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Maggio-Agosto/2014 - Interviste
Il libro
Studio e prevenzione del suicidio nelle Forze di polizia
di Michele Turazza

Ore 22.00 circa di lunedì 25 febbraio 2008: una Fiat punto bianca si porta lentamente nel parcheggio retrostante la chiesa di San Pieve a Nievole, un paesino in provincia di Pistoia. A bordo una donna di 49 anni e la figlia di 8. La macchina si ferma. I fari si spengono ma non scende nessuno: poco dopo la bambina si addormenta avvolta nel tepore di una giacca. Passa qualche minuto… nelle case vicine si odono rimbombare dal buio che è fuori due colpi secchi. Chiara è sdraiata sul sedile anteriore destro, di lato, come addormentata, gli occhi chiusi, un piccolo foro sulla tempia sinistra. Cecilia… eccola lì, seduta alla guida, il corpo reclinato all’indietro, gli occhi sbarrati, la bocca insanguinata, un filo rosso le disegna un baffo sulla guancia sinistra. Sul tappetino ai piedi di Cecilia un biglietto: ci vediamo nell’aria. Cecilia era poliziotta.
Ore 9.45, 18 ottobre 2004. Il Commissario capo A.M. è seduto sulla poltrona del suo ufficio con il capo riverso sulla scrivania. Indossa la divisa ed impugna la pistola di ordinanza. E’ agonizzante. Muore un'ora dopo all’ospedale.
Ore 9.00, 1 settembre 2004. In un piccolo appartamento di un comune toscano, un uomo giace riverso sul pavimento della cucina. Ha un foro di proiettile calibro 9 sulla tempia sinistra ed indossa la divisa di ordinanza della Polizia di Stato.

Questi e altri tragici resoconti di suicidi di appartenenti alle Forze di polizia sono riportati nel volume “Caduti senza l’onore delle armi” (LaurusRobuffo editore, 2014, pp. 231, 19,90 euro) del dottor Luigi Lucchetti, Dirigente superiore medico del Servizio sanitario della Polizia di Stato e presidente dell’Associazione Aigesfos (Associazione italiana per la gestione dello stress nelle Forze dell’ordine e del Soccorso). In tale pubblicazione – prima opera organica sul suicidio nelle Forze di polizia in Italia – l’Autore si è soffermato, con taglio rigoroso e pragmatico, sulle possibili cause del fenomeno, dedicando ampio spazio alle politiche di prevenzione ed alle modalità di aiuto tra colleghi. Polizia e Democrazia l’ha intervistato.

Dottor Lucchetti, come nasce il suo interesse per il fenomeno suicidario nelle Forze di polizia?
Il mio interesse per il suicidio negli operatori di Polizia nasce all’indomani della strage causata dall’attentato ferroviario del 23/12/1984 al treno rapido 104 Napoli-Milano, avvenuto nella galleria S. Benedetto Val di Sambro-Vernio del tratto Firenze-Bologna, quando un giovane Ispettore della Polizia di Stato in servizio presso la Scuola Polfer di Bologna, dopo aver prestato indefessamente attività di soccorso per lunghe ore in quello scenario a dir poco sconvolgente, rientrato in caserma si tolse la vita con un colpo di pistola lasciando questo biglietto: “Non riesco più a concepire di vivere in un mondo assurdo. Questa è una società maledetta. Vi chiedo scusa. So benissimo che il dolore che vi do è molto grande, ma mi mancano le forze per continuare a vivere. Però voglio che voi tutti continuiate a vivere la vita, che in fondo è molto bella”.

Cosa la colpì in particolare di quel gesto?
Il fatto che passò sostanzialmente sotto silenzio nell’ambito generale della collettività, mentre all’interno del mondo Polizia – in cui già vivevo ed operavo come medico della Polizia di Stato da oltre tre anni – registrai una presa di distanza, l’incapacità di “comprendere” il gesto, in definitiva un atteggiamento di distacco e di rifiuto che mi turbò profondamente. Lessi questa reazione, registrata sul piano orizzontale dei colleghi, come il tentativo di esorcizzare l’angoscia profonda prorompente dalla percezione, scarsamente o per nulla consapevole, che in certe condizioni estreme, anche una persona, che dovrebbe - come il poliziotto - essere forte e temprata dalle dure esperienze lavorative con cui quotidianamente si confronta, può giungere a superare il punto di non ritorno, e decidere di abbandonare volontariamente la vita.
In quegli anni stavo riorientando ed allargando i miei interessi culturali, alla luce della attività istituzionale in cui mi ero calato, verso la psicologia clinica e la psichiatria che ritenevo essenziali per meglio comprendere ed operare nello specifico ambito lavorativo in cui svolgevo ormai la mia professione.

