondi italici e, almeno tra vivi, i peregrini poterono acquistare tanto nei modi previsti dal diritto civile, quanto in quelli di diritto delle genti. A tale illuminato periodo si contrappose quello delle invasioni barbariche. La nuova era fu foriera di distruzione, disordine, regresso. L’unica forma di garanzia per lo straniero era rappresentata dall’ospitalità, istituto per il quale l’ospite si rendeva responsabile delle azioni dello straniero che viveva sotto la sua protezione. Accanto all’invasione dei barbari insediatisi nelle province dell’impero, in questo periodo si diffuse il cristianesimo. La dottrina di Cristo proclamava l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio significando che ogni distinzione nazionale avrebbe dovuto sparire. La chiesa professava la fratellanza di tutti gli esseri umani, mantenendo però contestualmente quell’esclusione dalla comunità di diritto per i soli infedeli. Tuttavia, l’importantissimo elemento di cesura rispetto al passato riposava nel fatto che l’esclusione dell’infedele-straniero dipendeva unicamente dalla sua volontà, potendo quest’ultimo entrare nella comunità semplicemente convertendosi a Cristo.
Ma un altro grande cambiamento epocale bussava alle porte della storia: il feudalesimo. I commentatori concordano nell’asserire che detto periodo ha segnato un indubbio regresso nella condizione giuridica dello straniero. La potestà regia si era smembrata, al singolo re erano succeduti nel potere un nugolo di Signori a cui toccava la protezione del forestiero con i vantaggi che ne conseguivano. Tiranni e tirannelli d’ogni sorta mettevano gabelle ai confini dei feudi, sulle vie d’accesso, sui ponti, alle porte. Obbligavano il passaggio dei viandanti per quelle vie, senza necessità alcuna, e riscuotevano i danari del malcapitato con l’unico criterio regolatore ravvisabile nell’arbitrio dell’impositore. L’apoteosi della privazione delle garanzie giuridiche fece nascere l’adagio: “l’aria fa servo” dovuta al fatto che bastava metter piede in un paese straniero per perdere la libertà.
Le invasioni degli Ungheri e dei Saraceni del IX secolo obbligarono principi e baroni a permettere alle città di rialzare le antiche mura e fortificarsi per difendersi. Questo fatto, associato alle lotte intestine per le investiture, favorì la costituzione di liberi governi in seno alle città stesse. Cessata la lotta di palazzo per l’acquisizione del potere, tuttavia, il controllo della città non poté più essere ripreso. Infatti, ai timidi ed imbelli servi erano succeduti cittadini superbi della propria libertà e risoluti nel difenderla a qualsiasi costo.
Con questo cambio di scenario una nuova era s’affacciava: quella dei Comuni e con essa mutarono favorevolmente le sorti degli stranieri, i quali videro un’inversione di tendenza notevole dei loro diritti emblematicamente rappresentata dall’adagio “l’aria fa libero”. I Comuni, infatti, nel primo periodo dovevano accaparrarsi un gran numero di cittadini per poter provvedere alla difesa delle mura dagli assalti esterni dei baroni che mal tolleravano l’idea d’aver perso le facili rendite. Un incentivo di sicuro effetto si rivelò allora quello di accordare al forestiero l’affrancamento dalla servitù e, perfino, la promessa di immunità per i debiti che avesse contratto prima di andare ad abitare in quella terra. Dopo un primo assestamento del nuovo assetto politico sociale, ripresero lentamente le relazioni commerciali, iniziarono ad aversi scambi di ogni genere e vi fu una gran confluenza di stranieri nelle città.
Se nel campo civile gli stranieri vedevano riconoscersi sempre più ampi diritti, diversa era la situazione in ambito penale. In assenza di una clausola di reciprocità, infatti, la pena irrogata al cittadino che commetteva un reato nei confronti dello straniero era minore di quella comminata allo straniero per il medesimo delitto commesso nei confronti del cittadino. Un’ulteriore discriminazione vigeva dal punto di vista processuale. La tortura, quale mezzo di ricerca della prova, era ammessa nei confronti dello straniero, senza che vi fosse la necessità di fornire le stesse prove richieste per il medesimo trattamento da utilizzarsi nei confronti del cittadino. Infine, lo straniero poteva essere sottoposto a delle pene privative della libertà per il medesimo reato commesso dal cittadino, al quale era irrogata solamente una pena pecuniaria. Verso la metà del XV secolo l’indipendenza dei Comuni italiani iniziava a spegnersi e varie città si raggrupparono sotto una medesima dominazione. Le legislazioni comunali rimasero, ancora per lungo tempo, in vigore.
