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Aprile-Maggio/2015 - Articoli e Inchieste
Migrazioni
L’isola dei sospiri
di Costanza Airaudo

Il 20 maggio, Ellis Island è diventata ufficialmente
il Museo Nazionale dell’Immigrazione: l’unico museo
degli Stati Uniti a documentare l’intera storia
dell’immigrazione dall’era coloniale ai giorni nostri.
E tra documenti e archivi, anche il contributo
di lacrime e sudore degli italiani. Il nostro viaggio


Ci sono luoghi in cui il senso d’appartenenza si fa vivo più che altrove. Luoghi in cui persino un cosmopolita finisce col ricordare da dove venga. Tanto più se si è italiani, storicamente viaggiatori. Più di recente, emigranti. Ellis Island è uno di questi luoghi, un posto in cui la storia combacia con un'Italia diversa da quella contemporanea, un Paese in ginocchio da cui si fuggiva, valigia di cartone alla mano. E’ il porto in cui, tra il 1892 e il 1954, sbarcarono 22 milioni di immigrati, in quella che fu presto definita la più grande migrazione della storia.
Una visita a quel che resta di questo antico arsenale nella baia di New York è un salto indietro nel passato comune. E visitarlo d’inverno fa ancor più impressione, quando l’imbarco è al mattino con l’aria gelida che taglia la faccia. L’isola di Ellis è a poca distanza dalla Grande Mela: una traversata veloce e il traghetto molla i turisti nel passato. Sul barcone, gente infreddolita, intabarrata nei cappotti griffati mentre Manhattan, sonnolenta, accenna il risveglio. Gente diversa dai poveracci dei transatlantici che solcavano l’oceano, ma pur sempre italiana. “Benvenuti a Ellis Island” - fa la guida in tono stanco - “l’isola dei sogni e delle lacrime”. Ed è in quel momento che il frastuono vacanziero viene meno, che persino le comitive più rumorose si fanno pacate.
La fila all’ingresso è sotto la neve mentre tutto intorno è freddo e nebbia. Al pensiero di quelli che furono i cappotti di panno consunti e le scarpe di pezza, vengono i brividi. Gli scatti d’epoca ritraggono così i nostri connazionali: facce smunte e intimorite, nocche nodose di chi ha lavorato la terra. Così, lontano dai clamori di Manhattan, sono il silenzio e il gelo a farla da padroni. Niente centri commerciali a spezzare il freddo, niente tepore dei cunicoli della metro: il vento a Ellis Island sferza impietoso. Tanto più d’inverno quando le temperature non disdegnano di scendere sotto lo zero. Sull’isola, unico riparo è un casermone di mattoni marroni e grigi: uno stile freddo e sobrio, dal sapore britannico. Ellis Island è alla foce dell’Hudson, a pochi metri in linea d’aria dall’isola gemella che ospita la Statua della Libertà. Novantatre metri di scultura che sovrastano l’approdo di milioni di emigranti. Tra questi, moltissimi italiani. Padri di quella generazione oggi perfettamente inserita nel tessuto statunitense. Altra solfa, allora, quando gli italiani erano percepiti alla stregua di intrusi, pezzenti che poco potevano portare se non malattie e miseria. E’ per questo che loro, come gli altri emigranti del resto, venivano trattenuti a Ellis Island, rivoltati da capo a piedi e ispezionati in ogni parte prima di esser liberati e quindi spediti sul territorio americano. ... [continua]

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