Quando il suicidio tra gli appartenenti alle Forze di polizia inizia a costituire oggetto di indagine per le scienze sociali?
Mi resi subito conto di come in Italia fossimo in ritardo, rispetto agli altri Paesi occidentali, nello studio e nella prevenzione del fenomeno suicidario, così come nell’attenzione verso altri temi rilevanti per gli operatori di Polizia, quali ad esempio le varie tipologie di stress professionale. Negli Stati Uniti la sensibilità per le specifiche problematiche degli operatori di Polizia già da alcuni decenni aveva trovato l’interesse di due giganti nella storia della psicologia e della psichiatria: Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, che si era occupato di proporre un’ipotesi circa il suicidio dei poliziotti, ed Hans Selye, l’antesignano della ricerca moderna sullo stress, che riteneva che il lavoro di Polizia fosse “l’occupazione più stressante, superando anche le tensioni del controllore del traffico aereo”.
Gli studi sul suicidio in questo specifico ambito lavorativo si sono poi intensificati a partire dagli anni Settanta negli Stati Uniti e nei primi anni Novanta in Europa, concentrandosi principalmente nel cercare di rispondere alla domanda circa la maggiore o minore frequenza del fenomeno rispetto alla popolazione generale, e nel proporre teorie motivazionali sulla psicogenesi del gesto in divisa.

A quali esiti sono giunti?
Entrambi i filoni di ricerca non hanno portato a risposte definitive: per quanto riguarda il primo, i dati epidemiologici sia americani che europei, spesso tratti da ricerche di limitata portata o viziate da errori metodologici, non permettono ancora di chiarire se la professione di poliziotto comporti un aumento del rischio di suicidio, mentre per quanto attiene l’aspetto motivazionale la teorizzazione, prevalentemente di stampo statunitense, ha oscillato tra il polo dell’attribuzione del gesto alle spinte interne dell’individuo, a quello della frustrazione dei bisogni personali operata dagli specifici condizionamenti sociali, come, ad esempio, la coartazione dell’espressione dell’aggressività richiesta agli operatori di Polizia, elemento che aumenterebbe il rischio di rivolgere verso se stessi le pulsioni distruttive.

C’è una relazione tra l’esser poliziotti e il rischio suicidario?
Tra i vari modelli proposti da autori statunitensi spicca quello di John M. Violanti, basato sull’impatto che il ruolo sociale di poliziotto comporta rispetto al potenziale per il suicidio. Secondo questo autore l’operatore di Polizia nell’approcciare i problemi viene condizionato ad assumere la prospettiva cognitiva “del bianco o nero”, “giusto o sbagliato”, ed un ruolo comportamentale rigido caratterizzato dal distacco emotivo, dall’assenza, o dal massiccio contenimento, di espressione dei sentimenti a scopo difensivo: elementi entrambi “funzionali” per il lavoro, ma sfavorevoli per gestire le problematiche connesse alle relazioni intime ed alle dinamiche della vita familiare, la cui evoluzione fallimentare rappresenterebbe il fattore precipitante principale per il passaggio all’atto.

E nel nostro Paese?
I dati epidemiologici ufficiali italiani sul suicidio in divisa sono molto scarsi: quelli riportati da Cuomo-Mantineo per la Polizia di Stato sulla rivista Polizia Moderna e riferiti agli anni 1995-2001; quelli relativi alla Guardia di Finanza per il decennio 1996-2005, dichiarati nella lettera aperta a tutti i Finanzieri inviata nel 2006 dall’allora Comandante generale del Corpo; quelli riguardanti l’Arma dei Carabinieri, indicati nell’ambito della risposta ad una interrogazione parlamentare del 2005, per gli anni 2001-2004.
La riflessione su questi dati, benché limitati, porta a concludere provvisoriamente per un tasso suicidario mediamente equiparabile a quello della popolazione generale comparabile per genere ed età. Tenendo però conto del fatto che nell’ambito di quest’ultima sono presenti ampie fasce di soggetti svantaggiati come i malati cronici di gravi patologie, i pazienti psichiatrici, i reclusi, i disoccupati, frequenze omologabili nelle Forze di Polizia possono essere interpretate come “tassi relativi maggiori”, dato che esse rappresentano complessivamente un sottogruppo della popolazione selezionato e scelto in quanto più resiliente dal punto di vista fisico e mentale alle fonti di stress.