L’illuminismo e la rivoluzione francese di fine ’700 innovarono grandemente il modo di pensare della società affermando solennemente che l’uomo, per il solo fatto d’essere tale, è destinatario naturale dei diritti. Illuministi del calibro di Montesquieu predicavano l’uguaglianza delle genti; Rousseau, oltre a chiedere al legislatore l’unione dei popoli per mezzo dell’abrogazione di ogni norma che distinguesse tra regnicoli e stranieri, affermava l’uguaglianza di tutti gli uomini. Ma i postulati di matrice giusnaturalistica e liberale non vennero fedelmente tradotti in termini legislativi. La prima codificazione napoleonica, infatti, percorse la diversa via della reciprocità prevista di volta in volta dai singoli trattati posti in essere tra i diversi soggetti di diritto internazionale. Sotto questo profilo, invece, la codificazione italiana del 1865 in ambito civile segnò un apprezzabile e riconosciuto progresso nel panorama internazionale. L’introduzione dell’art. 3 del Codice civile poneva il cittadino e lo straniero sul medesimo piano in tema di diritti civili: “lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini”.
Si deve però ricordare che concetti come ordine pubblico e sicurezza che, oggi, sono all’ordine del giorno, erano anche allora presenti al legislatore e le normative di pubblica sicurezza già prevedevano espulsioni e respingimenti alla frontiera per gli stranieri, però la quantità dei flussi migratori non richiedeva al legislatore quell’attenzione che richiama oggi l’agenda parlamentare. Sulla base dell’assunto che un’espulsione totalmente arbitraria dello straniero avrebbe violato i principi fondamentali del diritto internazionale, l’ordinamento positivo dell’epoca prevedeva tali istituti repressivi solo per casi gravi e con appropriate guarentigie procedurali.
Prima della legge di Pubblica Sicurezza del 23 dicembre 1888 n. 5888 la possibilità di praticare l’espulsione era prevista dal Codice penale quale pena accessoria per i reati di mendicità e vagabondaggio ed, inoltre, l’art. 73 delle leggi di Pubblica Sicurezza del 1865 riconosceva in capo all’Amministrazione dell’Interno la possibilità di disporre l’espulsione, oltre che nei confronti di stranieri condannati per reati contro la proprietà, anche per tutta un’indefinita serie di ipotesi (ampiamente discrezionali) giustificate da motivi di pubblica sicurezza. La nuova normativa del 1888, invece, era di matrice marcatamente più liberista e garantista nei confronti dello straniero. Senza variazioni significative, la normativa in esame venne trasfusa nel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza del 30 giugno 1889 n. 6144 all’interno del titolo III, capo II, rubricato: “Dei viandanti, dei liberati dal carcere e degli stranieri da espellere dal Regno”. La successiva fase storica vide l’ascesa del regime fascista e comportò una serie di implicazioni riguardanti il rafforzamento delle norme di Polizia, del controllo del territorio e della diffidenza nei confronti degli stranieri. “La condizione degli stranieri è, in definitiva, quella di sudditi temporanei, soggetti alla ‘potestà domiciliare’ dello Stato. Questo benché non possa chiudere del tutto, in tempo di pace, le proprie frontiere, è invece sostanzialmente libero di respingere e di espellere, a suo arbitrio, gli stranieri in forma non solo individuale, ma anche collettiva”.
Quella appena riportata è, certamente, una posizione molto forte, significativa di un certo pensiero relativo alla legislazione dell’epoca. E’ opportuno porla a confronto con un’altra autorevole opinione le cui parole, forse, meglio racchiudono lo spirito con il quale il legislatore dell’epoca voleva disciplinare la condizione dello straniero. La nuova normativa di Pubblica Sicurezza del 1926 che disciplinava, integrandola, la precedente legge del 1889 in ordine al non cittadino venne così commentata: “Lo straniero è un ospite gradito o sgradito secondo i suoi precedenti ed il suo comportamento, onde la regola di massima qui stabilita va interpretata con tatto a seconda dei casi”.
