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Maggio-Agosto/2014 - Interviste
Storie
Federico Aldrovandi
di Lorenzo Baldarelli

Conversazione con Patrizia Moretti, la mamma del giovane ucciso
a Ferrara la notte tra il 24 e il 25 settembre 2005. «Faccio affidamento
più sulle coscienze che sulle sentenze, spero che emerga la voglia di dirmi
la verità. Che un giorno qualcuno mi dica perché è morto mio figlio»


Nove anni fa a Ferrara fu ucciso lo studente Federico Aldrovandi. La vicenda giudiziaria e di cronaca ruota intorno a quattro poliziotti di due distinte pattuglie. Il 6 luglio 2009 Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri vengono condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi≫.
A fine giugno del 2012 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna. Federico è deceduto per arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale ma ad oggi non si conosce realmente il motivo di una morte così assurda

Per i pochi lettori che ancora non conoscono la vicenda di suo figlio, potrebbe raccontarci cosa è avvenuto la notte del 25 settembre del 2005?
La notte tra il 24 e il 25 settembre 2005 Federico esce come tutti i sabati, con i suoi amici. Mio figlio aveva 18 anni da soli due mesi e non aveva ancora la patente, quindi era una delle primissime volte che usciva da Ferrara da solo. Il fatto che andasse a Bologna ad un concerto era quasi un avvenimento. Dopo aver assistito al concerto con i suoi amici, verso le tre del mattino rientrano. Alle quattro sono a Ferrara e dopo due chiacchiere si salutano. Intorno alle cinque Federico si incammina verso casa a piedi; fu Federico a chiedere di poter fare una passeggiata, magari per godersi l’alba. Da quel momento in poi non abbiamo indicazioni precise di quello che è realmente accaduto. C’è ancora molta nebbia, conosciamo l’epilogo, grazie alle testimonianze, ma dal momento in cui ha salutato i suoi amici fino al momento in cui è morto c’è ancora molto da capire e scoprire.
Il perché Federico sia stato fermato non si sa, è comunque acclarato dai processi che lo scontro tra Federico e la pattuglia “Alfa 3” con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri è avvenuto prima di quanto affermato dai testimoni. Quello che è avvenuto in viale Ippodromo non può più raccontarlo, e i poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri forse non ce lo diranno mai. Ad oggi quindi non so esattamente perché è morto mio figlio e perché è stato ucciso con così tanta violenza.

