In un libro di Cristina Zagaria, la vita, e la morte
di Armida Miserere, direttrice delle carceri
più difficili, condizionata da una rigida
vocazione al dovere
“Papà, ti giuro, io ti riscatterò. Tua figlia Armida, la tua Penny, la tua figlia selvaggia, contagiata dal tuo amore, una Miserere, sarà all’altezza del tuo cognome. Farà vedere a tutti quelli che in noi non hanno creduto, chi siamo”.
Armida Miserere ha scritto queste parole sul suo diario il giorno della morte del padre, nel 1989, quando lei aveva 33 anni e da cinque lavorava come direttrice in carcere.
E’ la ricostruzione della vita interiore di questa donna, quella che la giornalista Cristina Zagaria ha fatto scrivendo Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato (Dario Flaccovio, 2006. pagg. 310, euro 14,50).
Armida entra per la prima volta in un carcere a 28 anni, nel 1984, anni in cui essere vicedirettore-donna voleva dire essere disprezzate dai detenuti e dalla Polizia Penitenziaria che non ammetteva di essere comandata da una donna e affrontare l’atteggiamento paternalistico del direttore, rassegnato ad avere una collaboratrice a cui bisogna trovare un’occupazione adatta.
In seguito diventa direttrice delle carceri più difficili da gestire: San Vittore, Pianosa, l’Ucciardone, Sulmona. Dove c’era un problema il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che ha sede a Roma) mandava lei.
“A San Vittore ci sono entrata con la testa della criminologa. Ho visto una massa indistinta di gente, ma non riuscivo a capire quali fossero i detenuti e quali le guardie. Per me il carcere deve essere un carcere e i detenuti devono saper fare il loro mestiere. Mi sento più sola oggi, qui a Sulmona, in mezzo a queste montagne dove il vento soffia sempre, l'aria è gelida e i detenuti sanno solo lamentarsi e scrivere alle Procure. La mia unica compagnia sono i miei cani, Leon e Luna. Io mi identifico spesso con gli uomini; quando cammino, dicono, incuto timore, fumo Super senza filtro, metto la mimetica militare. Ho 41 anni, sono sempre stata così, e morirò così, e non chiamatemi direttrice che mi manda su tutte le furie, io sono il direttore e basta” [da un’intervista al settimanale "Io Donna" rilasciata nel 1997].
Una donna con la mimetica, che ha sempre guardato dritto negli occhi mafiosi o terroristi, per poi prendere le decisioni, che i regolamenti del carcere imponevano, anche se impopolari.
Nel 2003 Armida si suicida e l’autrice, come tanti altri, si è chiesta il motivo. Zagaria ha letto i suoi diari, ha parlato con il fratello e con gli amici più stretti. Quel “Servitrice dello Stato”, che compare nel titolo, può essere chiaro fino in fondo solo a chi legge questa storia, compresa la lettera-testamento che Armida scrive prima di morire.
E’ un libro difficile da catalogare, non è un romanzo, non è una biografia. Quello che è sicuro è che va letto, perché colpisce, perché Armida ti entra dentro e ti sembra di conoscerla.
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