Quali fattori possono spiegare tassi suicidari “maggiori” nel senso sopra indicato?
Secondo la mia specifica esperienza, oltre che dagli elementi tratti dalla letteratura scientifica, tre appaiono gli elementi propri del ruolo professionale dell’operatore di Polizia in grado di giustificare il divario tra l’attesa di tassi suicidari significativamente minori e la constatazione di frequenze sostanzialmente omologabili a quelle della popolazione generale. La disponibilità continuativa dell’arma da fuoco, strumento letale ed indolore di immediata fruizione all’acme di un vissuto di sofferenza a genesi psichiatrica e non, che lascia scarsissimo spazio alla categoria del tentato suicidio.
Il maggior rischio di subire anche a distanza di tempo gli effetti sfavorevoli di eventi di servizio a carattere psicotraumatico, così come di andare incontro al logoramento da burn-out, condizioni entrambe in grado di ridurre le capacità dell’individuo di affrontare importanti difficoltà emotive in ambito affettivo-familiare. Gli stili di coping tipici dell’operatore di Polizia, orientati prevalentemente al fronteggiamento concreto delle situazioni ed all’evitamento della conflittualità relazionale attraverso il distacco emotivo, risultano frequentemente inidonei di fronte alla tempesta dei rapporti affettivi e familiari in crisi, determinando il cedimento di quella corazza “professionale” che lascia il soggetto alla mercé dell’aggressione invisibile di potenti e dolorosi sentimenti in subbuglio.
Non vi è dubbio poi che la patologia psichiatrica rappresenti per l’agito suicidario un fattore predisponente estremamente significativo, ed in particolare per quanto riguarda le Forze di Polizia i disturbi depressivi e l’abuso di alcool, sostanza il cui consumo eccessivo almeno in passato ha goduto di troppa indulgenza nell’ambito delle culture di stampo militare.
Tra i fattori precipitanti spiccano le problematiche affettive e familiari quali fallimenti sentimentali, separazione-divorzio, conflittualità con figli adolescenti, problemi economici ecc. mentre risultano nettamente minoritarie le dinamiche acute in ambito lavorativo, con le relative sequele disciplinari, amministrative o penali.

Quali sono le politiche di prevenzione che l’Amministrazione della Ps attiva per prevenire gli episodi di suicidio tra i suoi appartenenti?
La prevenzione del suicidio nelle Forze di polizia, così come nella popolazione generale, è un problema estremamente complesso e necessita di una prospettiva di rete che veda coinvolti tutti i soggetti e gli interlocutori che hanno obblighi o possibilità di svolgere azioni favorevoli nell’ambito della prevenzione primaria, secondaria e terziaria del fenomeno. Essi sono rappresentati dalle Istituzioni a cui i vari operatori di Polizia appartengono, i superiori, i colleghi ed i collaboratori con cui essi quotidianamente lavorano, i cappellani a cui è affidata la loro assistenza spirituale, i medici e gli psicologi dei vari Corpi più direttamente preposti a preservare la loro salute, le famiglie in cui vivono, le organizzazioni sindacali o assimilate che li rappresentano, i medici di famiglia a cui si rivolgono per le loro problematiche sanitarie di carattere generale.
Il suicidio raramente è un impulso dovuto ad una decisione improvvisa.