Il Testo Unico del 1926 rimase in vigore per altri cinque anni fino a quando venne trasfuso nel nuovo Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza adottato con r. d. 18 giugno 1931 n. 773 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 26 giugno 1931) a cui seguì il relativo regolamento di esecuzione introdotto con r. d. 6 maggio 1940 n. 635 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 26 giugno 1940).
Alla successiva entrata in vigore della Costituzione, il primo gennaio 1948, non seguì quell’auspicata revisione normativa attinente la condizione giuridica dello straniero. Nonostante l’art. 10 comma 2 Cost. prevedesse che: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali” lo status giuridico del migrante rimase, ancora per lungo tempo, regolato dalle norme del T.u.l.p.s. oltre alle norme, pattizie consuetudinarie di diritto internazionale.
Le scarne norme interne che regolavano la materia, anche attraverso l’ampia adozione di circolari ministeriali, erano improntate principalmente a fini di Polizia di Sicurezza e, certo, non rispecchiavano lo spirito della Costituzione anche se, come è stato autorevolmente sostenuto, non si ponevano completamente in antitesi alla stessa. La normativa, unita ad un nutrito sottobosco di disposizioni amministrative, regolò la materia per i successivi sessant’anni. La situazione migratoria del Paese, nel panorama internazionale, iniziava, però, lentamente a cambiare. Vengono individuati tre fattori che hanno contribuito a quest’inversione di tendenza: crescita economica, push factor ovvero, la tendenza dei cittadini appartenenti ai Paesi in via di sviluppo, post decolonizzazione, a lasciare la terra natia in cerca di migliori condizioni economiche ed infine il deficit demografico italiano. Tale cambamento rese necessario trovare nuove risposte a livello noramtivo.
La prima legge ad occuparsi di immigrazione in un approccio più vasto è stata la legge Foschi, 30 dicembre 1986 n. 943. Il provvedimento trattava in modo organico il collocamento ed il trattamento dei lavoratori extracomunitari. Il maggior profilo di rilevanza del disposto normativo atteneva al mutamento di prospettiva culturale rispetto alle precedenti disposizioni in quanto, lo straniero lavoratore immigrato diventava, almeno in via programmatica, soggetto di diritti in attuazione della convenzione Oil n. 143 secondo quanto disponeva appunto l’art 1 della legge in esame: “La Repubblica italiana, in attuazione della convenzione dell'Oil n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con la legge 10 aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani […]”.
Di seguito, il legislatore ha messo mano alla materia con una certa frequenza a mezzo di interventi che implementavano la disciplina in una stratificazione di disposizioni sempre più complessa, portato di una società sempre più variegata e multietnica. I provvedimenti posti in essere dovevano dare risposte concrete alle maggiori esigenze del paese che provenivano da tutti i settori del corpo sociale: datori di lavoro, cittadini, associazioni di carattere religioso e laico, associazioni sindacali. Ognuna di esse portava istanze di tipo profondamente diverso che dovevano essere contemperate anche e, soprattutto, alla luce del profluvio normativo sopranazionale: nella specie di quello internazionale e del più attiguo ordinamento comunitario. Veniva così promulgata la legge Martelli del 1990 , provvedimento rivoluzionario in tema di immigrazione.
La legge ridefiniva completamente la materia dell’ingresso nel territorio nazionale, dei documenti necessari per varcare i confini dello Stato e del respingimento alla frontiera (artt. 2 e 3); del soggiorno (art. 4) e dell’espulsione dello straniero (art. 7). Posto che si riteneva che quest’ultimo non avesse un diritto soggettivo all’ingresso ed al soggiorno nel territorio dello Stato, ma solo un interesse legittimo , la legge in esame, abrogando le disposizioni contenute nel T.u.l.p.s del 1931, regolava ex novo il regime amministrativo dell’ingresso e del soggiorno dello straniero in ambito nazionale. Questo ancora oggi, costituisce lo scheletro portante dell’attuale architettura normativa riferibile ai cittadini stranieri ed è stato profondamente innovativo. Il principio solidaristico sancito dalla Carta Costituzionale all’art. 2 Cost., trova traccia nell’art 2. comma 3 cpv. della nuova legge: “con gli stessi decreti viene altresì definito il programma degli interventi sociali ed economici atti a favorire l'inserimento socio-culturale degli stranieri, il mantenimento dell'identità culturale ed il diritto allo studio e alla casa.” Nel medesimo enunciato alberga anche un altro noto principio costituzionale posto dall’art. 36 Cost., il quale riconosce al cittadino straniero nella sua qualità di lavoratore il diritto allo studio ed, infine, il diritto alla casa che si correla, in parte, con il diritto costituzionale previsto dall’art. 31 Cost. che tutela la famiglia.