Un omicidio senza un apparente movente o una situazione sfuggita di mano? Anche per il giudice che ha redatto la sentenza le cause della morte di Federico sono ≪uniche e rare≫. Ci sono ancora processi in corso? Si indaga sui depistaggi e gli insabbiamenti avvenuti subito dopo la morte di suo figlio?
Durante il processo gli agenti hanno sempre dichiarato di essersi recati sul posto a seguito della chiamata dei Carabinieri, che per prassi e divisione territoriale deviano la chiamata alla Polizia. Ma in realtà non è andata così. Nel processo le prove hanno dimostrato che la Volante di Enzo Pontani e Luca Pollastri era lì da prima. Questo fatto risulta incrociando gli orari riportati sui tabulati dei cellulari e del commissariato di Polizia. Ci sono anche testimonianze della presenza della Volante lì nel parco prima dell’arrivo di Federico. Che cosa abbia visto Federico rimane il mio grande dubbio.
Il meccanismo di copertura è scattato immediatamente; prima dai quattro colpevoli e poi dai loro superiori che nel frattempo si erano recati sul posto. Su questi fatti però ci sono ancora processi in corso, alcuni al primo grado altri al secondo e al terzo. Finora sono arrivate alcune condanne per depistaggio, gli atti del processo parlano di una strategica copertura. C’è anche un’assoluzione in Appello per l’ispettore Marino, lo stesso che parlò quella mattina al telefono con il pm Guerra. La dottoressa Guerra era di turno ma non si recò sul posto affermando che la sua mancanza derivasse dalle parole dell’ispettore Marino. Per loro era solo morto un tossico e non c’era nulla da vedere e da fare.
In primo grado l’ispettore Marino è stato condannato, ma in Appello assolto. Quindi ora la responsabilità ricade di nuovo sul pm Guerra. Di cui vorrei parlare un attimo.
La dottoressa Guerra è colei che per sei mesi ha tenuto il caso per poi cercare di archiviarlo, per fortuna arrivò la notizia che la sua intenzione di archiviazione potesse essere legata al fatto che suo figlio fosse indagato per possesso di stupefacenti. Un paio di anni dopo c’è stato il processo dove il figlio appunto venne condannato. La dottoressa Guerra è il pm che mi convocò in Procura, solo dopo l’apertura del mio blog, solo per offendermi. Mi fece pesare il fatto che io non sapessi dove fosse mio figlio e poi mi chiese informazioni sui contatti del blog. Voleva conoscere chi mi avesse contattata e cosa mi avessero detto.
Successivamente, io e mio marito abbiamo scoperto che le persone pronte a testimoniare venivano visitate dalla Polizia. Alla fine, chissà perché, cambiavano idea. Io stessa ho incontrato una signora che in lacrime non mi è riuscita a dire cosa avesse visto. Qui non si tratta solo di legge ma anche di umanità e comunità.
La questione dell’intimidazione qui a Ferrara è stata un problema pesante. Pensi che i poliziotti hanno raccolto 300 firme a sostegno dei quattro condannati per omicidio, sono convinti che abbiano lavorato bene. Io sono convinta che almeno mezza questura di Ferrara sappia esattamente cosa sia successo. Non so se si tratti di omertà, di spirito di corpo o interessi personali, per ora però c’è solo il silenzio.
Faccio affidamento più sulle coscienze che sulle sentenze, spero che emerga la voglia di alcuni di loro di dirmi la verità. Spero che un giorno qualcuno mi dica perché è morto mio figlio.

Studiando il caso di Federico, le figure che più mi hanno colpito sono quelle di suo marito Lino, ispettore di Polizia Municipale e di Nicola Solito, ispettore capo della Digos di Ferrara. Incarnano in pieno il paradosso di questo omicidio: non è solo un caso di violenza da parte dei “tutori della legge” nei confronti di un cittadino inerme, ma è anche un tradimento nei confronti di tutti i cittadini onesti. Se cade il rapporto di fiducia tra Stato e cittadino, cadono i presupposti stessi della nostra società. Secondo lei come è stato possibile che a indagare sull’omicidio di suo figlio siano stati i compagni di chi l’ha ucciso. Mi riferisco in particolare al rapporto sentimentale che c’era tra la condannata Monica Segatto e l’ispettore Pietro Angeletti della Polizia Giudiziaria, incaricato appunto dal Procuratore capo Severino Messina, di indagare sull’omicidio.
Il rapporto di mio marito con la divisa è simile a quello che ho io. È filtrato dalla consapevolezza che dentro la divisa ci sono esseri umani. La divisa è un vestito che rappresenta le Istituzioni e il sacrificio, dentro la divisa ci sono uomini che svolgono un lavoro particolare, importante e impegnativo. Mio marito ne ha un gran rispetto, suo padre era Carabiniere.
Molti uomini sono degni di portarla, altri invece no. Chi ha ucciso mio figlio dovrebbe levarsela, anche per difenderne l’onore, per difendere la Polizia dall’interno. Così come ha fatto Solito; non ha rinnegato il suo ruolo da poliziotto, non si è tirato indietro. Ha continuato a fare il suo lavoro nel modo corretto e onesto, anche subendo un mobbing feroce; subito dopo la morte di Federico è stato completamente isolato dai suoi colleghi. Ma vede, uscire da quel contesto l’ha considerata e la considera una sconfitta. Le cose si cambiano da dentro, c’è una grande pressione perché le cose cambino.

