home | noi | pubblicita | abbonamenti | rubriche | mailing list | archivio | link utili | lavora con noi | contatti

Giovedí, 22/10/2020 - 15:19

 
Menu
home
noi
video
pubblicita
abbonamenti
rubriche
mailing list
archivio
link utili
lavora con noi
contatti
Accesso Utente
Login Password
LOGIN>>

REGISTRATI!

Visualizza tutti i commenti   Scrivi il tuo commento   Invia articolo ad un amico   Stampa questo articolo
<<precedente indice successivo>>
Marzo-Aprile/2014 - Articoli e Inchieste
Dossier
Ilaria Alpi
di Giovanni Lucifora

L'ordine di uccidere sarebbe arrivato dall'Italia.
A vent'anni di distanza, si cerca ancora la verità sulla morte
della giornalista Rai e del collega Miran Hrovatin


È arrivato il momento di conoscere la verità sul caso Alpi. Il governo ha tolto il segreto di Stato sulla duplice esecuzione di Mogadiscio.
Gianni Minà: “l’ordine di uccidere Ilaria e Miran Hrovatin partì dall’Italia”. Per la mamma della giornalista del Tg3: “i bagagli arrivarono a Ciampino manomessi”.
L’avvocato D’Amati: “bene la desecretazione ma attendiamo la risposta dei servizi segreti italiani”.
C’è una storia che porta lontano, su un’autostrada, una via misteriosa e forse maledetta. Una striscia d’asfalto in mezzo al nulla. Si trova in Somalia, è lunga 750 chilometri e collega, tra le altre, Garoe al porto di Bosaso nel nord est del Paese per 450 chilometri. E’ stata costruita negli anni Ottanta con soldi e personale italiano. E c’è una flotta di navi donate anche queste dalla cooperazione italiana. Siamo nel marzo del 1994, il 20, e da un’altra parte del mondo, a Roma, c’è un concerto organizzato dalla sinistra giovanile. A presentarlo è Gianni Minà.
A legare piazza San Giovanni a quella lunga striscia d’asfalto nel nulla somalo è una notizia che irrompe all’improvviso: a Mogadiscio sono stati uccisi due giornalisti italiani. Minà comprende subito la gravità della notizia e chiede a Piero Pelù di andare insieme sul palco e dare la notizia ai giovani in festa.
“Per dieci secondi, che sembrarono un’eternità – dice il giornalista torinese scandendo con cura le parole – in piazza scese un silenzio assoluto, poi partì un applauso, prima timido poi sempre più grande. Pronunciavo il nome della giornalista e i ragazzi lo ripetevano: Ilaria, Ilaria…” Gianni Minà ricorda ancora quel 20 marzo, ‘il più crudele dei giorni’ (cit. Ferdinando Vicentini), un caso di estrema brutalità. “Un’esecuzione” la definisce e ancora oggi, a distanza di 20 anni, pubblica articoli e scrive libri abbracciando la causa di “mamma Luciana” che da quel maledetto giorno, assieme a Giorgio, l’inesauribile papà di Ilaria, morto nel 2010, non ha mai smesso di cercare la verità.
Sul libro ‘carte false’ di Roberta Scardova, Minà nella prefazione scrive che è dall’Italia che partì l’ordine di uccidere Ilaria e Miran.
“L’Italia ‘craxiana’ – spiega - aveva concesso al dittatore somalo Siad Barre delle navi per il traffico del pesce allo scopo di aiutare un Paese che ora è più in tragedia di allora, un Paese senza governo… Quelle navi erano diventate il contenitore di traffici di armi e rifiuti tossici e la centrale era in Italia da dove partivano i ‘famosi’ aiuti ai paesi del terzo mondo”, sottolinea ironico.
“Ilaria era andata molto vicino alla verità. Aveva intervistato il sultano di Bosaso (che poi il sultano era il fratello), Abdullahi Bogor Muse. Lui sapeva molto di questa storia ed è sempre più chiaro che qualcuno dall’Italia ordinò di eliminarla”.
Ecco appunto, in che modo furono uccisi Ilaria Alpi e il suo video operatore Miran Hrovatin?
“Fu un’esecuzione anche se all’inizio si parlò di un assalto. In realtà Ilaria ebbe un colpo alla nuca come Miran, quindi fu una vera e propria esecuzione”.
