Come ha accolto l’idea di Cristina Zagaria di scrivere un libro sulla sua amica Armida?
Inizialmente con diffidenza, ero abbastanza prevenuta, non capivo a quale aspetto della vita di Armida fosse interessata, mi infastidiva che qualcuno si potesse intromettere in un rapporto di amicizia fatto di complicità e segreti.
Successivamente mi sono rilassata, ho colto in Cristina Zagaria moltà sensibilità e rispetto per Armida e per la sua tragica fine ed ho pensato che poi, scrivere un libro su di lei, poteva essere un’occasione per farla esistere ancora, la sua testimonianza di una vita vissuta con impegno e coerenza nel lavoro, cosi come negli affetti, non sarebbe andata persa.
Quanto ha riconosciuto di Armida nelle pagine scritte da Zagaria?
Molto ed è per me una cosa impressionante. Al di là degli episodi della vita di Armida, raccontati in una sequenza funzionale al racconto, sono gli aspetti della sua personalità, definiti in maniera così realistica, che a tratti mi fanno pensare ad un’autobiografia piuttosto che ad un romanzo.
Armida le ha mai parlato dei sospetti che aveva su chi fosse il mandante dell’omicidio di Umberto Mormile?
Sì, ricordo in particolare una sera che ricostruì, con estrema lucidità, tutta la storia, mi parlò di un permesso negato, delle continue minacce che aveva continuato a ricevere ed io, del tutto estranea al suo lavoro, ascoltai il racconto come fosse un film, alla fine però fui assalita dai brividi e quella notte non riuscii più a dormire.
La vita ci trasforma sempre, ma il lavoro e l’utilizzo che il Dap ha fatto della dottoressa Miserere, mandandola nelle carceri dove doveva sedare rivolte o mostrare il polso duro, pensa possa avere contribuito a minare la sua sicurezza?
Sicuramente il lavoro le aveva prosciugato tutte le energie, il lavoro era la sua vita, la sua famiglia, non aveva molta vita sociale oltre il grigio pastoso di quelle mura. Si sentiva da un lato gratificata da questi incarichi, che indubbiamente le riconoscevano capacità e meriti professionali non consueti, ma nello stesso tempo era consapevole di quanto l’Amministrazione la “usasse”, dopotutto era una donna sola, non creava problemi a nessuno nei suoi spostamenti continui, non aveva una famiglia che la tenesse legata ad un luogo particolare, dei figli da portare a scuola.
A volte portava il conto, scherzando, di quanto con lei l’Amministrazione avesse risparmiato: niente permessi per maternità, allattamento, malattia dei figli… ma accettava ogni incarico perché aveva un attaccamento e un senso del dovere verso lo Stato che oggi appare sempre più fuori dal tempo.
Per questo penso che in parte si sia abusato della sua disponibilità, quando si conducono e vincono diverse battaglie si conquistano i gradi e ci si mette a riposo, nel suo caso lei aveva dato già molto e credo che non si siano tenuti in giusta considerazioni i limiti, purtroppo umani, che ci consentono di sopportare fino a un certo punto.
Cosa le piace ricordare di Armida Miserere?
La sua risata contagiosa, la sua vitalità, la sua energia che continua oltre il suo corpo.
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