Credevamo di essere i peggiori in Europa e ci ritroviamo i migliori: chissà se è una consolazione. Comunque, all’Italia è andata bene, nonostante una campagna elettorale delle peggiori, in cui nessuno ha parlato di Europa proprio quando era il caso di ridare carica a quel po’ di cittadinanza europea che avremmo dovuto imparare da Altiero Spinelli e che sembra ancora estranea perfino agli studenti che conoscono gli Erasmus e il bello della scomparsa delle frontiere.
Siccome si è parlato quasi solo del voto italiano, il giudizio politico sull’esito oggettivamente soddisfacente va meditato. Soprattutto perché è giunto inatteso in un paese che, fiaccato dalla crisi, dall’inoccupazione giovanile, dalla precarietà, subisce la tentazione populista, la xenofobia e l’eredità perversa degli affidamenti ai pifferai. In una parola l’antipolitica, bestia nemica della democrazia. Forse non ci rendiamo bene conto della fragilità delle istituzioni democratiche: per fare politica bisognerebbe sempre ricordare che non si è soli e che non sempre gli altri “ci piacciono”. Infatti non sono obbligati a “piacere”; debbono, piuttosto, avere programmi convincenti per l’intero Paese secondo le condizioni date della storia che ormai è globale.
Contestualizzare non è facile: quello che chiamiamo “la destra” segue troppo spesso gli interessi dei poteri forti e non i principi liberali: in Italia, dopo la morte del Partito Liberale, spazzato via dallo tsunami “Mani pulite” insieme con Dc, Psi, Psdi, Pri - scomparsi non tanto perché corrotti (la corruzione ha un lunga storia nel nostro Paese), ma perché “vecchi” - abbiamo chiamato “destra” chi riteneva valore il falso in bilancio e la frode fiscale. Anche quello che chiamiamo “la sinistra” non ha tenuto il passo con le trasformazioni e in parte si rivolge agli antichi valori con lo stesso animo con cui Papa Ratzinger parlava dei “principi non negoziabili”. In politica, proprio se si hanno valori di riferimento, si cerca di mediare sempre, pur di realizzarli passo dopo passo, mettendo nel conto le battute d’arresto. Tanto più in questi che sono tempi di grandi trasformazioni, in cui si è spesso detto che la democrazia stessa è in pericolo. Anche se continuiamo a votare, è certamente vero che la democrazia sta oscillando per posizionarsi su forme diverse, ancora non prevedibili. Non si è vissuti di immagini mediatiche senza aver perduto qualche controllo sulla vita reale: non vogliamo dei “nominati”, ma scegliamo chi fa “immagine” e non chi sa leggere un bilancio; i robot montano i motori, ma facciamo conto di non sapere che il lavoro non sarà mai più come prima; i governi della prima Repubblica hanno incominciato l’indebitamento dello Stato, ma i cittadini credono ancora che il mutuo sia un diritto e non un debito; qualcuno giudica 80 euro un’elemosina ai lavoratori, ma non pensa che sono dieci miliardi immessi sul mercato.
C’è di che riflettere. Dietro i populismi c’è senz’altro la crisi dei partiti in quanto costituzionalmente “forma di partecipazione alla vita pubblica”: ne è testimonianza il crollo del partito socialista francese e il trasferimento a Marine Le Pen dei voti operai e della banlieu. Tuttavia la “società civile” non è migliore se si fa prendere da “movimenti” che non muovono proposte e da candidature nominate a mezzo twitt. L’indicatore più preoccupante non è a caso l’astensionismo generalizzato in un’Europa pur culturalmente avanzata: il concetto di “maggioranza”, essenziale per essere cittadini, che senso conserva, quando la maggioranza decide di autosegregarsi?
Certo, pesa la disinformazione e lo dimostra la vulnerabilità davanti alla propaganda a favore del ritorno alla moneta nazionale: come se il debito infatti non si cancellasse, il referendum contro l’euro si potesse fare mentre la Costituzione lo vieta per i trattati internazionali, le banche piene di bot, cct e titoli svalutati non fallissero, i cittadini non si tenessero gli euro all’estero o sotto il materasso, per non perdere tutto con le rate del mutuo triplicate... Il nazionalismo sarà anche identitario, ma la perdita dei soldi pesa di più.
Tuttavia, se è andata bene e il giorno dopo il voto le quotazioni italiane sono state le più alte d’Europa, è calato lo spread e Draghi ha annunciato “misure non convenzionali” contro la deflazione, da un punto di vista “europeista” non manca un certo sconforto. Grida vendetta che nell’Europa che ha sperimentato due guerre mondiali, il fascismo, il nazismo, il franchismo, la tragedia della shoà e la devastazione totalitaria, sia ricomparsa - perfino in Svezia - la destra estrema, si siano affermati partiti xenofobi e nazionalisti e la Francia, non per la prima volta, abbia perso la memoria rivoluzionaria dei diritti. La gente evidentemente riesce a farsi del male da sé. Senza un salto qualitativo che dia al Parlamento europeo la possibilità di avere una politica sociale comune (finora la sola politica praticata era quella economica che stiamo subendo), difficilmente si potranno lasciare alle spalle i danni della crisi, la disoccupazione, la bassa produttività delle imprese. Probabilmente anche la Merkel si rammaricherà di non aver seguito le raccomandazioni del suo maestro Helmut Kohl, perché nemmeno la Germania è destinata a salvarsi da sola. Intanto, però, la vittoria del Ppe ha rimesso in campo Junker per la presidenza della Commissione e con lui la linea dell’austerità; anche se, non essendoci maggioranza assoluta, si presenta probabile un governo di Grosse Koalition. Per la prima volta il Parlamento europeo eleggerà il Presidente della Commissione, fin qui nominato dai governi: con la vittoria del socialista Schultz era certo più sicura la svolta alla linea “fiscal compact” dei dieci mediocri anni di Barroso. Inoltre bisognerà mettere in conto i rallentamenti operativi e le contestazioni ad opera dei neoeletti di destra, nazionalisti, leghisti o grillini.
A questo punto acquista importanza l’esito del voto italiano. Infatti, dopo il terremoto Le Pen che ha cancellato dall’agenda l’asse franco/tedesco (Merkel/Hollande), l’Italia resta il solo partner probabile per Angela Merkel. Renzi non solo ha voluto l’adesione al Ppe del suo partito (fin a quest’anno aderente all’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici, S&D), ma è ora il leader europeo più legittimato dal voto popolare (oltre il 40 % contro il 35 % tedesco), mentre sullo sfondo si constata l’ancora inadeguata partecipazione dei paesi dell’Est (in Polonia ha votato il 20 %), la presenza scomoda del presidente Orban in Ungheria e il peggioramento delle relazioni già precarie con la Gran Bretagna fiera della sua sterlina filoamericana ma sgomenta per la svolta Farange.
Aspettative? Vedremo. Intanto il nuovo Parlamento si deve riorganizzare, rifare nomine, aggiustare ipotesi di lavoro. L’Italia avrà la presidenza del prossimo semestre e, certamente, con tutta la diplomazia del Ministero degli Esteri al lavoro, potrà intervenire con autorevolezza nuova e rimediare ai guasti d’immagine esportati in questi anni. Non potrà far sì che non esista più il debito, ma nemmeno insistere sulla strada dell’impoverimento, anche se i poteri forti tenteranno di allargare ancora la forbice ricchi/poveri. Senza bacchetta magica, ma con giusta determinazione forse si romperà un ciclo negativo.
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