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Maggio-Agosto/2014 - Interviste
Diritti
Intervista a Giovanni Tamburino
di Lorenzo Baldarelli

Già capo del Dap e magistrato di lungo corso, ci ha concesso
questa intervista poco prima di lasciare il Dipartimento
dell’Amministrazione penitenziaria.
I suoi sforzi per decongestionare le carceri, migliorarne
la vivibilità e umanizzare la pena, infatti, non sono bastati
per la sua riconferma


Qual è oggi la situazione delle carceri italiane e quali sono le ragioni sociali che rendono il sovraffollamento penitenziario una costante degli ultimi anni?
Il tasso di detenzione che indica il rapporto percentuale tra popolazione generale e popolazione carceraria, in Italia, non è particolarmente alto. Ed è inferiore alla media europea. La media italiana è di 100-105 detenuti ogni 100mila abitanti, quella europea è di circa 120. Evidentemente ci troviamo al disotto del tasso europeo. Se poi consideriamo quali sono le dimensioni della criminalità in Italia, in particolare nelle regioni del Sud, possiamo confermare che non vi è una presenza di detenuti particolarmente elevata.
Il limite del nostro sistema carcerario rimane il numero di posti disponibili nei nostri penitenziari. Su una presenza di 68mila detenuti, questo il limite in cui siamo arrivati nel 2010, le strutture penitenziarie consentivano di accoglierne poco più di 40mila. Questo è quello che si intende con il termine di sovraffollamento, e da questo punto di vista il nostro Paese è uno dei peggiori d’Europa. Lei mi chiede il perché di questa mancanza; ritengo che il problema carcerario sia stato lungamente trascurato. In realtà nel nostro Paese si è fatto ricorso spesso ad amnistie ed indulti, facendo scendere la febbre e non curando mai la malattia.
Mi permetto di aggiungere che contemporaneamente si facevano leggi che hanno aumentato il numero dei detenuti. Penso alle leggi Fini-Giovanardi sugli stupefacenti e alla Bossi-Fini sulla regolamentazione dell’immigrazione.
Sicuramente alcune norme sono state eccessivamente severe. Per quanto riguarda la legge sull’immigrazione bisogna ricordare che flussi migratori imponenti vedono l’Italia in una posizione particolarmente esposta. Ma è difficile pensare di rispondere esclusivamente con lo strumento penale. Oltretutto lo strumento carcerario è di per sé uno strumento rigido, non consente una modifica rapida della ricettività. Per costruire un carcere occorrono anni.
Comunque dal 2010 ad oggi la popolazione carceraria è scesa da 69 a 59mila detenuti. Inoltre abbiamo avuto un aumento di oltre 3mila posti grazie alla costruzione di nuove strutture. Dobbiamo però descrivere la situazione come irrisolta, anche se è migliorata.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato le condizioni dei detenuti una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante. Oltre alla creazione di tremila nuovi posti carcerari, ci sono stati altri interventi mirati a migliorare la situazione?
Sì, ci sono stati interventi sopratutto di carattere normativo che sono stati importanti e hanno dato dei risultati che definirei buoni o addirittura ottimi. Ad esempio la legge 199 del 2010 ha aperto uno spazio maggiore alla detenzione domiciliare. È stata applicata a migliaia di persone presenti nei carceri, complessivamente a oltre 12mila casi; e direi che i casi di fallimento di questa misura sono stati molto contenuti. Anche la eliminazione della legge n. 251 del 2005, la cosiddetta Cirielli, anche se l’autore l’ha pubblicamente sconfessata, ha migliorato la situazione. Per anni ha comportato una riduzione delle misure alternative, creando una preclusione assoluta rispetto alle pene alternative al carcere per chi avesse una recidiva reiterata.
La strada maestra deve comunque rimanere quella di non considerare più il carcere come l’unica pena e contemporaneamente ampliare le disponibilità per creare Istituti più moderni.