Quali sono i discorsi, le parole che debbono destare allarme tra i colleghi?
Durante le settimane, i giorni, le ore precedenti il gesto generalmente appaiono indizi e segnali di allarme, non sempre eclatanti, che possono però essere colti da occhi ed orecchi attenti. I segnali più forti e rivelatori di una profonda e pericolosa sofferenza sono quelli verbali o scritti, che non devono mai essere sottovalutati: parlare del suicidio o della morte; usare espressioni dirette come: “magari fossi morto”; “ho intenzione/sto pensando di farla finita”; “mi sento come fossi già morto”; “prima o poi la farò finita”; usare espressioni meno dirette come: “a che serve vivere?”; “non posso più andare avanti così”; “non mi importa più vivere”; “a chi importa se muoio?”; “ben presto non dovrai/non dovrete più preoccuparvi di me/per me”; “la vita per me è diventata un peso”; “la vita per me non ha più senso”; “ormai sono solo un peso anche per voi”; “non ho più speranze”; “senza di lui/lei non ha più senso vivere”; “nessuno può fare più niente per me”; “non merito di vivere”; “vi farò vedere di cosa sono capace!”; accennare, senza un valido e preciso motivo, di aver già tentato il suicidio in un più o meno recente passato; riferire di avere difficoltà a contenere l’impulso a farsi del male: es. gettarsi dal balcone; esprimere gravi sensi di colpa specie se illogici o assolutamente sproporzionati; dichiarare ripetutamente di temere, senza motivo, di aver contratto una grave malattia: tumore, aids, sclerosi multipla ecc.; dichiarare insistentemente di dover espiare e/o redimersi per i peccati/errori commessi; esprimere il forte desiderio di riunirsi con un caro da poco scomparso; minacciare il compagno di farla finita se abbandonato, eventualmente preannunziando di uccidere, prima di suicidarsi, chi sta per lasciarlo.

Quali i comportamenti e gli atteggiamenti?
Contestualmente o separatamente a quanto appena detto, possono essere osservati i seguenti comportamenti o segnali non verbali: isolarsi progressivamente o d’improvviso dai colleghi, dagli amici, dai familiari; trascurare l’aspetto fisico e l’igiene (specialmente per una donna); disfarsi di cose care, magari regalandole ad un collega, un amico, un familiare; mettere ordine nei propri affari o regalare oggetti di valore economico; trovare una lettera di addio/commiato diretto o simbolico, oppure recante volontà “testamentarie”; mostrare un improvviso interesse o la perdita di interesse per la religione; mostrare un miglioramento improvviso ed inspiegabile dell’umore dopo essere stati depressi (può indicare che il soggetto ha finalmente individuato la soluzione per non soffrire più); acquistare improvvisamente armi da fuoco, o per chi ha un’arma in dotazione iniziare a manifestare ingiustificati cambiamenti nel rapporto con essa; approvvigionarsi di farmaci psicotropi in modo eccessivo o senza una valida ragione; evidenziare un improvviso deterioramento dell’aspetto fisico, come ad esempio un grave dimagrimento; trascurare importanti attività quotidiane routinarie; evidenziare sbalzi improvvisi di umore; iniziare a comportarsi pericolosamente; mettere in atto comportamenti autolesionistici; fissare ripetutamente appuntamenti medici e/o con medici diversi per sintomi lievi/generici/improbabili/assurdi.
La eventuale molteplicità di questi segnali unita alla conoscenza di situazioni relative alla persona che li emette – come: avere subito abusi sessuali o fisici; avere alle spalle una storia familiare di suicidi e violenza; avere recentemente subito la morte di un caro amico o familiare, anche per suicidio; essere andati incontro ad un divorzio, una separazione, la fine di una relazione sentimentale; avere importanti problemi economici; aver perso il lavoro, o avere seri problemi sul lavoro; avere problemi legali; essere stati recentemente arrestati o fatti oggetto di una indagine penale; avere uno stretto familiare affetto da una grave malattia cronica o a cui recentemente è stata diagnosticata una seria patologia; avere una grave malattia cronica o senza speranza; avere in un più o meno recente passato sofferto di depressione; abusare di alcool o far uso di droghe; essere stati recentemente oggetto di gravi vessazioni/mobbing; avere causato anche involontariamente la morte di qualcuno, specialmente se si tratta di una persona cara; avere già tentato il suicidio in passato – deve essere interpretata come una condizione a potenziale imminente rischio di suicidio che richiede una attivazione per tutelare la vita della persona, e qualche volta anche delle persone intorno a lei.

