Colloquio con la professoressa Elisabetta Baldi, moglie del giudice
Antonino Caponnetto, fondatore e coordinatore
del pool antimafia di Palermo, scomparso nel 2002
«Ragazzi godetevi la vita, innamoratevi, siate felici, ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare, e di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi. L'avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre».
Con queste parole il giudice Antonino Caponnetto, fondatore e coordinatore del pool antimafia di Palermo, deceduto nel 2002, spronava le nuove generazioni a fare del concetto di legalità un punto di riferimento. Ed è proprio da questo appello ai ragazzi che prende spunto il progetto “I giovani, sentinelle della legalità”, promosso dalla fondazione Antonino Caponnetto e rivolta agli studenti della Toscana. Le finalità dell’iniziativa sono quelle di fornire ai giovani quegli strumenti culturali necessari per costruire una società migliore.
Polizia e Democrazia ha chiesto alla professoressa Elisabetta Baldi, moglie di Antonino Caponnetto e presidente della fondazione a lui intitolata, di descrivere gli umori, le emozioni e le sensazioni degli anni dell’antimafia vissuti accanto al marito e all’importanza del quotidiano impegno civile nelle scuole.
Professoressa Baldi, cosa ha spinto suo marito a lasciare la Toscana per andare a contrastare Cosa Nostra?
Il fattore scatenante è stato l’attentato del 29 luglio 1983 dove è rimasto ucciso il giudice istruttore di Palermo, Rocco Chinnici. Quell’evento lo ha impressionato a tal punto che da quel momento ha cominciato a pensare di andare anche lui a difendere la sua regione. E così dopo aver inoltrato la domanda di trasferimento, è stato scelto tra venti candidati. La prima telefonata arrivata a mio marito dopo la nomina alla procura di Palermo è stata quella di Giovanni Falcone. Durante quella conversazione Falcone ha chiesto a mio marito di scendere subito in Sicilia. E così ha fatto.
Il giudice Caponnetto ha mai temuto di diventare bersaglio della mafia?
Per far capire esattamente con quale spirito mio marito ha affrontato questo importante incarico basta dare uno sguardo alla prima intervista che ha rilasciato subito dopo il suo arrivo a Palermo. Alla domanda del giornalista che gli chiedeva se era consapevole del forte rischio di morire ammazzato, lui rispose sereno che «a 63 anni bisogna mettere in conto di morire». Comunque per essere più tutelato è stato ospitato nella caserma della Guardia di Finanza a cui io devo la salvezza di Nino. Grazie all’alta professionalità, disponibilità e dedizione di quegli uomini straordinari, mio marito è riuscito a tornare da Palermo sano e salvo.
Anche lei, come suo marito, ha subìto ripetute minacce da parte della mafia. Come le ha affrontate?
Non potevo fare altro che viverle da persona dignitosa. In quegli anni ho ricevuto svariate minacce e intimidazioni. Telefonate e lettere minatorie erano all’ordine del giorno. Una mattina, mentre stavo per uscire con il mio nipotino, che all’epoca dei fatti aveva solo un anno, ho trovato una corona da morto appoggiata al cancello del mio giardino. In quel caso ho spostato semplicemente l’oggetto da un lato e ho continuato il mio tragitto. Sarebbe stato sciocco penare e dare ai miei tre figli e a mio nipote l’impressione di essere impaurita. Io la paura non l’ho mai voluta manifestare, ma un fondo di timore che potesse accadere qualcosa di brutto a noi e ai nostri cari c’è sempre stato. Per questo devo ringraziare di cuore tutti i poliziotti che per anni hanno tutelato la nostra incolumità.
A proposito degli uomini della scorta, quale ricordo ha di loro?
Meraviglioso. Hanno svolto sempre un lavoro straordinario. Ancora oggi ho uno splendido rapporto con tutti i poliziotti che negli anni ci hanno tutelato. Alcuni di loro mi vengono a trovare e mi chiamano affettuosamente nonnina.
Dunque una vita composta anche da una buona dose di rinunce. Cosa le è mancato di più?
Certo, a qualcosa si rinuncia sempre in queste situazioni. Sicuramente un’esperienza di cui ho sentito particolarmente la mancanza è stata quella di poter passeggiare con Nino, da soli, mano nella mano. E poi non potere andare a trovare mio marito nella caserma della Guardia di Finanza a Palermo in cui era alloggiato. Questo, ovviamente, per motivi di sicurezza. Sta di fatto che ho visto Nino tre volte in quattro anni e quattro mesi. L’enorme mole di lavoro a cui doveva far fronte non gli consentiva di lasciare Palermo neanche per un paio di giorni. Per mia fortuna, però, avevo la possibilità di sentirlo quotidianamente al telefono. La sua consueta chiamata a mezzogiorno mi consentiva di sapere che lui era ancora vivo e questo mi bastava.