Dello stesso parere è ‘mamma Luciana’ che spiega: “Ci sono due versioni. Una che addirittura sostiene che la macchina sulla quale c’erano Ilaria, Miran, l’autista e la guardia del corpo sia stata seguita dall’hotel Sahafi che era a sud di Mogadiscio; altri testimoni invece affermano che alcuni uomini la stavano aspettando davanti all’hotel Amana che si trova a nord di Mogadiscio dove Ilaria era diretta. Qui alcune donne hanno servito del tè a queste persone che all’improvviso hanno gettato le tazze, hanno seguito Ilaria per una trentina di metri poi hanno iniziato a sparare”.
Nell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono molte zone oscure sulle quali la tenacia dei genitori, la caparbietà di alcuni giornalisti come Gianni Minà, e l’esperienza dell’avvocato Domenico D’Amati hanno reso più chiare, quasi limpide. Proprio grazie a Gianni Minà, per esempio, si arrivò a un video fondamentale per le indagini.
“Nel mondo moderno c’è sempre qualcuno che filma se sei dentro a un evento – racconta Minà - Io mi rivolsi a colleghi internazionali per sapere se avessero immagini delle esecuzione e la tv di Stato svizzera ci informò che un suo operatore arrivò immediatamente sul posto. Vedemmo le immagini e fu agghiacciante. Si vedeva un italiano, un incaricato d’affari, Giancarlo Marocchino, che poi abbiamo scoperto collaborare con i servizi segreti italiani, caricare i corpi su una jeep e la cosa agghiacciante era che si vedeva del sangue uscire dal naso di Ilaria. Questo voleva dire che era ancora viva, anche se non avrebbe mai più recuperato la sua vita. Il padre di Ilaria era medico e confermò: se esce sangue il cuore pulsa ancora”. Dopo un attimo di pausa Minà riprende il racconto: “Marocchino li caricò sulla sua auto e si vedeva che parlava al telefono, forse con la nave Garibaldi perché diceva: ‘questi bastardi non vengono, hanno paura’. E li portò lui. Allora mi chiedo: a che titolo arrivò per primo sul posto e li portò sulla nave italiana? Io non lo so ma spero che qualcuno sia riuscito a chiederglielo”.
Sull’attuale posizione giudiziaria di Giancarlo Marocchino gli investigatori fino ad oggi non avrebbero riscontrato nulla, come conferma l’avvocato Domenico D’Amati: “Non ci sono indagini a suo carico e non ce ne sono mai state quindi non è mai stato iscritto sul registro degli indagati ma nel suo interesse sarebbe stato meglio svolgere un’indagine per dargli modo di difendersi e dimostrare la sua estraneità nella vicenda. In questo modo invece, lasciandolo in una sorta di limbo, sono rimasti i dubbi che avrebbe invece potuto chiarire”.
Alcune settimane fa il governo ha desecretato i documenti del caso Alpi-Hrovatin. La notizia è stata accolta con favore da tutti (o quasi) e ovviamente anche l’avvocato D’Amati si è espresso favorevolmente per questa decisione partita da un’iniziativa del presidente della Camera Laura Boldrini. D’Amati ora si augura che ci sia il consenso anche per gli incartamenti riservati dei servizi segreti ai quali spetta l’ultima parola. E questa è la notizia più attuale; torniamo adesso al 1994 ma non al 20 marzo a Mogadiscio bensì al 17 quando Ilaria intervista Bogor (il ‘sultano’) a Bosaso.
L’intervista dura più di due ore ma in Italia arriva solo una quindicina di minuti. Nelle immagini riprese da Miran, la giornalista pressa il suo interlocutore sul sequestro di una nave. Bogor parla fluidamente italiano ma a certe domande non risponde o tenta di sviare. Ilaria allora chiede informazioni su un certo Munye (Said Omar Munye: nel mirino dei servizi segreti almeno dal 1985. Direttore della compagnia di pesca italo-somala Shifco con sede a Gaeta alla quale il governo italiano aveva donato le navi). Secondo Bogor le navi erano utilizzate per molteplici scopi tra l’Italia e la Somalia. Bogor confermerà le sue parole davanti alla Commissione parlamentare istituita per fare chiarezza sul caso Alpi: “Tutti sapevano dei traffici illeciti… del trasporto di armi… ma chi parlava veniva ucciso o spariva”.
