Nei 55 giorni di prigionia scrisse numerosissime lettere, alcune
delle quali secretate dal Parlamento dopo il primo processo.
All’epoca si dichiarò che erano prive di valore perché scritte
da un uomo prigioniero, ma erano certo lettere criptiche
e allusive. Le pagine manoscritte e la loro indagine grafologica
Normalmente una vicenda accaduta molti anni fa, avendo perso ogni carattere di attualità, è materia di analisi storica.
Ci sono delle eccezioni. Una di queste è il caso di Aldo Moro, rapito ed ucciso 38 anni fa.
Ci si aspetterebbe che la storia di Aldo Moro, chiarita in ogni suo aspetto, fosse stata consegnata ai libri di storia.
Non è così. La vicenda umana, politica e giudiziaria legata ad Aldo Moro, rimane di grande attualità.
Attuale è il dramma umano vissuto dal Presidente della Dc durante il periodo della prigionia. Attuali sono i tanti lati oscuri nelle modalità del rapimento e della prigionia. In questa sede ci concentreremo sugli scritti di Moro, partendo da una sommaria ricostruzione del rapimento e del periodo di prigionia.
Partiamo dal 16 marzo 1978. Manca poco alle 9. Aldo Moro esce di casa. Per lui è una giornata particolare ed impegnativa: in Parlamento si vota la fiducia al primo governo sostenuto dal Pci, sostegno frutto del lavoro di mediazione di Aldo Moro.
Prima di recarsi in Parlamento ha intenzione, come ogni mattina, di assistere alla messa. Aldo Moro lascia la sua abitazione, come al solito scortato.
La scorta è composta da 5 uomini su due auto: davanti una Fiat 130 su cui prendono posto l'autista appuntato dei Carabinieri Ricci, il maresciallo dei Carabinieri Leonardi e Aldo Moro che siede sul sedile posteriore dietro all'autista; dietro un’Alfetta con alla guida la guardia di P.S. Rivera, il brigadiere di P.S. Zizzi e sul sedile posteriore la guardia di P.S. Iozzino. Cinque uomini armati con pistole e un mitra affidato a Zizzi. Sono circa le nove quando arrivano all'incrocio tra via Fani e via Stresa. Improvvisamente una Fiat 128 con targa diplomatica si blocca costringendo le auto di scorta a fermarsi. Contemporaneamente sbucano uomini con divisa dell'Alitalia, che con pistole e mitra aprono il fuoco sugli uomini di scorta. I primi ad essere colpiti sono Ricci e Leonardi, poi il fuoco si concentra sull'Alfetta. Iozzino riesce a scendere dalla macchina e spara due colpi ma viene ucciso. Aldo Moro viene prelevato e portato via dai brigatisti. Ad alcuni uomini della scorta viene sparato un colpo alla testa.
Così inizia la prigionia di Moro che si concluderà con il suo omicidio il 9 maggio 1978 e il ritrovamento del suo corpo in via Caetani. L’Italia si divise tra i fautori della trattativa con le Brigate rosse per ottenere la liberazione di Moro e coloro che erano contrari. A prevalere fu il fronte dei contrari e lo Stato rifiutò ogni trattativa. Anche il periodo della prigionia presenta aspetti rimasti poco chiari, soprattutto in merito ai luoghi nei quali sarebbe stato tenuto sequestrato Moro.
Ciò che più caratterizza la prigionia è la grande produzione di manoscritti. Lettere ai familiari, ai vertici della Dc, ad altre personalità politiche, al Papa. Dai suoi scritti emerge Moro in tutte le sue sfaccettature. Il Moro padre, marito, nonno. Il Moro leader di partito che cerca di dettare nuovamente la linea di condotta al suo partito. Il Moro lucido e di grande intelligenza, che probabilmente inserisce nelle sue lettere elementi per permettere di individuare la sua prigione.
Le lettere fanno sì che il racconto della prigionia di Moro diventi una sorta di autobiografia, da lui stesso raccontata, senza filtri di terzi.
E’ curioso vedere come Moro, con una grafia sempre lucida e volitiva, sappia adattare il suo stile e anche, inconsciamente, la sua grafia, al destinatario della lettera.
Lo troviamo, ad esempio, il 4 aprile, nella lettera a Benigno Zaccagnini, nel 1978 segretario della Dc, rivolgersi, attraverso lui, a tutto il suo partito, invitandolo a intervenire per la sua liberazione, non facendo sconti e non dispensando responsabilità a nessuno. “E' peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, (…), che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui”.
In ogni lettera Moro specifica che si trova in un stato di lucidità e che non scrive su coercizione. La grafia, minuta, con assi rigidi che ne indicano la volitività, conferma queste sue dichiarazioni e ci parla, non solo di un uomo presente a se stesso, ma anche determinato e razionale nella ricerca di una soluzione concreta per la sua salvezza.
Sembra quasi che Moro, svestiti i panni del mediatore, dell’uomo mite, del conciliatore, che indossava prima del rapimento, ci stia, ora, con queste lettere, mostrando il vero Moro, quello determinato, capace di non lasciarsi prendere dal panico e di saper dare indicazioni autoritarie e autorevoli al suo partito, anche andando a far breccia sulla coscienza dei destinatari.