Dal suo insediamento alla guida dell’Amministrazione penitenziaria, lei ha sottolineato in più occasioni la necessità di umanizzare la pena. Quali determinazioni ha assunto al riguardo?
Sicuramente la situazione italiana è molto più complessa di quella di altri Paesi, penso al Nord Europa ma anche a nazioni a noi vicine come l’Austria, la Germania o la Svizzera. Ricordo come nelle carceri tedesche i detenuti lavoratori sono quasi l’80%. In Italia i numeri sono molto ridotti, nel nostro Paese però la disoccupazione non tocca solo i carcerati. Nonostante questa difficoltà abbiamo cercato e continuiamo a proporre delle soluzioni più avanzate. In particolare attraverso il ricorso a cooperative che offrono lavoro ai detenuti; riteniamo infatti che il lavoro sia una delle componenti più importanti per consentire la risocializzazione. Ma nei nostri Istituti sono presenti anche attività legate allo sport, alla gestione del tempo libero e allo studio. Pensiamo infatti che anche lo sport sia un fattore di apprendimento delle regole e di autocontrollo. Da due anni a questa parte, poi, abbiamo lanciato in tutto il sistema penitenziario una sorta di parola d’ordine: apertura delle sezioni. Ovviamente là dove si può, quindi se non siamo di fronte a detenuti pericolosi. Il progetto mira a far sviluppare al detenuto il controllo e il senso di responsabilità. Siamo convinti che la rieducazioni passi soprattutto attraverso una nuova abitudine alla responsabilità sociale.
Certamente è una strada complessa e difficile che si basa molto sulla scommessa sull’individuo. Una strada che però sta dando buoni risultati, abbiamo notato una riduzione degli episodi di aggressività o di autolesionismo. Gli operatori, poi, ci dicono che le condizioni di disciplina non sono sostanzialmente peggiorate.

Proprio su questo suo ultimo punto le vorrei chiedere come replica a chi, come il Sappe (il sindacato più rappresentativo dei poliziotti penitenziari), sostiene che al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti, debba associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa, nonché la previsione che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico?
Bisogna fare una distinzione molto chiara. Pensare di esonerare da responsabilità qualunque operatore del settore pubblico, ma direi anche di quello privato, è assurdo. Ciò che è corretto è che la responsabilità sia adeguata al tipo di attività che si chiede all’operatore. È chiaro che dobbiamo riformare l’intero apparato di sorveglianza, rimodulando le responsabilità ai nuovi doveri. Ma non dobbiamo dimenticare le priorità; voglio fare un esempio: oggi, il chirurgo, pur usando nuovi strumenti tecnologici, non è privo di responsabilità nei riguardi del paziente. Quindi pensare ad una deresponsabilizzazione sarebbe sbagliato e anche offensivo nei riguardi della professionalità degli operatori della Polizia Penitenziaria. Bisogna riconoscere modalità diverse di fare vigilanza che possono rendere accettabili determinate ricadute che in passato si ritenevano inaccettabili.
Voglio essere molto chiaro. Quando sono state introdotte le misure alternative, più di trent’anni fa, evidentemente ci sono stati dei casi di evasione; detenuti che non sono rientrati o dalla semilibertà o dal permesso. Ecco questo è un prezzo che però la società deve essere disposta a pagare, non in senso fatalistico, cercando di ridurlo il più possibile, ma senza pretendere di eliminarlo del tutto. Continuando con il parallelismo medico: un intervento sbagliato non ci deve indurre a bloccare i progressi della medicina, rischieremmo che le conseguenze siano peggiori del male.

Lavoro e impiego dei detenuti nel recupero del patrimonio ambientale. Qual è la situazione?
Vorrei ricordare alcuni casi, uno proprio a Roma. Ormai da alcuni anni un piccolo gruppo di detenuti svolge attività di pulizia nei parchi archeologici. Un lavoro che non si limita solo alla raccolta delle cartacce, ma è anche un momento di presenza comunitaria e sociale. Sempre a Roma durante i periodi di neve i detenuti hanno contribuito a mantenere pulite le strade. Il risultato di queste attività è stato molto apprezzato. Ho avuto l’occasione di parlare con l’assessore al decoro urbano e la sua soddisfazione è stata completa.
Un altro caso, questo è dei tempi in cui lavoravo a Padova, riguarda sempre un gruppo di detenuti che si dedica alla gestione e cura dei giardini Giotto. Anche lì il risultato è stato estremamente positivo. Più in generale stiamo moltiplicando queste iniziative; come all’idroscalo di Milano. Durante l’estate c’è una giornata in cui i detenuti escono, sono più o meno quindici, per fare pulizia della spiaggia e in fondo per ridare qualcosa al Comune e alla comunità più in generale.
Con queste attività anche i detenuti cominciano a vedersi come una risorsa invece che come uno scarto. Anche qui c’è però un lato negativo: i casi che ho citato sono rari e riguardano sempre piccoli gruppi e per pochi giorni o addirittura per poche ore.