La nave in questione è la Faarax Omar, lo stesso nome di un peschereccio della flotta italiana donato alla Somalia. Ilaria vuole sapere dove si trova e se può raggiungerlo. Domande e richieste scomode. Bogor ride, ancora non sa che sarà ascoltato dagli inquirenti e dalla commissione parlamentare presieduta dall’allora onorevole Carlo Taormina, ma questa è un’altra storia.
Dell’intervista, in Italia arrivano pochi minuti. Secondo alcuni approfondimenti infatti il nastro sarebbe stato manomesso, mancherebbe quasi tutta la ripresa ad eccezione di alcune parti. Tagli effettuati da professionisti in luoghi attrezzati. Misteri e ombre sin dall’inizio dice Minà puntando l’attenzione su un episodio per lui chiave che dimostrerebbe il coinvolgimento di apparati istituzionali italiani nella vicenda.
“Questa è la storia più immonda: un aereo trasportò le salme dalla Somalia all’Egitto e a Luxor cambiarono aereo. Qui, per un caso della vita, un video operatore riprese i bagagli che ‘salivano’ sull’aereo dell’aeronautica militare italiana. Erano sigillati con una corda e con la ceralacca quindi erano stati chiusi. Quando l’aereo atterrò a Ciampino, ad attendere le bare c’erano i genitori di Ilaria e ‘cuore di mamma’, Luciana, che aveva visto il filmato girato all’aeroporto di Luxor notò che i bagagli non avevano più la corda né la ceralacca. Qualcuno andando contro la legge si era arrogato il diritto di aprirli in volo.
Quello che lascia senza fiato è che su quell’aereo c’erano funzionari dei servizi segreti italiani, del corpo di spedizione in Somalia, dell’Aeronautica militare, della Rai e del ministero degli Esteri. Una di queste cinque entità aveva avuto l’ardire di aprire i bagagli di Ilaria e Miran, cosa che avrebbe potuto fare solo un giudice istruttore”.
Questa per Minà è la prova che attribuirebbe un ruolo determinante ad alcuni apparati italiani sull’intera vicenda. “Chi doveva nascondere qualcosa? – si chiede il giornalista - e cosa cercavano quelli che hanno aperto i bagagli? E se qualcuno ha visto qualcosa perché non ha mai denunciato colui che ha violato la legge? E’ chiaro – ribadisce Minà - che le esecuzioni di Ilaria e Miran furono ordinate dall’Italia”.
Dopo alcuni mesi arrivò in Italia anche l’auto sulla quale erano stati uccisi Ilaria e Miran. “Io e mio marito – ricorda mamma Luciana – ci rifiutammo di visionarla ma dopo un po’ di tempo ci dissero che su quella Toyota erano state trovate delle tracce di sangue che appartenevano a un uomo e a una donna. A quel punto abbiamo chiesto di essere sottoposti all’esame del Dna per verificare se il sangue fosse di Ilaria. Non ricevemmo alcuna risposta, allora scrivemmo alla Procura di Roma per ordinare l’esame del Dna ma anche la Procura non ci rispose, addirittura dopo alcuni giorni arrivò la richiesta di archiviazione definitiva dell’inchiesta. Noi ci siamo subito opposti e il Gip, persona eccezionale che ringrazierò sempre, il giudice Emanuele Cersosimo, sospese la richiesta di archiviazione chiedendo invece al pubblico ministero di approfondire 26 punti relativi alle indagini e ‘obbligandolo’ inoltre a sottoporci all’esame del Dna. E’ risultato che quel sangue non era di Ilaria”.
Non è un caso che sulla copertina del libro ‘carte false’ di Roberto Scardova al quale ha collaborato Gianni Minà, ci sia disegnata proprio una jeep. Non solo. Tra gli oggetti mancanti c’è la macchina fotografica di Ilaria, una ventina di videocassette, documenti medici, l’elenco oggetti personali stilato sulla nave Garibaldi e alcuni taccuini. Su uno dei block notes arrivati in Italia c’era scritto ‘che fine ha fatto quella montagna di soldi?’ riferendosi ai 1.400 miliardi della cooperazione che il nostro Paese aveva dato alla Somalia, un Paese distrutto in mano ai “potenti di turno” come disse un appartenente alla struttura paramilitare Gladio che in una puntata di Report ammise che la Somalia faceva parte dei Paesi del corno d’Africa “dove si realizzavano i peggiori traffici”. Che fine hanno fatto i 1.400 miliardi della cooperazione italiana in Somalia? Si chiedeva Ilaria.
