Formazione e occupazione in carcere. Una realtà
o una chimera. Di questo e altro parliamo
col Garante della Puglia, Piero Rossi
A che punto si trova l’esperienza del Garante dei diritti dei detenuti in Puglia?
Possiamo definire il 2012, il primo anno di intensa attività istituzionale dell’Ufficio del Garante, benchè la designazione fosse avvenuta con deliberazione del Consiglio regionale pugliese del luglio 2011, e successiva nomina con decreto del Presidente della Regione Puglia del settembre 2011.
Pertanto, nel 2013 e in questa prima metà del 2014 siamo in grado di riportare alcuni importanti riscontri derivanti dall’erogazione di un’attività sempre più organizzata, sul piano strutturale e sempre più dinamica sul piano dei contenuti.
Quali sono gli elementi che definirebbero l’efficacia dell’azione del Garante?
Sono determinati, da un lato dal rafforzamento delle relazioni istituzionali, a partire dall’eccellente livello di collaborazione intessuto con la dirigenza regionale dell’Amministrazione penitenziaria (fuori della retorica del “controllo ispettivo” sull’operato della Pubblica amministrazione), il che ha consentito che presso quasi tutti gli Istituti di pena regionali è stata consolidata una rete di prossimità che vede coinvolto il volontariato sociale penitenziario in un’attività di ascolto più intenso degli istanti, con la rilevazione di una quantità sempre crescente di notizie di competenza dell’attività del Garante (con un carico funzionale di quasi duecento fascicoli aperti).
Dall’altro dall’approfondimento della materia dell’accoglienza, per meglio dire della forma di detenzione amministrativa patita dai migranti nei Cie (Centro identificazione ed espulsione), ma anche delle restrizioni subite nei Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo), come abbiamo potuto ottenere grazie alla partecipazione ad una ricerca con l’Università degli Studi di Bari. Questa ricerca ci ha consentito un approfondimento nella cognizione di causa che presto ci accompagnerà meglio nell’affrontare questo tema così scottante e doloroso.
E’ chiaro che la tutela dei diritti dei migranti, in quanto persone sottoposte anch’esse a misure restrittive della libertà, non sembrerebbe una priorità nell’azione dei Garanti nel territorio nazionale.
In effetti, di fronte alla ormai strutturale emergenza carceri, non stiamo brillando per intraprendenza riguardo anche soltanto all’approfondimento dello studio di un sistema di accoglienza che va completamente ripensato. Tuttavia la Puglia sente il dovere di concentrare gli sforzi anche in questa direzione, considerata la caratteristica di regione frontaliera del sud Europa.
Torniamo al problema delle carceri. Qual è il suo parere sul nuovo pacchetto di riforme per ottenere risultati più tangibili e duraturi nel sistema penitenziario nazionale?
L’applicazione dell’istituto della messa alla prova parrebbe essere il segnale più concreto nel segno della deflazione degli ingressi, degli ultimi trent’anni. Insomma una riforma che incide sul diritto penale sostanziale e che, finalmente, sancisce la possibilità che, la risposta del carcere, dopo la commissione di un reato, in determinate circostanze può non essere l’unica.
La situazione in Puglia?
Sul territorio pugliese esistono undici Istituti di pena. Da nord a sud: San Severo, Lucera, Foggia, Trani maschile e femminile (si tratta di due edifici diversi ubicati in due diverse zone della città), Bari, Altamura, Turi (unico Istituto di reclusione, laddove in tutti gli altri casi si tratta di case circondariali), Brindisi, Taranto, Lecce.
In Puglia risultano astrette al 31 marzo 2013, 3.600 persone (laddove alla data del 31 dicembre 12, gli astretti erano 4.145) a fronte di una capienza regolamentare pari a 2.459 unità; di esse 210 sono donne e 777 sono cittadini stranieri.
Un dato in controtendenza?