Quali sono le reazioni che ha riscontrato tra le persone più vicine a colui che si è tolto la vita?
Il suicidio è un evento che, come le catastrofi, crea la categoria dei sopravvissuti: essi sono i membri della famiglia, gli amici, la cerchia più stretta dei colleghi di lavoro che sperimentano la perdita di una persona cara che si è tolta volontariamente la vita. Nell’ambito delle Forze di polizia, dove vige una forte cultura solidaristica, i colleghi più stretti vivono spesso forti sentimenti di colpa e rabbia nei confronti del suicida, reazioni frequentemente condivise dal responsabile gerarchico e dal sanitario del reparto, i quali non raramente sono costretti a confrontarsi con il fantasma delle responsabilità giuridiche, tanto più se nel passato più o meno recente del suicida possano rinvenirsi elementi anche vagamente indicativi di un non ottimale equilibrio psichico. Tutto ciò si complica enormemente quando il suicidio dell’operatore di Polizia si accompagna all’omicidio di familiari o terzi.
Non deve inoltre nemmeno essere trascurato il fatto che i familiari del suicida, sotto shock e frequentemente travolti da un intollerabile senso di colpa, possono più o meno consapevolmente tentare di “esportare”, almeno parzialmente, la psicogenesi del gesto al di fuori dell’ambito della vita privata del suicida, collocandone in qualche modo i fattori scatenanti nel contesto lavorativo, o attribuendo a figure chiave dell’organizzazione di quest’ultimo la mancata adozione di provvedimenti cautelativi, in primis il ritiro dell’arma in dotazione al loro congiunto.

Tra gli episodi suicidari affrontati e studiati nel corso della sua carriera, quale l’ha colpita maggiormente?
Fra gli eventi suicidari che ho avuto modo di seguire negli anni ne ho scelti due per aprire e chiudere simbolicamente il libro: il primo relativo alla prima donna poliziotto che nel 2008 ha compiuto l’estremo gesto, sopprimendo insieme alla sua la vita che aveva generato, il secondo rappresentato dal suicidio di un operatore di Polizia appena andato in pensione che uccide anche le due figlie sottraendole all’amore della madre, anch’essa operatore di Polizia, la quale dopo alcuni anni, quando crede di essere ormai in menopausa, torna a generare una nuova vita.

Dove trovare aiuto e supporto?
Non raramente gli operatori di Polizia sopravvissuti al suicidio di un collega necessitano di un supporto psicologico, che può essere più utilmente fornito da un team composto da professionisti della salute mentale interni all’Istituzione e da “Pari”, poliziotti opportunamente formati per sostenere emotivamente colleghi che hanno sperimentato eventi psicotraumatici, tra cui va enumerato anche il gesto autosoppressivo di uno di loro.
Al riguardo la Polizia di Stato è stata la prima Forza dell’ordine a istituire questa figura già nel 2003, impiegandola in numerosi eventi critici, compresi alcuni episodi suicidari. Sotto la spinta entusiastica di questi operatori e grazie all’esperienza che il loro impiego ha permesso di acquisire, si è costituita nel 2011 l’Aigesfos, di cui mi onoro di essere il Presidente, che ha lo scopo di porre in primo piano, sotto il profilo culturale e scientifico, la tematica dello stress professionale delle Forze di polizia e del Soccorso. “Caduti senza l’onore delle armi” vuole anche essere il biglietto da visita dell’Associazione per tutte le persone di buona volontà animate da un genuino e fattivo interesse per la salute degli operatori dell’emergenza, le quali possono approfondire gli scopi e le attività della stessa visitando il sito www.aigesfos.it.

“L’auspicio è che le pagine di questo libro, specialmente attraverso le storie dei percorsi suicidari che vi sono fedelmente riportati per illuminare le nostre menti e scuotere le nostre coscienze, rappresentino uno stimolo a riscoprire l’autentico valore della solidarietà umana, la responsabilità morale di farci carico del nostro “prossimo” – amico, familiare, collega – anche quando è in divisa, superando il falso alibi della tutela della riservatezza e del rischio di procurare danni secondari che spesso ci impedisce di fare quanto, sostanzialmente semplice e alla nostra portata, può rivelarsi però determinante per preservare una vita, ed il destino di coloro che ad essa sono affettivamente legati”.
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Cos’è l’Aigesfos?