Tanti misteri e zone d’ombra dunque sull’asse italo-somala negli anni ottanta e novanta e Ilaria probabilmente aveva colto nel segno. Bagagli manomessi, interviste scomparse e sostituzioni di auto, non sono coincidenze ma messaggi chiari. Ilaria e Miran dovevano morire perché di certi affari nessuno ne doveva parlare, soprattutto i giornalisti, quelli che invece oggi continuano a parlarne grazie all’eredità lasciata proprio da Ilaria e Miran. E le domande sono sempre le stesse: avevano scoperto traffici di armi e rifiuti tossici in terra somala? Il tutto avveniva attraverso le navi italiane? Questo stava scoprendo Ilaria? Che sotto un’autostrada sorgeva la pattumiera dell’Italia? L’autostrada Garoe-Bosaso, quella costruita con soldi italiani per aiutare un popolo martoriato. Forti sospetti indicano in quel punto del mondo, una sorta di terra di nessuno, una discarica di scorie nucleari italiane. Sotto quell’autostrada costruita per arrivare al porto di Bosaso ci sarebbe un’immensa pattumiera altamente tossica.
Raccontare tutto questo, nel 1994, era pericoloso, forse mortale, per questo la morte di Ilaria e Miran colpì la coscienza degli italiani. Un fatto talmente grave che non poteva rimanere impunito, allora bisognava dare qualcuno in pasto alla gente. Era necessario. Così fu arrestato e condannato Hashi Omar Hassan, identificato dall’autista di Ilaria Alpi.
“Hanno messo in carcere un ragazzo somalo entrato in Italia per ricevere i risarcimenti sulle violenze subite dai soldati italiani – chiarisce Luciana - e invece lo hanno attirato con un tranello e accusato di far parte del commando che aveva ucciso Ilaria e Miran.” Anche per l’avvocato D’Amati: “si ha la sensazione che sia stato incastrato con false testimonianze”. Nel 2002 infatti uno dei suoi accusatori, Ahmed Ali Rage (detto ‘Gelle’), ha spiegato a un giornalista somalo di aver mentito in cambio di soldi e di un visto per l’Italia. ‘Gelle’ è tutt’ora ricercato dalla Polizia italiana ma non è introvabile se risultasse veritiera la notizia che alcuni giornalisti lo avrebbero trovato in Gran Bretagna, a Birmingham… ma anche questa è un’altra storia.
Torniamo in Somalia. L’avvocato D’Amati ci rivela un particolare di una certa importanza: “Mai nessun inquirente è andato in Somalia a svolgere un’indagine approfondita - sostiene il legale della famiglia Alpi - e all’epoca era possibile in quanto sul territorio c’erano forze internazionali e i rapporti diplomatici erano aperti, cosa che poi non fu più possibile a causa della situazione ingovernabile. La Polizia somala fece degli approfondimenti che portarono a qualche risultato. Questa pista però non fu mai seguita.
Adesso il capo della Polizia somala che inviò il rapporto è morto però si potrebbe contattare il suo aiutante che dovrebbe trovarsi in Inghilterra e approfondire quell’indagine. Aldilà di questo c’è comunque da dire che anche altre piste non hanno avuto mai un seguito”. Sospetti e ombre che fanno parte della nostra storia occulta. “E’ una delle tante realtà che non hanno voluto che il popolo italiano conoscesse e qualcuno tenta ancora di coprire - amara considerazione quella di Gianni Minà che rincara la dose - Il nostro è un Paese dove ci sono settori che continuano ad allontanare le verità dalla conoscenza degli italiani…”
Oggi però le speranze si riaprono. Il governo ha tolto il segreto di Stato sui documenti secretati e forse si potrà finalmente dare una risposta alle due tesi contrapposte: fu un tentativo di rapimento di giornalisti occidentali finito in tragedia o un’esecuzione per eliminare testimoni scomodi? Ma soprattutto. Chi è coinvolto in questa storia?
_________________
Gianni Minà

