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Settembre-Ottobre/2014 - Interviste
Diritti
“Il carcere è la prigione della miseria”
di Michele Turazza

I soli interventi penali non sono sufficienti: la priorità
è la sicurezza e siamo sorvegliati da decine di telecamere,
ma una telecamera costa come un assistente sociale
e se privilegiamo il mezzo meccanico avremo uno spostamento
di risorse, di cultura e di idee dal versante sociale a quello penale


“Seguitelo, Mario Tagliani – invita Fabio Geda nell’introduzione – e non perdetelo di vista: lasciate che vi apra i cancelli del Ferrante Aporti, l’Istituto penale per minori di Torino; stategli dietro nei corridoi e nelle celle, nell’aula in cui insegna italiano e matematica e nel cortile… Seguitelo, Mario Tagliani, e tentate di carpirgli il segreto: ma come si fa a insegnare ogni giorno, per trent’anni, a giovani detenuti?”.
Mario Tagliani, classe 1951, bresciano di nascita, da oltre trent’anni vive a Torino, dove insegna all’Istituto penale per minori Ferrante Aporti; è autore di “Il maestro dentro. Trent’anni tra i banchi di un carcere minorile” (add editore, 2014, pp. 190, euro 14). Polizia e Democrazia l’ha incontrato.

Come è avvenuta la sua assegnazione, come prima sede, al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino?
Fu frutto del caso, anche se il caso non fa mai nulla… per caso. La Direzione che scelsi aveva in gestione l’istruzione all’interno dell’Istituto penale e la direttrice didattica mi propose subito quella sezione. Fu il vecchio maestro a convincermi però a provarci, sicuro che facesse al caso mio e al suo. Infatti io non ero molto giovane né troppo avanti negli anni, avevo giusto trent’anni e un’esperienza nel sociale che mi aiutò ad affrontare le diversità e le avversità.
Penso spesso ai colleghi e alle colleghe che si sono avvicendati in tutti questi anni e se molti hanno rinunciato è perché non basta fare il docente in un carcere, bisogna aggiungere qualcos’altro.

Appunto! La raccomandazione del direttore fu: “Scordati di fare il maestro, qui devi essere il maestro!”. Qual è il ruolo del maestro in un carcere minorile?
Fare il docente non è difficile: si prende un programma calibrato sulla classe che hai davanti e giorno dopo giorno lo svolgi pazientemente interrogando ogni tanto qualcuno per vedere se sei più o meno seguito. Penso spesso che, nell’era dei computer, potremmo risparmiare una montagna di spesa pubblica per l’istruzione dei ragazzi. Un computer può essere programmato per trasmettere cultura, ha una memoria eccezionale, può proporre esercizi più o meno facili e, diligentemente, in un microsecondo, ti da pure la risposta.
Fare il docente è fare concorrenza ad una buona macchina che potrebbe sostituirti efficacemente.
Ma “essere” un maestro, come mi chiese il Direttore del carcere nel mio primo giorno di scuola, non è solo entrare in un’aula, ma essere di esempio per i ragazzi, essere disposto a sentire le storie più assurde, avere la pazienza di leggere tra le parole dei ragazzi, capire l’umore e il tempo di chi non ha mai avuto un tempo normale.

Quali difficoltà ha incontrato nei primi giorni di lavoro?
Non esiste una scuola per docenti carcerari né corsi che ti permettono di anticipare le mosse. Bisogna buttarsi nella mischia ed avere la pazienza di stare ad ascoltare ragazzi a cui nessuno mai dà ascolto.
Le difficoltà nascono dal saper o meno stabilire una relazione, un contatto che permetta di entrare in empatia con ragazzi che all’inizio ti provocano, ti pesano ma, se sai superare quei momenti, poi dipendono interamente da te. Senza relazione non esiste azione d’intervento, in special modo con ragazzi per i quali l’aula scolastica è sempre stata un luogo di punizione.

A proposito di ascolto, lei scrive: “I ragazzi del carcere sono persone che spesso non hanno una voce dentro perché non sono abituati né ad ascoltare né a parlare con se stessi (e con gli altri) e non sanno che una persona è più libera quando viene ascoltata. Il vero amico è colui che ti fa conoscere te stesso, che ti fa parlare”. Solitamente i ruoli dell’educatore e dell’amico vanno tenuti distinti, ma leggendo la sua testimonianza pare di capire che per lei non sia stato così.
Il rapporto adulto – adolescente funziona meglio quando i ruoli sono ben distinti: si deve sapere chi è l’adulto (soprattutto lo deve dimostrare), si deve capire che l’adolescente non può essere come un adulto. Stabilito questo principio fondamentale, si può assumere il ruolo dell’amico là dove serve stemperare certe situazioni critiche (come lo sono quelle vissute in carcere); educare sappiamo tutti che significa “tirar fuori” e in questi casi, stare ad ascoltare come fa un vero amico e far parlare un adolescente, si fanno uscire allo scoperto i vissuti da interpretare per svolgere al meglio il proprio compito.
Non è facile stare a sentire le smargiassate di un ragazzo, bisogna avere la pazienza di ascoltare ogni minima incertezza per ribattere più tardi sull’inconsistenza di certe azioni. E’ troppo facile dire dove ha sbagliato, è più difficile far dire a lui dove ha sbagliato e questo lo si può fare solo se, da amico e da educatore, si ha la pazienza di starlo a sentire.

