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Luglio/2008 - Pubblicazioni
Ricerche
“Rumori che nell’animo umano hanno effetti travolgenti”
di Alberto Madricardo

Suoni naturali sono quelli che non sono prodotti dall’uomo, o anche da lui, ma non intenzionalmente. Così la realtà sonora risulta divisa in due parti: quella spontanea e quella determinata dalla coscienza. La prima “naturale”, la seconda “artificiale”, prodotta intenzionalmente. Dove ci sono suoni, c’è vita. Il suono si propaga fisicamente nello spazio attraverso l’aria. Il chimico Robert Boyke (1660), facendo il vuoto con una pompa in una campana di vetro affermò che: “se il mondo non avesse l’aria, la propagazione del suono a cui siamo abituati non esisterebbe più”. E infatti, al di fuori della atmosfera terrestre, negli spazi cosmici, tutto è silenzio.
Noi viviamo in un mondo di suoni, naturali o artificiali che siano, perché siamo immersi nell’aria.
Tra i suoni ve ne sono alcuni che toccano qualcosa dentro di noi: ci colpiscono, come espressioni di una lingua originaria di cui abbiamo dimenticato il significato e suscitano emozioni. Ma percepiamo anche suoi che ci disturbano, ci infastidiscono, ci lasciano indifferenti, o che ci sono utili (per esempio il suono del telefono, della sveglia, del clacson, ecc.).
Nel mondo sonoro distinguiamo i suoni dai rumori. Anche i rumori, sia pure in modo diverso, hanno per noi spesso una valenza emotiva. Ci sono quelli familiari e quelli sconosciuti, estranei o minacciosi. Quelli che spaventano, come l’ululato della tempesta o il fragore di una frana. Quelli inquietanti - come il classico cigolare di porte in una scena di thriller - quelli assordanti, fastidiosi, o terrificanti, come quello dell’avvio dei motori a reazione di un aereo, del martello pneumatico sul selciato, dell’esplosione di una bomba. Quelli che ci richiamano alla mente cose gradevoli, che rassicurano o riempiono di gioia, come il rumore dei passi di una persona cara.
Ci sono rumori che hanno sull’animo umano effetti travolgenti. Dal rombo del tuono, per esempio, l’uomo primitivo - e quello che resta di lui in noi - si sentiva sopraffatto. Era terrorizzato anche dall’urlo dei suoi simili, quando si presentavano come nemici in battaglia. E infatti per questo egli stesso urlava - e ancora urla in guerra - quando va all’assalto: per farsi coraggio, per occupare con il proprio urlo tutto lo spazio sonoro possibile e non sentire quello del nemico, per annientarlo acusticamente, prima che fisicamente. Ci sono rumori di sottofondo, quasi impercettibili, che ci accompagnano senza che ce ne rendiamo conto e affiorano solo nel silenzio più profondo, come il ticchettio dell’orologio o il brusio del traffico in lontananza nella notte.
Che cosa distingue un suono da un rumore? Per l’acustica la differenza sta nella regolarità delle vibrazioni nella loro irregolarità. Ma questa differenza è molto soggettiva. Il suono viene generalmente legato a qualcosa di piacevole. “La beauté des sons est de la nature - scrive Rousseau - leur effet est purement physique, il résulte du concours des diverses particules d’air mises en mouvement par le corps sonore, et par toutes ses aliquotes, peut être à l’infini; le tout ensemble donne une sensation agréable: tous les hommes de l’univers prendront plaisir à écouter de beaux sons” [“La bellezza dei suoni è della natura, il loro effetto è puramente fisico, risulta dal concorso di diverse particelle d’aria messe in movimento dai corpi sonori, e da tutte le loro componenti, tendenzialmente all’infinito; l’insieme dà un sentimento piacevole: tutti gli uomini provano piacere ad ascoltare dei bei suoni” Essai sur l’origine des langues, cap. XIV, De l’harmonie, ed. Gallimard Paris, 1990, pag. 123].
Il suono favorisce la immedesimazione, il rumore la impedisce. Ma può anche essere che ciò che talvolta ci sembra un suono, altra volta ci sembri rumore e viceversa. Perché il suono si introduce in situazioni ed aspettative soggettive psicologiche disparate. La ricerca si sofferma sulle diverse manifestazioni sonore, le scandaglia, ne scopre potenzialità, eleva rumori al rango di suoni, li rende degni di essere utilizzati in composizioni artistiche. Ricordo una conversazione di tanti anni fa con Luigi Nono a Venezia. Eravamo per strada. Nono parlava della sua professione di musicista. Ad un certo punto si fermò, “Sono interessato a tutti i tipi di sonorità” - disse - “anche a questa”. E strisciò la suola di una scarpa per terra.
Il suono (o il rumore) è un fenomeno temporale: si accende e distende nel tempo. Come quelle del mare, le onde sonore si smorzano mano a mano che si allontanano dalla loro origine, fino a spegnersi. Si dilatano nello spazio e si prolungano nel tempo. Il suono ha una durata, sorge dal silenzio e si spegne nel silenzio. Il tempo è durata. Il suono, con la sua durata e modulazione rende percepibile - nel senso che ci fa esperire direttamente - il tempo, ce lo riempie e ce lo fa vivere più pienamente. Nulla più del suono ci conduce entro la trama del tempo e ce la rende interiore.
Noi siamo creature temporali, finite. Ci è concessa però una sorta di immortalità, che non consiste nell’uscire dal tempo che passa, ma nel fatto che esso non ci scivola tra le dita: “non lo perdiamo”. Non perdere il tempo non vuol dire fermarlo, ma passare con lui, rendersi medesimi con il suo scorrere.
