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Marzo-Aprile/2014 - Articoli e Inchieste
Detenzione
Un altro carcere è possibile
di Donato Capece*

L’emergenza sovraffollamento e le tensioni che comporta
sono sotto gli occhi di tutti per cui servono strategie di intervento
concrete, rispetto alle quali il Sindacato Autonomo Polizia
Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo
dei Baschi Azzurri, intende fornire il proprio contributo

È sotto gli occhi di tutti come il conclamato collasso del sistema penitenziario renda inevitabile l’interrogativo, sempre quindi più incessante, se un altro carcere sia possibile, dal momento che quello attuale non è più in grado, o non è mai stato in grado, di concretizzare e far divenire effettivi i principi costituzionali ed ordinamentali della rieducazione per rispondere ormai esclusivamente ad una nefasta segregazione detentiva.
Per troppo tempo il carcere è stato luogo dell’oblio, della rimozione sociale, elemento quasi catartico di una società violenta e diseguale.
Il carcere sparisce anche dai nostri occhi: negli ultimi decenni l’architettura penitenziaria si è spostata verso le periferie urbane, quasi che le contraddizioni più complesse del nostro vivere sociale debbano essere allontanate anche dalla nostra vista, dai nostri pensieri, dalla nostra quotidianità, contraddicendo, invero, la centralità che i luoghi di pena avevano all’interno del tessuto urbano, si ponga mente a Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, Le Nuove a Torino, etc., quasi a testimoniare che l’espiazione della pena non comportava l’espulsione dal contesto civile e sociale, non c’era la contemporanea privazione della cittadinanza.
Oggi, tutto è cambiato: è sicuramente cambiata la composizione sociale della popolazione detenuta, si è profondamente modificato il contesto, anche culturale, sono cambiate le condizioni ambientali e strutturali dei luoghi di pena.
Il carcere è sempre più luogo dell’assenza. Assenza di taluni diritti, di prospettive, di senso. Uomini e donne ammassati in luoghi sempre più stretti e angusti, a fronte di una capienza complessiva delle carceri italiane di poco inferiore ai 40mila ce ne sono attualmente circa 63.000, gli stanziamenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria quasi del tutto assenti, il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e quello del Comparto ministeri in sotto organico di diverse migliaia di unità, i posti di lavoro all’interno sono ridotti ai minimi termini.
L’emergenza carcere e le tensioni che essa inevitabilmente determina è sotto gli occhi di tutti per cui servono strategie di intervento concrete, rispetto alle quali il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, intende fornire il proprio fattivo contributo.
Quel che a nostro avviso serve per affrontare e superare la costante situazione di criticità sono vere riforme strutturali sulla esecuzione della pena: riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rivelò un provvedimento palliativo e quindi inefficace.
Il sovraffollamento degli Istituti umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavoro.
I poliziotti e le poliziotte penitenziarie, ad esempio, intervengono quotidianamente per sventare tentativi di suicidio di detenuti, per impedire atti di autolesionismo che potrebbero degenerare ed avere ulteriori gravi conseguenze per fronteggiare giornalmente episodi di aggressione e di violenze.
Nel 2013, ad esempio, abbiamo contato nelle carceri italiane 6.902 atti di autolesionismo, 4.451 dei quali posti in essere da stranieri, e ben 1.067 tentati suicidi. 542 sono stati gli stranieri che hanno provato a togliersi la vita in cella e che sono stati salvati dalla Polizia Penitenziaria. E più stranieri che italiani si sono resi protagonisti di episodi di ferimenti (495 sui complessivi 921 eventi) e di colluttazione (2.145 su 3.803). Sulle morti in carcere, invece, il dato si inverte: più italiani. Dei 42 suicidi accertati nelle celle lo scorso anno, 22 erano italiani e 20 stranieri ed anche sui decessi per cause naturali, 111 complessivamente, gli erano erano la maggioranza, 87. Trasversale invece la composizione del numero complessivo di detenuti che hanno dato vita, nel 2013, a ben 768 manifestazioni contro il sovraffollamento carcerario e a favore di indulto e amnistia: hanno aderito a queste proteste complessivamente 85.066 ristretti. Tensione sempre alta, dunque.