Lei è anche il Capo della Polizia Penitenziaria. Un Corpo della Polizia dello Stato del quale però si parla poco, nonostante l’importante contributo sociale che offre. Perché, secondo lei? E cosa dovrebbe fare il Dap per potenziare la conoscenza e l’immagine dei Baschi Azzurri?
Ha ragione, il nostro Corpo non è sufficientemente conosciuto. Forse perché non ha quell’aura romantica che ha l’investigatore, ma comunque i nostri uomini e le nostre donne svolgono un lavoro difficile e prezioso. I Baschi Azzurri sono un Corpo di Polizia, che si trova a gestire situazioni umane difficilissime. Non possiamo trascurare questo fatto: il carcere è il luogo dove la società relega coloro che non riesce a integrare, ci sono persone che la famiglia e gli istituti scolastici non sono riusciti a indirizzare. Persone espulse o mai accettate dalle agenzie sociali e religiose. Persone che alla fine trovano nel carcere l’ultima spiaggia. I detenuti spesso hanno problemi di salute psichici e comunque si sentono vittime di ingiustizie e malamente vogliono rimanere in carcere. Ora avere a che fare tutti i giorni con tutto questo è estremamente complesso. Il nostro Corpo deve avere una specializzazione particolare, anche di carattere psicologico. Ma i nostri operatori hanno anche una grande forza d’animo.
Da parte nostra ci impegniamo a lavorare continuamente per far capire il ruolo e l’importanza di questo Corpo, e il compito che esso svolge per la società. Io come capo dei Baschi Azzurri cerco di farlo il più possibile, però mi rendo conto che c’è bisogno, da parte della società, di una maggiore sensibilità. Uno dei miei maggiori propositi è quello di far diventare il lavoro del poliziotto penitenziario più agevole, meno stressante e meno aspro. Credo che se noi investissimo in carceri più vivibili, avremmo anche un vantaggio sul benessere psicologico ed esistenziale del poliziotto.

Più di 30mila detenuti sono stranieri, anche se con la crisi economica sono diminuiti. Come possiamo migliorare la loro condizione nelle nostre carceri? Anche con una cronica scarsità di personale, come possono le strutture carcerarie risolvere la povertà materiale e affettiva dei detenuti migranti? Quali interventi, nella formazione degli operatori, sono stati attuati per risolvere i problemi linguistici e le tensioni tra le varie etnie?
In questi casi facciamo ricorso alla figura del mediatore culturale, figura che oggi scarseggia nei nostri Istituti penitenziari. In loro assenza è l’operatore a doversi creare da sé la propria esperienza. Tutto ciò dipende dalla situazione economica in cui viviamo, una situazione che ha visto ridursi sempre di più le risorse per il mondo carcerario, coinvolgendo soprattutto il lavoro, la scuola e gli operatori per la mediazione culturale e la psicologia.

Dalle tante testimonianze, articoli e servizi, è evidente che in tempi di ristrettezze economiche sono sempre le fasce più deboli a pagarne le conseguenze. Ci potrebbe fotografare la situazione delle donne detenute?
Per fortuna i numeri che riguardano il numero complessivo di detenute è molto ridotto, parliamo di poco più di 2mila seicento donne, tra straniere e italiane. Il numero di detenute madri con figli in Istituto, poi, è bassissimo, non supera le 50 unità, come i bambini sotto i tre anni costretti a vivere dentro una struttura penitenziaria.

FOTO. Giovanni Tamburino


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