E poi ci mostrano un Moro inedito, non più e non solo il Moro politico, ma anche il Moro marito, padre e nonno. Un uomo che non teme di esternare i propri sentimenti più profondi, in quanto consapevole che poteva non esserci altra possibilità.
“Ad Agnese vorrei chiedere di farti compagnia la sera, stando al mio posto nel letto e controllando sempre che il gas sia spento. A Giovanni, che carezzo tanto, vorrei chiedessi dolcemente che provi a fare un esame per amor mio. Ogni tenerezza al piccolo di cui vorrei raccogliessi le voci e qualche foto”. Questo scrive alla moglie, Noretta, preoccupandosi che sia sempre protetta e accudita, come lui non poteva fare in quel momento.
Ed ancora più commoventi le parole per il nipotino. “Ora il nonno è un po’ lontano, ma non tanto che non ti stringa idealmente al cuore e ti consideri la cosa più preziosa che la vita gli abbia donato e poi, miseramente, tolto”.
La grafia di Moro segue, nelle lettere, un percorso evolutivo, di coscientizzazione, e uno involutivo, di perdita di ogni speranza.
Si veda una delle ultime lettere alla famiglia. La grafia perde ogni vigore, diventa tremula, stentata, con il rigo oscillante.
E’ la fine. Moro scrive ma sa che sta scrivendo un uomo morto. Sa che la speranza deve concedere spazio alla rassegnazione. Il tutto diviene evidente nella firma. Lui non è più Aldo Moro, il politico, lo statista. Ora è solo Aldo. Con una firma che, nella sua regressione, lo fa tornare bambino. Lo fa tornare nel ventre della terra da cui tutto ebbe inizio. E dal quale ora può solo vedere la fine. Moro, che in quel, “Non tardate” in realtà dice che è troppo tardi. Non c’è più tempo per trattare, conciliare, mediare. Gli resta solo il tempo di morire.
Ma queste lettere possono anche rivelare altro?
E’ una domanda che ci si è posti fin dall’inizio e a tal fine sono state disposte una serie di perizie in ambito grafologico che potessero far ulteriormente “parlare” le lettere.
Purtroppo hanno portato a poco per tre errori metodologici di base:
1. E’ stato confuso il concetto di emotività con quello di lucidità. E’ logico che Moro scrive in un contesto di forte emotività, quale può essere in uno stato di prigionia. Ma non c’è un solo segno grafologico che ne leda la razionalità, la memoria, la capacità di intendere e soprattutto di volere.
2. Dell’intero corpus sono state scelte arbitrariamente e sottoposte all’analisi solo alcune lettere a campione. In realtà lo studio di queste lettere ha valore solo se valutato come un percorso. Selezionare a caso dei frames esclude la valutazione del contesto, non rende il senso dell’evoluzione, della storia interiore e fattuale che ha vissuto Aldo Moro in quei giorni.
E’, ad esempio, sfuggita l’analisi della lettera del 29 aprile, al Presidente della Repubblica, inviata all stampa. E non ci si è accorti che ci sono degli evidenti disturbi nella conduzione del mezzo grafico, una difficoltà nella tenuta del rigo che diventa ondulatorio, una difficoltà nella chiusura degli ovali che non è presente nelle altre lettere, nemmeno nelle ultime.
Perché queste variazioni? Tutto fa pensare al fatto che Moro possa essere stato sedato per essere trasferito. I brigatisti hanno sempre sostenuto che Moro è stato tenuto sempre nella stessa prigione, l'appartamento di via Montalcini. Le analisi effettuate sugli abiti di Moro e sulla macchina in cui ne viene ritrovato il corpo, raccontano una storia diversa. Sul finire di aprile, la lettera è datata 29 aprile, e inizi di maggio 1978 sia Moro che l'auto sarebbero transitati su una spiaggia, individuata nella zona costiera a Nord di Roma.
La perizia botanica specifica: “il materiale sabbioso e vegetale rinvenuto sugli indumenti dell’onorevole Moro proviene da un’area di litorale compresa tra il settore nord di Focene e Marina di Palidoro (provincia di Roma). […] ed è stato asportato in un’epoca tra la fine di aprile ed il maggio 1978”.
3. Per il terzo punto ci viene a sostegno Leonardo Sciascia, che fu membro della Commissione d’inchiesta sul delitto Moro. Dice una cosa semplice quanto illuminante. Si è dato tanto spazio all’analisi della linguistica dei comunicati delle Br e si è pensato che Moro, da rapito, fosse diventato un’altra persona, perdendo tutto l’acume, l’intelligenza, la capacità di usare le parole che aveva prima. Un Moro due, cupo, non più se stesso. In questo si è commesso un errore gravissimo, forse capitale. Perché Moro sapeva nascondere tra le parole le cose e certamente in quelle lettere, la sua unica possibilità di comunicare con il mondo, ha voluto comunicare più di quello che si legge. Forse un luogo. Forse una chiave che lo potesse portare alla salvezza.
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