Anche per questo il Sappe ha fatto propria l’impietosa osservazione di qualche tempo fa del Capo dello Stato, sempre molto sensibile alle criticità penitenziarie, sottolineando l’imbarbarimento delle nostre carceri, che evidenziano un peso gravemente negativo di oscillanti ed incerte scelte politiche e legislative, con un crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione della carcerazione preventiva.
Ad avviso del Sappe, si dovrebbe:
- potenziare maggiormente il ricorso alle misure alternative alla detenzione;
- introdurre il lavoro durante la detenzione (oggi si sta in cella 20 ore al giorno, alimentando tensioni ed esasperazioni a tutto danno della sicurezza), con il duplice obiettivo di imparare un mestiere che potrebbe essere utile successivamente per uscire da un percorso di illegalità e di farsi carico di una parte dei costi a cui oggi fa prevalentemente fronte lo Stato. Un modello europeo che potrebbe essere seguito in Italia è senz’altro quello tedesco, dove lavora l’80% dei detenuti, i quali guadagnano quasi due euro all’ora e pagano le spese di mantenimento, tanto che le carceri sono delle vere e proprie aziende i cui dirigenti, provenienti dalla carriera dei magistrati sono dei manager che vengono valutati per gli obiettivi raggiunti: recupero sociale del condannato e bilancio attivo del carcere;
- espellere i detenuti stranieri per far scontare la pena nei Paesi di provenienza, almeno per quelle etnie più numerose (Albanese, Marocchini, Rumeni, Tunisini, Nigeriani, Algerini);
- riorganizzare gli Istituti in modo da creare almeno tre livelli in ambito regionale: massima sicurezza, media sicurezza e custodia attenuata, e permettere ai tantissimi tossicodipendenti (più del 20% dei ristretti) di espiare la pena nelle comunità di recupero dopo essere passati attraverso la custodia attenuata ed avere avviato un concreto e serie programma di recupero.
Non crediamo che l’amnistia, da sola, possa essere il provvedimento in grado di porre soluzione alla criticità del settore: crediamo che sia davvero giunta l’ora che la classe politica intervenga con urgenza per deflazionare il sistema carcere, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere.
Altro che vigilanza dinamica delle e nelle carceri! Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza
Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, anche per le palesi ed evidenti incapacità di un’Amministrazione penitenziaria sempre più distante dalle reali problematiche delle sue donne e dei sui uomini in divisa, che pensa di stemperare le tensioni solamente mediante fumosi e fantomatici patti di responsabilità con i detenuti.
L’Amministrazione penitenziaria deve essere rifondata istituendo la non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Coro di Polizia Penitenziaria con l’istituzione della Direzione Generale del Corpo, indispensabile per raggruppare tutte le attività e i servizi demandati alla quarta forza di polizia del Paese; si riprendano dai cassetti in cui sono stati inspiegabilmente riposti i decreti interministeriali finalizzati a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della Polizia Penitenziaria all’interno degli uffici di esecuzione penale esterna nel contesto di un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, con l’utilizzo del braccialetto elettronico.
Efficienza delle misure esterne e garanzie della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica non vengono attualmente viste come vere proprie pene.
Chi rompe il patto sociale e viola le regole della convivenza deve, ovviamente, assumere le conseguenti responsabilità. Ma la pena deve avere un senso e il sovraccarico di sofferenza ed umiliazione, non scritto in sentenza, non aiuta a ritrovare questo senso, la scomposizione e la parcellizzazione della vita emozionale ed affettiva di un uomo o di una donna non consentono la costruzione di una nuova identità su cui investire in un progetto di cambiamento possibile.
Se, come diceva Voltaire, la democrazia e la qualità di un Paese si valutano dal grado di civiltà delle sue istituzioni totali, vuol dire che la tenuta democratica delle nostre istituzioni è fortemente a rischio; se nel nostro immaginario si affaccia l’idea che possano esistere luoghi con diritti soggettivi attenuati o ridotti, ci si comincia ad affacciare in un tunnel pericoloso e preoccupante. Se lo stesso Presidente della Repubblica ha più volte pubblicamente denunciato questa condizione vuol dire che si avverte il pericolo di un rischio imminente.