Questa medesimezza la si prova nei momenti di vita particolarmente intensi, con le forti emozoni, quando il tempo è come se non ci fosse.
Al contrario, quando sembra che “il tempo non passi mai”, quando non si riesce a distaccarsi dal pensiero di esso, allora lo si sente estraneo, si dice che “ci si annoia”. La noia è in sommo grado sentimento del tempo, ma in quanto lo si sente perduto.
La noia è sentimento negativo e ambivalente: di risentimento nei confronti del tempo - perché lo si sente estraneo - ma insieme anche verso di sé, perché chi si annoia sente di non essere all’altezza del tempo. In ogni caso, la traccia che meglio riconduce nel suo grembo e riconcilia con esso è sonora. Per noi umani esistere è stare nel tempo. E stare nel tempo è provare emozioni che spesso si esprimono sonoramente. Il nostro modo di stare nel tempo si manifesta nella nostra sensibilità sonora, sia individuale, sia anche collettiva. Ogni epoca ha un suo modo di vivere il tempo, ogni epoca ha perciò una sua diversa sensibilità per i suoni.
Se seguiamo l’idea che i suoni, poiché si dilatano all’infinito, non si spengono mai del tutto, possiamo pensare che intorno a noi echeggino le voci e i suoni di tutte le epoche. Quella di Socrate che dialoga per le vie di Atene, quella di Gesù che pronuncia il discorso della montagna, quella di Cesare in senato, o quella di Dante che saluta la sua donna per le vie di Firenze.
Ogni epoca ha una propria intuizione del mondo e un “umore di fondo” nei confronti dell’esistenza, che cerca di elaborare in pensieri, per questo ha una sua particolare disposizione all’ascolto e alla produzione di suoni.
Vi sono sonorità che sono più congeniali ad un’epoca, perché esprimono e riassumono meglio la sua condizione generale d’essere. Ogni epoca - in quanto produce, ode ed ascolta suoni diversi - ha dunque una propria “identità sonora” ed anche - per così dire - una sua “colonna sonora”.
Il mondo intorno a noi cambia, e con esso cambia anche il mondo sonoro in cui ci troviamo. Non solo: cambia anche la nostra disposizione all’ascolto, in base al nostro modo di vivere, di sentire e di pensare. Al frusciare del vento tra le foglie della foresta, allo scroscio della pioggia, al rombo della cascata, al brontolio del tuono, al mormorio delle onde, al cinguettio degli uccelli delle civiltà preurbane e preindustriali si sono sostituiti i suoni e i rumori della città, che è diventata una nuova foresta.
La metropoli è per l’uomo contemporaneo un nuovo ambiente ancestrale, una “seconda natura” vaga, ignota e pericolosa quanto e più di quella in cui si aggiravano i nostri progenitori preistorici. Il rumore del traffico, il suono lontano delle sirene delle ambulanze o della Polizia, il rimbombo degli aerei in cielo sono il sottofondo sonoro “naturale” della vita metropolitana.
Non che i primi “suoni naturali” non ci siano più: li percepiamo ogni volta che entriamo in un parco o andiamo in campagna. Ma non li sentiamo più come dovevano sentirli i nostri antenati primordiali. Non hanno per noi quella importanza determinante e quella presenza continua che avevano nelle società primitive di cacciatori e raccoglitori, o in quelle contadine, nelle quali suoni e rumori naturali erano percepiti come segni da interpretare in funzione del successo delle attività finalizzate alla sopravvivenza. Dalla capacità di ascoltare, di interpretare un fruscio, un battito d’ali, un verso di animale o un ruggito poteva dipendere anche la vita in una società di cacciatori nomadi.
Oggi, nel mondo sovraffollato in cui viviamo, si fa un gran parlare di “difesa della natura”. Ma la storia dell’umanità è costituita dall’impegno delle comunità umane a difendersi “dalla” natura intesa come una realtà ignota e minacciosa, che gli uomini erano obbligati a percorrere nel “pericolo”, l’esperienza (péira) che può rendere “periti” nel senso di “esperti”, ma anche nel senso di “morti”.
Se ora parliamo di difesa “della” natura vuol dire che la nostra specie nella lotta per la sopravvivenza ha avuto anche troppo successo, che tra lo “experire” come fare esperienza e il “perire” come morire ha prevalso la prima possibilità.
Ancora qualche millennio fa gli uomini in ogni parte della terra vivevano una vita breve, terribilmente faticosa e precaria, sempre minacciata di annientamento. Si sentivano circondati da una realtà estranea ed ignota, che si estendeva oltre l’orizzonte del visibile. Di questa presenza sfuggente cercavano di captare qualcosa: suoni, voci provenienti dall’“oltre” il raggio della loro vista che non potevano mai avere davanti, ma che pure credevano di udir parlare attraverso il risuonare delle cose che stavano loro intorno.
La voce che parlava attraverso i suoni e i rumori delle cose proveniva da “fuori” (foris), dalla “foresta”, era la voce dell’incerto (fors), dove si annida la “fortuna”, intesa come imprevedibile sorte (fors - forse).
Al di là del pascolo o del coltivato, si estendeva lo spazio naturale, cioé della generazione spontanea (physis - natura) su cui l’uomo non aveva potere. Oltre la parte visibile, l’ignoto. L’oltre “più fuori”, il più lontano e il più incerto: il divino.

[Tratto da “La natura dei suoni”
Giovanni Floreani, Alberto Madricardo
Associazione culturale Fûrclap]


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