Come è riuscito a conciliare l’attività didattica con il continuo mutare dei suoi allievi?
Vediamo la questione da un altro punto di vista: che noia sarebbe avere in classe sempre le stesse persone! Il vero problema è nato il giorno in cui sono arrivati ragazzi non più dal Sud d’Italia, ma dal Sud del mondo. Con i ragazzi italiani era più semplice, pur venendo da realtà diverse si aveva la stessa cultura: un po’ di istruzione, un corso professionale e poi un lavoro che non era impossibile da trovare; si era trovata una soluzione aiutati da una certa attenzione nei riguardi del disagio giovanile e da un mercato che col tempo ti allineava agli altri.
Con lo straniero tutto è mutato: quando pensavamo di aver trovato la chiave per scardinare certi vecchi meccanismi di rivalsa nei riguardi della scuola, improvvisamente scoprivamo che quelle chiavi adesso aprivano più nulla; lo straniero non era interessato ad apprendere, la lingua era solo un mezzo per gestire il suo mercato illegale e niente più. Bisognava cercare altre vie per interessarli, altri argomenti che permettessero un confronto che non fosse uno scontro. Musica, film, disegno, fatti quotidiani ci vennero in aiuto per trasformare l’aula scolastica in una fucina di nuove idee ed attraverso tutto questo si tornava a leggere, ad imparare a scrivere in una lingua che finora li aveva relegati ai margini.
Se l’attività didattica non sta graniticamente incollata a certi schemi rigidi, la scuola in un carcere minorile può diventare il miglior posto dove dare spazio alla fantasia, all’inventiva, alla diversità e al vivere civile.

Cosa distingue le attività didattiche proposte in un carcere minorile da quelle delle normali scuole?
Il tempo e la situazione di partenza (i prerequisiti). La media della permanenza di un minore in carcere è limitata a due o tre mesi, poi, per fortuna, partono misure alternative alla detenzione che lo allontanano da un luogo di privazioni per fargli vivere un tempo normale, un tempo scandito da impegno e gioco, studio o lavoro.
Il tempo sgangherato, perso, che ogni minore ristretto si porta dietro appena arriva in carcere è un tempo difficile da gestire. In quel momento non c’è programmazione didattica che possa venire incontro alle sue esigenze. Bisogna avere la pazienza di perdere qualche ora e di stare ad ascoltarlo, dopo di che si potrà sapere su quali basi costruire un curriculum su cui lavorare.
Il rapporto iniziale deve essere sempre individuale, costante e tranquillo. Bisogna trasmettere serenità in modo che percepisca l’aula scolastica come un luogo dove “evadere” con la mente, volare con la fantasia e dove scoprire che anche lui sa fare cose che non pensava mai di poter fare.
Gli allievi hanno anche età diverse e diverse sono le condizioni di partenza: la pluriclasse trova la sua definizione estrema poiché anche le nazionalità sono diverse.

Leggendo il libro, risulta evidente il suo scetticismo di fronte a politiche ed interventi sbilanciati sul versante securitario rispetto a quello sociale. Perché, secondo la sua esperienza, la sola risposta penale al reato commesso da un minorenne non può essere sufficiente?
Perché questo minore, prima o poi, ce lo troviamo vicino sull’autobus, in pizzeria, per strada. Se la risposta che diamo ad un adolescente che delinque è solo la carcerazione in attesa del giorno in cui questa finisce, ci troveremo una persona abbruttita e arrabbiata che nel frattempo avrà conosciuto e subìto persone ancora più abbruttite di lui e l’unica scuola che ricorderà sarà una scuola di violenza, di soprusi, di prevaricazioni.
Se non investiamo nel sociale, rimetteremo sul territorio personaggi che aumenteranno il grado di pericolosità dei reati. C’è una statistica (purtroppo riguarda solo gli adulti) che dice che solo tre detenuti su dieci reiterano il reato dopo che hanno seguito percorsi alternativi alla permanenza in cella, mentre salgono a sette se hanno atteso il giorno della scarcerazione rifiutando qualsiasi aiuto.
La pena da scontare non deve essere solo una punizione ma deve diventare un diritto, un diritto a vivere quel tempo normale che nessuno di questi ragazzi ha vissuto, un tempo che recuperi quelle ore perse a fantasticare di folli imprese che poi, per mancanza di esperienza, li hanno portati in carcere. Saremo noi a dimostrare, con il nostro tempo normale, che una vita serena è possibile, che si può guardare al futuro senza doversi guardare alle spalle, che certe illusioni si sgonfiano con il passare del tempo.