Ripristinare le condizioni di diritto, di umanità e di dignità nelle nostre carceri è la premessa fondamentale per una riflessione ed una elaborazione profonda sul senso della pena: questo è il lavoro che, faticosamente, ma tenacemente il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, il primo e più rappresentativo del Corpo, si prefigge di realizzare.
Si tratta, in effetti, di cogliere e realizzare lo spirito di civiltà e di progresso, che è nel quadro normativo attuale, di dar vita insomma ad un radicale rinnovamento, ad una profonda trasformazione e rivoluzione sul piano culturale: se limitazione della libertà significa rispetto della dignità umana allora un altro carcere deve essere possibile.
Consegnare definitivamente al passato la vecchia Amministrazione e fare nascere la nuova, guardando all’avvenire, vuol dire soprattutto cancellare la vecchia cultura penitenziaria con una cultura nuova, del tutto diversa, sostituire cioè alla cultura della incomunicabilità, del conflitto non componibile, la cultura del dialogo, della comunicazione, della ragione che prevale sulla forza, del rispetto fra tutti, attraverso il quale, pur nella tutela della sicurezza e nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità, i primi offrono ai secondi una concreta possibilità di ritornare nella società.
Ma rinnovamento culturale significa rinnovamento delle coscienze, della mentalità, del modo di gestire le proprie responsabilità.
Tale processo di costruzione del nuovo è così complesso che richiede l’impegno la collaborazione e il contributo di tutti coloro che lavorano nell’Amministrazione o comunque per l’Amministrazione.
La nuova cultura, la nuova gestione, devono esprimere un’Amministrazione efficiente e funzionale, capace di programmare e di progettare e di sottrarsi all’improvvisazione, alla quotidianità varia ed imprevedibile di decisioni e di iniziative dettate dall’impulso del momento e dalla contingente disposizione di chi li assume.
Tutto ciò nella consapevolezza che l’Amministrazione non si occupa di “pratiche” e di “fascicoli” ma si occupa invece di uomini e donne e dei loro problemi, si occupa degli operatori penitenziari da un parte e dei detenuti e degli internati dall’altra, e si occupa, per gli uni e per gli, dei loro bisogni, delle loro esigenze che spesso sono disagi, tensioni, dolori e sofferenze, anche molto grandi e capaci di incidere sensibilmente sulla vita delle persone e delle relative famiglie.
I problemi umani impongono, dunque, in maniera categorica e sollecita, la soluzione più adeguata o quanto meno una risposta ricca di attenzione, di sensibilità e di partecipazione.
Il piano straordinario penitenziario, fondato sui tre pilastri, dell’aumento della capienza delle strutture penitenziarie, dell’incremento della dotazione del personale del Corpo e dell’estensione delle misure alternative alla detenzione per effetto della entrata in vigore delle Legge 199/2010 (c.d. sfolla carceri Alfano) si è rivelato nei fatti insoddisfacente, in quanto il settore dell’edilizia penitenziaria si è impantanato nelle lungaggini costruttive, nelle intrigate e defatiganti procedure burocratiche e talvolta in appalti pilotati; l’incremento delle dotazioni organiche ha dovuto fare i conti con l’insormontabile spending review che ha condizionato e limitato il turn over annuale, determinando ulteriori carenze organiche, mentre l’estensione delle misure alternative non ha dato i risultati sperati, tanto da richiedere ravvicinati e successivi interventi normativi, anche e soprattutto per effetto della sentenza della Corte di Strasburgo dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani ed altri contro Italia).
Si potrebbe ragionare sull’esperienza tedesca dove non esiste la giurisdizionalizzazione delle esecuzione penale, quindi non c’è la magistratura di sorveglianza ma le decisioni riguardanti le misure alternative e i benefici in generale per i detenuti vengono assunte dalla stessa Amministrazione penitenziaria locale: il dirigente e i suoi collaboratori.
In Germania la recidiva è al di sotto del 20%, in Italia supera il 60%.
Mi sembra davvero emblematica e pertinente una frase di Nelson Mandela, recentemente scomparso, emblema della lotta all’apartheid, che meglio di ogni altra considerazione esprime l’idea che un altro carcere possa e debba essere possibile:
“Si dice che non si conosce veramente una nazione se non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata non da come tratta i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili”
*Segretario Generale Sappe
Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria


FOTO: Donato Capece

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