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Marzo-Aprile/2014 - Articoli e Inchieste
Detenzione
Le case di lavoro
di Desi Bruno*

Questa misura di sicurezza ha come obbligo
il lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento
sociale, ma, nella realtà, mancano progetti
di lavoro effettivo e remunerato


Sono tre le case di lavoro attualmente presenti in Italia: una a Vasto, una Favignana e la terza a Castelfranco Emilia, nel modenese. Castelfranco Emilia è tecnicamente una casa di reclusione con annessa casa di lavoro, ma attualmente ospita circa un centinaio di persone in regime di internamento, mentre quelle detenute si contano sulle dita di una mano.
Nelle case di lavoro sono internate quelle persone che hanno commesso reati (la quasi totalità degli internati ha già scontato la pena detentiva) a cui il magistrato ha applicato questa ulteriore misura di sicurezza perché considerate socialmente pericolose. Questa misura di sicurezza ha come obbligo il lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento sociale, ma, nella realtà, mancano progetti di lavoro effettivo e remunerato, così l’internamento in queste strutture penitenziarie risulta spesso essere a tutti gli effetti senza un termine certo, potendo essere prorogate fino a che il giudice di sorveglianza non ritenga cessata la pericolosità sociale.
A questo proposito si può parlare di “ergastolo bianco”, proprio perché l’internamento/detenzione in queste strutture può diventare a tempo indeterminato: di qui nasce la protesta dei detenuti che sostengono di preferire un raddoppio della pena in carcere, piuttosto che essere destinati alla casa di lavoro.
Il problema più rilevante riguarda la scarsissima possibilità di lavorare, nonostante il fatto che proprio il lavoro dovrebbe rappresentare il contenuto caratterizzante di questa misura di sicurezza. Gli internati svolgono attività lavorativa a turno, solo per periodi limitati e con retribuzioni bassissime.
Gli internati sono per lo più persone senza riferimenti sociali, abitativi, di lavoro e spesso hanno perduto anche i legami familiari dopo una vita trascorsa in carcere. E questo è ancora più vero se si tratta di stranieri, spesso privi di documenti, e sforniti di una rete di relazioni che possa supportarli all’esterno, il che crea difficoltà ancora più evidenti di reinserimento sociale. Si tratta per lo più di persone in condizione di fortissimo disagio sociale, molte di loro hanno problemi psichiatrici, alcune delle quali con doppia diagnosi.
Tale misura di sicurezza è stata prevista dal Codice Rocco ed è un fatto che non stia più funzionando, perché non assicura un lavoro, né il reinserimento sociale attraverso specifici progetti che non si riescono a realizzare.
Risulta difficilissimo l’inserimento di persone raramente residenti sul territorio per cui sarebbe opportuno che le persone internate venissero collocate in istituti penitenziari, tenendo conto del principio di territorialità, avvicinando così gli internati ai luoghi di provenienza, di ultima residenza e dove hanno mantenuto una qualche forma di legame, anche familiare.
La situazione risulta essere complessa anche per la magistratura di sorveglianza, talvolta “costretta” alla proroga della misura di sicurezza, risultando difficile reperire e porre in essere progetti orientati al reinserimento nella società di queste persone. Gli internati, in esecuzione della misura di sicurezza della casa di lavoro in forza di un giudizio di pericolosità sociale operato dalla magistratura di sorveglianza, al fine del reinserimento nella società necessiterebbero di progettazione con il lavoro che dovrebbe stare al centro del percorso trattamentale.
Ma il lavoro non c’è, se non alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, comunque non è sufficiente per chi è in condizioni di lavorare e lo richiede con forza. Così senza lavoro non restano praticamente possibilità di fornire alla magistratura di sorveglianza elementi idonei per esprimere un giudizio di cessata pericolosità sociale, provvedendo conseguentemente alla revoca della misura di sicurezza. In questo contesto, anche a fronte di una regolare condotta serbata durante il periodo di internamento, la misura verrà prorogata, in un kafkiano circolo vizioso.
Con riferimento agli internati stranieri, se una rete di riferimento all’esterno è una delle condizioni necessarie per il giudizio di cessata pericolosità sociale da parte della magistratura di sorveglianza, è necessario che le autorità competenti considerino anche i casi, che purtroppo spesso si incontrano nei Centri di Identificazione ed Espulsione, di chi non è riconosciuto dal Paese di provenienza e per cui è dunque impossibile ogni forma di regolarizzazione.
La considerazione, quindi, tanto realistica quanto amara è che gran parte di questi internati presenta le caratteristiche della cosiddetta detenzione sociale, si tratti di poveri, emarginati, alcool o tossicodipendenti, portatori di disagio psichico: moltissimi di loro sono cresciuti in una subcultura criminale ed hanno avuto accesso al circuito penitenziario anche perché svantaggiati nell’accesso alla disponibilità di risorse sociali e lavorative. Così l’applicazione della misura di sicurezza detentiva diviene la risultante di condizioni di fortissimo disagio sociale.
Alcuni di questi internati hanno anche età anagrafiche particolarmente elevate rispetto alle quali sarebbe talvolta opportuno iniziare a ragionare nei termini di una fisiologica cessata pericolosità sociale per raggiunti limiti di età, con conseguente revoca della misura detentiva. Occorre, altresì, registrare, che talvolta i percorsi trattamentali di alcuni internati non vanno a buon fine per oggettiva mancanza di collaborazione da parte degli stessi, che non sempre riescono a rispettare le prescrizioni imposte nei percorsi all’esterno, anche in ragione di condizioni personali particolarmente critiche.
Concludendo, in attesa di auspicate riforme legislative (in tal senso già nel 2010 è stato presentato alle Camere un disegno di legge di iniziativa dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna per abrogare le norme del Codice penale che prevedono l’assegnazione alla casa di lavoro o alla colonia agricola, e nello stesso senso si erano anche orientati i progetti di riforma del codice penale Grosso, Nordio e Pisapia), è necessario che venga valutata l’opportunità di territorializzare le misure di sicurezza detentive, agevolando, laddove possibile e utile, il rientro e l’avvicinamento ai luoghi di residenza o comunque di frequentazione abituale, favorendo la presa in carico da parte dei servizi anche attraverso la quale possono darsi elementi concreti alla magistratura di sorveglianza per fondare un giudizio di cessata pericolosità sociale. Percorso peraltro già individuato con riferimento alla misura di sicurezza detentiva per non imputabili dell’ospedale psichiatrico giudiziario.
A questo fine, potrebbero essere utilizzati appositi spazi degli istituti penitenziari esistenti, soluzione consentita dall’ordinamento penitenziario. L’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, in questo senso, ha posto a più riprese la questione della territorializzazione delle misure di sicurezza detentive all’attenzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, restando ancora senza risposta.
*Garante delle persone private della libertà Regione Emilia Romagna

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