In un romanzo di Barbara Notaro Dietrich, la moglie del personaggio creato da Georges Simenon rivela i lati nascosti di un grande investigatore che è anzitutto un essere umano, dalla casa in Boulevard Richard Lenoir al Quai des Orfèvres
“La lettera di Simenon è arrivata con la posta di stamani. Non è venuto al funerale. Forse era in viaggio. Forse sta terminando un altro dei suoi romanzi. O forse, semplicemente non se l’è sentita”. Il commissario Jules Maigret è morto. E la moglie, con la lucidità di chi continua ad amarlo profondamente, ricorda e racconta. Non per dare corso alla nostalgia, ma per “raccontare chi era, com’era veramente”. “Mio marito Maigret” di Barbara Notaro Dietrich (Edizioni e/o, pagg. 150, _ 14) è un romanzo che ricostruisce la biografia di un personaggio romanzesco, e della sua fedele compagna, conferendogli tutti i connotati della realtà. Non un personaggio, quindi, ma una persona. Sulla quale si sa molto, e molto di più si ignora.
“Una quantità di persone crede di conoscere Maigret, il commissario Maigret. Tanti sono convinti di conoscerlo bene. Grazie a Simenon, il nostro amico Georges, che ne ha fatto il protagonista di più di settanta romanzi. E pensano di conoscere anche me, sua moglie Louise”. Errore grave, ma comprensibile, anche da parte dello stesso Simenon, che aveva creato i suoi personaggi con l’intuizione dell’artista senza rendersi bene conto, come accade a tutti gli artisti (al Geova biblico capitò qualcosa del genere), che sarebbero diventati delle persone dotate di vita propria, autonoma.
Il commissario Maigret narrato da Barbara Notaro Dietrich, attraverso i ricordi di Louise, è una figura semplice e insieme misteriosa. A volte inquietante. Non di rado geniale. Anche se nasce il sospetto, mai insinuato da lei, che in realtà la moglie sia più “intelligente” del marito. Però, si sa, a un genio l’intelligenza serve a poco. E la signora Maigret ha la precisa consapevolezza di vivere accanto a un uomo eccezionale. Il che, se a volte può risultare difficile, rende di sicuro un matrimonio molto stimolante. “Non ho vissuto con un uomo, ma con tanti. Persino con strane donne. Perché Jules era fatto così. Quando era su una pista si immedesimava al punto di compiere una vera metamorfosi. E la metamorfosi si ripeteva sempre. Tutte le sue facoltà erano come acuite. Questo era il suo segreto, il suo ‘famoso’ metodo”.
Al metodo, a quell’insieme di pensiero e azione che è il segno distintivo delle inchieste del commissario, è dedicato un capitolo di “Mio marito Maigret”, ma esso traspare in tutte le pagine del libro. In effetti, lui, l’investigatore infallibile, affermava convinto di non avere alcun metodo particolare, nessuna chiave per assicurarsi il successo. E del resto neppure pensava di esserlo, infallibile. E’ la moglie, che ha imparato a conoscerlo bene, molto meglio di quanto egli stesso si conosca, a individuare nei suoi comportamenti una strategia che potrebbe quasi essere codificata in un manuale se non richiedesse qualità che non molti possiedono. “Quando Jules si metteva a osservare intensamente qualcuno, la gente e soprattutto i suoi collaboratori ritenevano che si stesse concentrando. Niente di più falso. Jules negava fermamente, ma nessuno gli credeva. Quel suo osservare, in realtà, era perfino un po’ ridicolo, quasi puerile. Prendeva un accenno di idea, un brano di frase, e se la ripeteva come uno scolaro che cerca di farsi entrare in testa la lezione”.
Dalle pagine del libro appare, insomma, un Maigret inedito, apparentemente diverso da quello che moltissimi hanno seguito nelle sue inchieste. Un altro Maigret? Diremmo piuttosto, in un certo senso, un Maigret “rivelato”. Questo romanzo non è in alcun modo un pastiche, o un apocrifo, imitazione di un soggetto già trattato. L’autrice, con uno stile che supera di molto una sperimentata capacità di scrittura (Barbara Notaro Dietrich è giornalista professionista), costruisce una trama originale, un intreccio di fatti, sentimenti, riflessioni, pur rispettando il “codice genetico” dei suoi protagonisti. Dalla casa in Boulevard Richard Lenoir, il rifugio del commissario e il “regno” di Louise, al Quai des Orfèvres, gli uffici della Polizia giudiziaria, si svolge quotidianamente l’attività “creativa” di Maigret. Lì la moglie, la sicurezza dei gesti che si ripetono con sfumature sempre nuove, qui le indagini, i collaboratori che lo ammirano, e lo seguono senza dubbi o esitazioni: Lucas, Janvier, il piccolo Lapointe, il grosso Torrence. E il giudice Coméliau, il suo grande nemico, al quale il commissario non perdonava di aver mancato di umanità nei confronti del gatto di un imputato. Casa e ufficio, insomma? Un brillante funzionario che quando stacca la presa del lavoro si trasforma in un marito affettuoso? Non proprio, dato che Maigret è Maigret, e costantemente trasporta nell’ambiente domestico i suoi problemi professionali. E considera l’ufficio la sua seconda abitazione, con la stufa a carbone, conservata anche quando al Quai era stato installato il riscaldamento centrale, le birre e i panini ordinati alla Brasserie Dauphine, che sostituiscono pranzi e cene, la pipa. La signora Maigret lo sa, e lungi da risentirsene comprende che questi due scenari sono egualmente necessari. A lui, e anche a lei.
Perché questa nuova Louise, così diversa dal marito da costituire insieme a lui una immagine perfetta, poteva essere la moglie solo di quell’uomo, geniale e modesto, generoso e implacabile, plebeo e gran signore. E, pur non dicendolo, ora che il suo Jules è andato non sa dove (“non era propriamente un uomo di fede, ma aveva un suo personale senso del sacro”), parafrasando Flaubert, ha il diritto di dire, senza presunzione: “Le commissaire Maigret, c’est moi”.
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