È il più ‘sudamericano’ dei giornalisti italiani. Un torinese doc con tanta esperienza. Gianni Minà ha seguito otto mondiali di boxe raccontando così il suo sport prediletto ovvero il pugilato, quello storico di Muhammad Ali Cassius Clay, che definisce “lo sportivo più importante del secolo scorso. Ha seguito anche sette olimpiadi e si è occupato di musica, l’altra sua grande passione: il jazz.
Viene assunto alla Rai negli anni settanta, indimenticabili i reportage dall’America Latina e la storica intervista di sedici ore a Fidel Castro nel 1987. In precedenza era stato premiato dal capo dello stato Sandro Pertini come miglior giornalista dell’anno, era il 1981, lo stesso anno dell’esordio come autore televisivo con il programma Blitz su Rai2. Ha collaborato con le principali testate giornalistiche come la Repubblica e il Corriere della Sera. Nel campo della carta stampata, nel 1959, agli esordi, fu direttore di Tuttosport.
Adesso si occupa della rivista letteraria Latinoamerica che tratta di geopolitica. Amico di molti sportivi famosi, il rapporto con Diego Armando Maradona lo ha portato a pubblicare dieci Dvd dal titolo: ‘Maradona, non sarò mai un uomo comune. La storia del mito del calcio argentino’ vendendo oltre un milione di copie.
La drammatica vicenda di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ha fatto avvicinare Gianni Minà ai genitori della giornalista uccisa in Somalia, un legame ancora stretto oggi con mamma Luciana alla ricerca della verità e non di una verità. Ha scritto la prefazione del libro ‘Carte false’ sostenendo che “l’ordine di uccidere Ilaria e Miran partì dall’Italia”.

<<precedente indice successivo>>
 
<< indietro

Ricerca articoli
search..>>
VAI>>
 
COLLABORATORI
 
 
SIULP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
SILP
 
 
Cittadino Lex
 
Scrivi il tuo libro: Noi ti pubblichiamo!
 
 
 
 
 

 

 

 

Sito ottimizzato per browser Internet Explorer 4.0 o superiore

chi siamo | contatti | copyright | credits | privacy policy

PoliziaeDemocrazia.it é una pubblicazione di DDE Editrice P.IVA 01989701006 - dati societari