In realtà la contrazione del sovraffollamento è un dato di dimensione nazionale e la Puglia non fa eccezione. Tuttavia se mi chiedesse notizie sulla percezione dei detenuti pugliesi, riguardo al sovraffollamento, le risponderei che i diretti interessati, se interpellati per esempio a Foggia, Trani e Bari, riferirebbero di non poter apprezzare i benefici di tale regolarizzazione, per via del fatto che in quegli Istituti sono in corso lavori di ristrutturazioni piuttosto impegnativi che comportano una concentrazione di presenze nelle sezioni che non sono interessate da tali interventi, con conseguente affollamento in tutte le celle, ancora tristemente attuale.
Il sovraffollamento avvilisce ogni speranza di offerta trattamentale?
Direi che molta parte del dibattito nazionale ha fatto chiarezza sulla circostanza che la tentazione nichilista dell’invocazione del sovraffollamento come elemento impedente, va combattuta in ogni modo.
Le iniziative negli Istituti pugliesi sono numerose e di ottima qualità. La cosiddetta vigilanza dinamica è partita un po’ ovunque e l’Ufficio del Garante sta facendo la sua parte.
Il lavoro resta una chimera irraggiungibile?
Anche su questo argomento occorre essere chiari e realisti. Non possiamo aspettarci che le opportunità lavorative registrino una impennata dentro, quando fuori del carcere scarseggiano o mancano del tutto. La Regione Puglia si è segnalata per particolare sensibilità nel portare formazione in carcere e lo farà ancora. Oggi, invece, stiamo registrando le prime interessanti esperienze di inserimento di beneficiari dell’art. 21 (così come recentemente novellato) dell’Ordinamento Penitenziario, per lo svolgimento di interventi di utilità collettiva.
E’ il caso della Provincia di Brindisi e dell’imminente partenza di analoghe esperienze (avendo concluso i rispettivi iter di convenzionamento tra le parti) coi comuni di Bari, Trani, Lucera e Conversano (quest’ultimo accogliendo detenuti della Casa di reclusione di Turi che dista pochi chilometri). In questi casi il sinallagma del raporto tra prestatori d’opera ed Enti che ne beneficiano non consiste nello scambio tra lavoro e remunerazione, ma tra lavoro utile alla collettività ed alla riabilitazione del condannato ed opportunità di trascorrere produttivamente delle ore fuori del carcere.
Aggiungo che per sfuggire a qualsiasi pregiudizio ed al rischio di altre situazioni di conflitto sociale, occorrerà coinvolgere i sindacati dei lavoratori in un percorso di condivisione culturale di queste iniziative.
Anche la cura della salute in carcere resta una questione spinosa?
Occorre stabilire, una volta per tutte, che non possiamo rimanere in ostaggio al luogo comune per il quale l’assistenza alla popolazione detenuta non può determinare particolari attenzioni da parte del Sistema sanitario nazionale, fino al punto di ingenerare forme di privilegio rispetto alla platea della comunità sociale.
Si tratta di un luogo comune poiché le persone limitate nella libertà, a maggior ragione se astrette, non possono scegliere di ricorrere a sistemi di cura alternativi a quelli che garantisce il sistema pubblico e, proprio perché sottoposti a rischi concreti di cronicizzazioni degli stati di morbilità o per essere soggetti a spesso continui trasferimenti, devono necessariamente contare sulla garanzia del raggiungimento in concreto della tutela del diritto fondamentale della salute.
Una sostanzialità che non può che sottendere attenzioni differenziate in ragione della particolarità della situazione complessiva di persone come quelle di cui trattiamo.
In conclusione?
Abbiamo appena iniziato. Dobbiamo aiutare la Regione Puglia e la sua comunità sociale a non dover più rinunciare ad un istituto come quello delle figure di garanzia dei diritti dei soggetti deboli. C’è molto da fare e si possono risolvere i problemi di parecchie persone che hanno diritto di essere punite in maniera adeguata e produttiva o che non hanno ragione di essere trattenuti come se fossero dei condannati, come nel caso dei migranti che subiscono la detenzione amministrativa.
Se potessi concludere con uno slogan riassuntivo: “condannati e non dannati i primi, accolti e non condannati i secondi”.
FOTO: Il professor Piero Rossi, Garante dei Diritti dei Detenuti della Puglia
|