Il 6 marzo 1998 entrava a far parte dell’ordinamento giuridico la legge n. 40 conosciuta come legge Turco-Napolitano. Il provvedimento di nuovo conio si poneva un duplice obiettivo: da un lato favorire una piena integrazione, nel tessuto della comunità nazionale, degli stranieri extracomunitari regolarmente entrati e soggiornanti in Italia; dall’altro combattere più incisivamente il fenomeno dell’immigrazione clandestina potenziando gli strumenti volti al controllo delle frontiere, al respingimento e alle procedure di espulsione . L’intento della legge di operare un corretto bilanciamento tra la tutela della collettività ed il rispetto dei diritti e delle libertà dei singoli, annunciato già nel disegno di legge n. 3240/C, sembrava essere stato in larga parte attuato. La legge l. 6 marzo 1998 n. 40 poneva le basi per una politica attiva dei flussi di ingresso, creava l’architettura delle procedure per la determinazione delle quote di ingresso in ambito nazionale dei lavoratori stranieri (art. 3); istituiva la carta di soggiorno a tempo indeterminato per gli stranieri regolarmente residenti da almeno un quinquennio (art. 7); rafforzava, inoltre, le misure di controllo e contrasto all’immigrazione clandestina prevedendo l’istituto del respingimento questorile (art. 8).
In forza di questa disposizione, la Polizia di Frontiera doveva respingere gli stranieri che si presentavano ai valichi senza avere i requisiti richiesti per l'ingresso nel territorio dello Stato. Sul versante interno introduceva tre importanti procedure: la prima atteneva alla possibilità di comminare l’espulsione con provvedimento dell’autorità giudiziaria, come misura di sicurezza nei confronti dello straniero che fosse stato condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 del Codice di procedura penale, sempre che lo stesso risultasse socialmente pericoloso (art. 13). La seconda prevedeva l’accompagnamento coatto del migrante irregolare pericoloso in quanto appartenente a taluna delle categorie indicate nell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, come sostituito dall’articolo 2 della legge 3 agosto 1988 n. 327, o nell’articolo 1 della legge 31 maggio 1965 n. 575, come sostituito dall’articolo 13 della legge 13 settembre 1982 n. 646 (art. 11 comma 2 lett. c). La terza disciplinava il trattenimento dello straniero per il tempo strettamente necessario (al massimo trenta giorni) presso il centro di permanenza temporanea ed assistenza più vicino, nei casi in cui non fosse possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento (art. 12 comma 1).
Il provvedimento impositivo della permanenza obbligatoria dello straniero nel centro di permanenza temporanea ed assistenza era disposto dal Questore, ed in ordine alle garanzie costituzionali di libertà su cui andava ad incidere, si collocava nel solco di quanto prescritto dall’art. 13 comma 3 della Carta costituzionale. La convalida del decreto questorile, pertanto, doveva essere richiesta entro 48 ore dall’adozione dello stesso, al pretore il quale, entro le successive 48 ore, avrebbe dovuto decidere, pena la caducazione del provvedimento. La legge in esame, infine, all’art. 47 attribuiva al governo la delega ad emanare un decreto legislativo contenente il Testo Unico delle disposizioni concernenti gli stranieri nel quale, dovevano essere riunite e coordinate fra loro tutte le norme attinenti la materia immigrazione. Il provvedimento normativo emanato dal governo, a seguito della delega parlamentare, è stato quindi il decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286, “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Tale normativa, con le opportune successive modifiche ed integrazioni è, ad oggi, la principale fonte di regolamentazione della condizione giuridica dello straniero in ambito nazionale.
Il Tui raggruppava in un unico corpo dispositivo le norme contenute nella l. 6 marzo 1998 n. 40 (nella sua totalità), alcuni articoli della l. 30 dicembre 1986 n. 943 (legge Foschi), i residuali articoli del r. d. 18 giugno 1931 n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e dell’art. 3 comma 13 della l. 8 agosto 1995 n. 335; si componeva di 49 articoli divisi in 6 titoli: principi generali; disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato; disciplina del lavoro; diritto all’unità familiare e tutela dei minori; disposizioni in materia sanitaria, nonché di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale; norme finali. La legge ha cercato di dare un impulso più concreto alla lotta contro l’immigrazione illegale coinvolgendo i Paesi di origine e di provenienza dei clandestini. E’ stata ritenuta indispensabile l’attività di intelligence delle Forze di polizia e dell’Autorità giudiziaria e la fattiva collaborazione di tali Stati nella lotta alle organizzazioni criminali che traggono immensi profitti dall’immigrazione clandestina, dallo sfruttamento della prostituzione straniera, dal traffico degli stupefacenti, delle armi, degli esseri umani.