Quali potrebbero essere efficaci misure alternative alla detenzione?
Ogni tempo ha le sue esigenze e particolarità. Oggi non si trova facilmente lavoro, chiave che risolve quasi tutti i problemi alternativi alla detenzione; bisogna dare spazio alla fantasia, alla creatività.
I nostri ragazzi sono in età scolare e di apprendistato, quindi o si finisce di frequentare una scuola o si cominciano a frequentare laboratori che insegnano un mestiere. Ma questo deve avvenire principalmente fuori, chi sta dentro deve vedere che ha un motivo per comportarsi bene, deve sapere che prima o poi anche lui, se pur straniero, avrà la possibilità di un inizio di integrazione.
Per l’immediato mi vien da pensare alle nostre città, viviamo in quartieri sporchi, con l’erba alta e incolta, con cestini perennemente pieni, con marciapiedi usati come discarica: perché non dare lavoro a quelle associazioni che potrebbero portare i ragazzi (in specie quelli prossimi alla scarcerazione) a ripulire la città in cambio di una borsa lavoro: avremmo città pulite e a basso costo.

Lei accenna solamente a momenti di tensione e criticità incontrati durante il lavoro: in trent’anni di insegnamento vi è stato qualche episodio in cui ha avuto paura?
La paura nasce quando non conosciamo la persona che ci sta davanti e questo succede spesso quando il turn-over in Istituto è frequente. In genere però i ragazzi hanno più paura di te e quindi la reazione di alcuni di loro è solo un meccanismo di difesa preventivo.
In genere, superati i primi giorni, i ragazzi imparano che dal loro maestro non devono temere nulla; ciò non toglie che altri, per dimostrare la loro superiorità al gruppo, vengano a provocarti cercando la tua reazione. In questi casi basta non essere soli, richiamare l’attenzione dell’assistente o di altri colleghi e tutto rientra nei canoni della normalità.

C’è qualche storia che l’ha colpita particolarmente?
Molti sono i ragazzi che transitano per un Istituto penale; ogni ragazzo ha la sua storia, i suoi problemi che cerca e ha cercato di risolvere nel solo modo che conosceva, modi che nascono da vissuti che mai pensavo esistessero.
Mi piace ricordare la storia di “Topo Gigio”, una storia che ho voluto raccontare anche nel libro, una vicenda amara che mi fa guardare questi zingarelli che ci infastidiscono per strada con occhi diversi, che mi fa sorridere quando sento le voci dei passanti che imprecano contro gente che vive di furto e accattonaggio.

E’ ancora in contatto con qualche suo ex allievo?
Potrei dire molti, ma guardando i numeri di chi è transitato per l’Istituto, mi accorgo che sono pochissimi, sono eccezioni di una regola che ci dice che, una volta usciti, i ragazzi sono lasciati a se stessi, non hanno alternativa al lavoro se non il mercato illegale.
Succede spesso che per strada venga fermato da persone che si rivelano ex allievi, succede anche che alcuni allievi mi dicano che il loro padre mi conosce per essere stato in Istituto tanti anni fa, succede che di alcuni abbia assistito a matrimoni, battesimi di figli o abbia festeggiato il Ramadan insieme.
Sono giunto alla fine del mio trentunesimo anno di insegnamento e, se mi guardo indietro, come mi ha costretto a fare questo libro, scopro tanti visi e nomi che mi scorrono davanti: di molti non ricordo; di altri solo qualche pallida reminiscenza; di tanti, coi quali c’è stato anche qualche scontro, mi piace rivivere le ore trascorse insieme, magari saltuariamente dietro un piatto di pasta o una birra.
Uno in particolare, che vive a Londra: mi piace andare a trovarlo, scoprire che ogni anno la famiglia cresce (è arrivato al quinto figlio), mi piace tornare a discutere come quando facevamo in classe mentre i suoi figli ci corrono accanto e i più grandi mi chiamano nonno.
______
“Se avete bisogno di un’iniezione di speranza e di forza, non fatevi scappare questo libro: ci sono pagine scritte per voi; perché non c’è niente di meglio che una chiacchiera con qualcuno appassionato del proprio lavoro per risvegliare in noi energie sopite”
[dall’Introduzione]

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