Secondo lei perché il corporativismo, gli atteggiamenti omertosi e gli insabbiamenti non sono stati bloccati fin dall’inizio, magari passando le indagini alla Guardia di Finanza? Che interesse aveva e ha la politica? Mi riferisco sia al passato che all’immediato presente. Agli applausi del Sap e dei politici presenti (La Russa). Delle belle parole dette da molti e dei pochi fatti. E soprattutto della possibilità che i condannati tornino in servizio.
Va detto che gli applausi agli assassini, i sit-in davanti la sede del Comune di Ferrara dove io lavoro e gli insulti su Facebook non permettono una sana e logica discussione sul merito.
Mi riferisco alle parole di Forlani: «Che faccia da c... aveva sul tg, una falsa e ipocrita, spero che i soldi che ha avuto ingiustamente [2 milioni di euro, risarciti dal ministero dell’Interno alla famiglia Aldrovandi, ndr] possa non goderseli come vorrebbe, adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie». Io ovviamente per queste parole ho presentato ai Carabinieri di Ferrara una querela per diffamazione. Quella è stata la prima, poi ho dovuto querelare Giovanardi, il segretario del sindacato di Polizia Coisp, Franco Maccari e il senatore Alberto Balboni. Le ultime due le ho dovute fare dopo il presidio sotto il mio ufficio.
Per quanto riguarda gli applausi li trovo sovversivi, chi ha compiuto quel gesto si è messo contro una sentenza, si è messo contro lo Stato e quindi contro quello che hanno giurato di proteggere.
A coprire gli uomini coinvolti nell’omicidio sono stati i colleghi degli assassini, poi è stata coinvolta la questura e la Procura di allora; è scattato subito un meccanismo di depistaggio. Erano comunque persone legate, amici. Loro si vedevano spesso per discutere del fatto; non conosco le parole ma le azioni sono di dominio pubblico. Il fatto che abbiano affidato le indagini alla squadra di Angeletti ne è una prova. Comunque i processi sono in corso, anche se chi è sotto processo sono sempre i pesci piccoli, le ultime ruote del carro.

Per le ultime due domande ho cercato ispirazione da due realtà che oggi sembrano comportarsi come diverse tifoserie di calcio. La prima domanda proviene da poliziotti e carabinieri onesti. Tutti hanno confermato il corporativismo più duro. La domanda che le vorrebbero porre è questa: lei conosceva suo figlio e oggi racconta la verità su di lui?
Non riseco a capire come persone così oneste possano essere di mentalità così ristretta.

Un ragazzo che, come Federico, frequenta i centri sociali le vuole chiedere se, visto che Ferrara è una piccola città, quando la Polizia la ferma lei ha paura?
Non è una vera e propria paura, è qualcosa di irrazionale; è simile a quella del terremoto. Mi è capitata di provarla una volta; ero fuori dalla palestra, era inverno e la luce era andata via, il parcheggio era quasi deserto e una Volante stava compiendo un controllo. Razionalmente sapevo benissimo che era tutto normale, ma dentro mi sono sentita morire, non riuscivo a respirare.

Quali le figure istituzionali che le sono state più vicine e cosa è necessario fare per evitare che fatti di questo genere non si ripetano più?
In realtà la vicinanza delle Istituzioni non ci è mai mancata, è arrivata fin dall’inizio. Tutti mi hanno manifestato solidarietà, i due sindaci di Ferrara, il Capo della Polizia, i Ministri e alcuni politici. In particolare vorrei ricordare l’onorevole Manconi che si è impegnato molto per istituire il reato di tortura.
Nessuno di loro però è riuscito a far sì che i colpevoli dell’omicidio di mio figlio non tornassero ad indossare la divisa. I sei mesi di sospensione sono finiti e la Commissione ha valutato di farli tornare in servizio, gli atti però sono stati segretati. Ci hanno risposto che noi non siamo parte interessata. Dopo gli applausi la Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini si è comunque fatta carico di eliminare il segreto dai verbali.
Anche questo servirebbe a far sì che fatti del genere non vengano più commessi, così come l’introduzione del reato di tortura. Ma la questione è a monte, è legata alla cultura, alla formazione. Agenti formati e controllati durante tutta la carriera, sono il vero rimedio. Magari anche con sostegni psicologici, a garanzia loro e di tutti i cittadini. Un lavoro pesante e stressante non deve giustificare un omicidio.

FOTO: Federico Aldrovandi

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