I provvedimenti successivi alla legge Bossi Fini del 2002 che poneva lo straniero in una posizione deteriore rispetto alla normativa antecedente, hanno seguito la medesima linea di chiusura nei confronti degli stranieri. La legge 15 luglio 2009 n. 94, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” è, infatti l’ultimo tassello del “Pacchetto sicurezza” iniziato con i decreti legge recanti “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” (d.l. 23 maggio 2008 n. 92 conv., con modif., in legge 24 luglio 2008 n. 125) e “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” (d.l. 23 febbraio 2009 n. 11, conv., con modif., in legge 23 aprile 2009 n. 38). Tutti questi provvedimenti, accomunati dall’esigenza di dare risposte concrete a quel bisogno di sicurezza espresso dai cittadini , sono stati emanati sempre sotto il costante segno dell’emergenza.
La difficoltà di governare i flussi migratori da parte del legislatore ha portato all’emanazione, nel corso del biennio 2008/2010, di una serie di provvedimenti improntati ad un inasprimento nei confronti dello straniero irregolare. L’introduzione del reato di “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” ha fatto insorgere la maggior parte della dottrina e del corpo sociale. Criminalizzare il comportamento del migrante irregolare ha segnato, nell’ordinamento italiano, un punto di netta cesura con il passato. Le polemiche non sembrano spegnersi neanche a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale che, adita in via incidentale in relazione alla compatibilità del nuovo reato ai parametri della Carta fondamentale, ne ha dichiarato la legittimità. Le parole di un autore che, meglio di chiunque, sintetizzano lo spinoso problema che qualsivoglia amministratore statale incontra nell’affrontare il buon governo del fenomeno migratorio sono, ora, più che mai attuali e chiarificatrici: “La tormentata ricerca di politiche efficaci e giuste si scontra con il carattere parzialmente irrisolvibile dei dilemmi di politica migratoria. Politiche troppo timorose e restrittive gonfiano l’irregolarità, ma politiche troppo concilianti attirano ulteriori flussi dai paesi in via di sviluppo, il cui potenziale migratorio è in continua crescita e potenzialmente destabilizzante. Non esiste un ovvio punto di equilibrio tra le ragioni dell’accoglienza e della generosità e quelle della cautela e della paura di conflitti identitari. Ciononostante tralasciare un problema così difficile da trattare non è una opzione percorribile ed è necessario continuare a sperimentare nuove politiche, accettando nel frattempo di convivere con la relativa inefficacia di quelle attuali e con un certo livello di conflitto politico e sociale”.
Dal 2010 ad oggi molta acqua è passata sotto i ponti ed una prima grandissima e pregiudiziale osservazione, riposa nel fatto che il flusso in ingresso negli ultimi tre/quattro anni si compone nella maggioranza dei casi di Profughi che richiedono il riconoscimento della protezione internazionale; si tratta del cosiddetto “rifugiato”, ovvero di “colui che, [...] temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”. A tale impegno assunto sottoscrivendo la Convenzione, l’Europa ha risposto altresi’ con la direttiva 2005/85/CE recante: “Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato” alla quale, il legislatore domestico ha dato attuazione a mezzo del decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25. Tale normativa ha quale scopo l’aiuto e la protezione dello straniero che gode dello status di rifugiato. Va da séche l’operare di eventuali meccanismi di espulsione e rimpatrio dovranno imprescindibilmente tenere in conto la pregiudiziale disamina di una valutazione tesa a verificare se le migliaia di migliaia di persone che entrano in Europa siano o meno destinatari/beneficiari delle norme di protezione ovvero siano invece dei cosiddetti “migranti economici” che, sebbene vantino moralmente la ragione nel voler migliorare le proprie condizioni di vita, non possono eludere le regole dei cosiddetti flussi di ingresso, pensate anche per una loro tutela.