Fondata il 30 aprile 2011, l’Aigesfos (Associazione italiana per la gestione dello stress nelle Forze dell’ordine e del Soccorso) ha come motto: “Homo homini spes”. E’ un’associazione senza scopi di lucro ed ha per finalità la promozione di una moderna cultura del benessere degli appartenenti alle Forze di polizia e del Soccorso a competenza nazionale e locale, oltre che dei volontari operanti nell'ambito del soccorso pubblico, centrata sulla prevenzione e gestione attiva, individuale e collettiva, dello stress correlato ai servizi di Polizia e di soccorso nelle varie forme in cui esso può manifestarsi, oltre che sul riconoscimento, sociale e giuridico, del tributo di danno alla persona che lo svolgimento dei compiti istituzionali può comportare per queste particolari categorie di lavoratori e dipendenti pubblici, a causa degli effetti negativi di ordine bio-psico-sociale conseguenti ai rischi per l’incolumità fisica, ed ai vari e gravosi fattori stressanti a cui sono quotidianamente esposti, mediante:
- la promozione di studi e ricerche sullo stress correlato ai servizi di Polizia e di soccorso a carattere interdisciplinare - fra cui, a titolo non esaustivo: medicina clinica, medicina diagnostica di laboratorio e per immagine, medicina psicosomatica, medicina legale, medicina del lavoro, medicina dello sport, psichiatria, biologia, farmacologia, scienze del comportamento, psicologia della salute, psicologia clinica, psicologia del lavoro e delle organizzazioni, psicologia dell’emergenza, psicoterapia, psicotraumatologia, psicodiagnostica, criminologia, sociologia, scienze della formazione, diritto penale, diritto civile, diritto amministrativo, diritto di Polizia - con finalità applicative, oltre quella di rappresentare uno stimolo costante ed un riferimento autorevole per l’adozione da parte delle Amministrazioni delle varie Forze di polizia e del Soccorso, oltre che del legislatore, dei provvedimenti di rispettiva competenza diretti a conoscere, prevenire, gestire, ridurre, eliminare, riconoscere sotto il profilo giuridico ed amministrativo, compensare, gli effetti dannosi conseguenti ai fattori stressanti presenti negli ambienti e nei contesti di lavoro specifici di queste particolari categorie di lavoratori e dipendenti pubblici;
- la realizzazione di iniziative culturali e campagne di informazione per diffondere tra gli appartenenti alle varie Forze di polizia e del Soccorso, oltre che fra i volontari operanti nell’ambito del soccorso pubblico, i loro familiari ed amici, privati cittadini, Istituzioni ed Enti interessati, una approfondita ed aggiornata conoscenza sull’ampia e complessa tematica dello stress correlato ai servizi di Polizia e di Soccorso;
- l’organizzazione di corsi di formazione rivolti agli appartenenti alle varie Forze di polizia e del Soccorso, oltre che ai volontari operanti nell’ambito del soccorso pubblico, ed ai loro familiari, per apprendere ed applicare idonee strategie individuali e di gruppo per prevenire ed affrontare gli effetti negativi dello stress correlato ai servizi di Polizia e di Soccorso;
- lo sviluppo di attività divulgative e formative per promuovere la diffusione della cultura dell’auto-mutuo-aiuto nelle Forze di polizia e del Soccorso, con la finalità di rendere i loro appartenenti, oltre che i volontari operanti nell’ambito del soccorso pubblico, attivamente protagonisti, anche in reciproca collaborazione con i professionisti della salute mentale ed altri esperti, nella realizzazione di attività a sostegno dei colleghi in difficoltà a causa degli effetti dello stress conseguente allo svolgimento dei loro compiti istituzionali;
- la promozione di studi e ricerche finalizzati ad introdurre scientificamente ed operativamente la tematica dello stress come fondamentale elemento per orientare la selezione, la formazione di base e di secondo livello, l’addestramento iniziale e successivo, di queste particolari categorie di lavoratori e dipendenti pubblici;
- la realizzazione di attività di tipo divulgativo, informativo e formativo in materia di cultura della salute degli appartenenti alle Forze di polizia e del Soccorso, oltre che dei volontari operanti nell’ambito del soccorso pubblico, quali a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo: pubblicazioni, convegni, conferenze, dibattiti, manifestazioni culturali, campagne di sensibilizzazione, seminari, corsi di formazione.
(Fonte: www.aigesfos.it)

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