La provincia di Trieste – estrema punta a nord est dello stivale – è porto di mare nel vero senso del termine. I migranti giungono indistintamente dalla rotta balcanica attraverso la Slovenia, entrano oggi in numero significativo dall’Austria (cfr. Il Gazzettino del 01.05.2016), arrivano direttamente via mare dalla Grecia e dalla Turchia nascondendosi dentro le mastodontiche fauci dei traghetti di linea; vengono altresì assegnati sulla base dei piani di ripartizione nazionale ed infine, scendono dal nord Europa passando da Ventimiglia e percorrono 1.000 km per approdare autonomamente a Trieste in quanto, il tam tam per i cd. “dublinanti” li fa convergere in loco posto che la Commissione territoriale di Gradisca (Go) per il riconoscimento della protezione internazionale è vicina e le procedure e/o l’organizzazione del lavoro (retaggio di matrice austroungarica) garantisce un’ipotetico maggior efficientismo nel disbrigo delle procedure e del conseguente rilascio (laddove ne sussistano i requisiti) dell’agognato titolo di soggiorno.
Questa provincia nel corso degli ultimi tre/quattro anni ha visto decuplicare il numero annuo dei Richiedenti Asilo. Nonostante i tentativi di arginare il flusso, Trieste - grazie alla posizione geografica - non riscontra significative diminuzioni in ordine agli ingressi/richieste di asilo anche a seguito del rafforzamento dei controlli e/o dell’innalzamento di fantomatici muri in quanto, il flusso di persone in stato di bisogno, è paragonabile a quello dell’acqua; quando viene bloccato da una parte, riesce sempre a trovare una nuova strada di talchè il blocco della rotta via terra incanala il flusso via mare e viceversa. E così come la goccia scava il solco nella roccia, il flusso umano apre nuove piste, segna nuove strade e riesce sempre a trovare un passaggio per arrivare a destinazione; inoltre, fluttuazioni temporanee sono il portato di condizioni climatiche di talché la bella stagione porterà nuovamente migliaia di persone in ingresso.
In mezzo a tutto questo marasma di uomini, donne e bambini i lavoratori di Polizia sono a contatto quotidiano con la disperazione, con un sistema ingarbugliato e farraginoso, di un implementazione spesso emergenziale e non sempre coordinata al meglio, di disposti normativi cresciuti dentro la contrapposizione di due fronti contraspposti dalla notte dei tempi. Un sistema che impiega ingenti risorse umane nella produzione cartacea di una significativa mole di atti destinati al macero dopo un paio di anni a seguito di una declaratoria di non luogo a procedere. Un sistema che ha affiancato all’esistente e pluridecennale procedimento amministrativo a quello penale (art. 10 bis d.lvo 286/98) duplicando sostanzialmente il lavoro degli addetti senza aggiungere alcun apprezzabile risultato in termini di efficienza. Un sistema che fior di giuristi ed illustri magistrati hanno spesso criticato e che ancora non si riesce a rimuovere (cfr. Mancato esercizio della delega disposta dal Parlamento ex legge 67/14 in ordine alla depenalizzazione del reato di clandestinità).
Un sistema che alimenta sé stesso depotenziando la capacità di lavoro degli operatori costretti giocoforza ad una serie di adempimenti poco fruttuosi. Un sistema di gestione del fenomeno immigrazione che ci si auspica venga rivisto, coordinato e soprattutto semplificato; un sistema che dovrebbe essere affrontato in seno all’Unione europea ove a puro titolo paradigmatico, una doppia decisione sull’istanza di asilo del richiedente dovrebbe poter essere spesa in un qualsiasi Stato membro dell’Unione, vanificando così il possibile “forum shopping” che spesso vede i migranti economici porre in essere anche sei, sette istanze in diversi Stati membri.
Solo attraverso una voce univoca, un’autorevole e compatta voce europea riusciremo a sperare di governare il fenomeno epocale che ci ha investito e continuerà ad investirci nei prossimi anni; diversamente opinando, costruendo muri, innalzando barriere e legiferando in modo miope, autonomo e settoriale, saremo destinati a farci governare dal flusso con tutto ciò che ne potrà conseguire.
Il sistema è messo a dura prova e mina le stesse radici fondanti dell’Unione europea. Il fenomeno è uno dei banchi di prova più difficili che l’Europa debba affrontare e quando ne uscirà (e ne uscirà!) allora il suo legame ed il nostro legame di cittadini dell’Unione sarà ancora più saldo.
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