Chi era l’uomo Antonino Caponnetto?
Il mio Nino era una persona romanticissima e silenziosa. Trattava tutti come figli, con affetto e delicatezza. La sua testa era sempre impegnata a pensare. Eravamo molto uniti, è stato il mio primo amore e ho fatto di tutto per sposarlo.
Il 5 settembre del 1940, giorno del suo ventesimo compleanno, ha iniziato a scrivere un diario. Le ultime due righe della prima pagina riportano questa riflessione: «Non so perché continuo a studiare una materia così ardua come il diritto, che non mi interessa per nulla, tanto io non andrò mai rinchiuso tra quattro mura, per cui non sarò mai né un giudice né un avvocato né un notaio». E poi la vita, per fortuna, lo ha portato a fare scelte diverse. Una professione, quella di giudice, che ha svolto con una passione e una dedizione incredibile.
Nel 2003 lei costituisce la fondazione Caponnetto in ricordo del suo Nino.
La fondazione ha come obiettivo principale quello di continuare il lavoro iniziato da mio marito durante la pensione. E cioè di proseguire il viaggio nel mondo della scuola per trasmettere ai ragazzi gli ideali, i principi e i valori che lo hanno reso un punto di riferimento per molti. Un giorno mio marito, rivolgendosi a una platea di studenti, ha spiegato con estrema chiarezza che «il culto della legalità comprende l’amore verso il prossimo, il rispetto dei diritti e della dignità degli altri, la tolleranza verso i diversi, la solidarietà verso i più deboli, i sofferenti, gli oppressi, l’amore per la natura e l’ambiente». Il secondo intento è quello di non far dimenticare all’opinione pubblica ciò che ha fatto Nino nella sua vita. Devo constatare, con dispiacere, che i mezzi di informazione continuano a parlare ancora troppo poco di lui. Per me è una gioia parlare di Nino e del suo lavoro. Io sono stata sua moglie, ho vissuto sessant’anni insieme a lui e non voglio che venga dimenticato.
Secondo lei le parole legalità e coscienza oggi hanno lo stesso valore di trent’anni fa?
Certo che no. Il motivo è semplice e va ricercato nella società. I giovani di oggi sono continuamente esposti a messaggi negativi e il risultato è sotto gli occhi di tutti: assistiamo quotidianamente all’indebolimento di tutti quei valori che una volta erano i pilastri della nostra società. È evidente che siamo di fronte a un enorme problema culturale. Con la fondazione cerchiamo di lavorare proprio in questa direzione e cioè nel recupero di determinati valori.
Cosa si sente di consigliare a un giovane magistrato che vuole intraprendere la strada aperta da suo marito trentaquattro anni fa?
Qualche settimana fa ho ricevuto sei giovani giudici che tenevano molto a conoscere mio marito attraverso i miei racconti, le sue lettere e il suo diario. Questo succede perché lui, ancora oggi, è una guida per tutti. Alle ragazze e ai ragazzi che hanno intenzione di intraprendere la carriera da giudice mi sento di consigliarli di seguire il sentiero aperto da mio marito. In questo modo avranno la certezza di rendere sempre un ottimo operato allo Stato e, di conseguenza, alla comunità.
Professoressa Baldi, cos’è per lei la mafia?
E’ una grossa prepotenza. Purtroppo, però ci sono tante persone che hanno l’interesse che la mafia continui a proliferare per continuare ad arricchirsi. In Italia la mafia sottrae centinaia di miliardi l’anno alle casse dello Stato. Lo sa quante cose si riuscirebbero a sistemare nel nostro Paese con tutti questi soldi? Ovviamente tutte risorse prima sottratte e poi portate all’estero.
Secondo lei si riuscirà a scrivere la parola fine al capitolo “prepotenza”?
Falcone diceva sempre che la mafia «è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Però, per chiudere la partita con la mafia il prima possibile non bisogna commettere errori macroscopici come quello commesso dal Consiglio superiore della magistratura l’anno in cui mio marito è ritornato a Firenze.
In quell’occasione Nino segnalò come suo naturale successore a capo del pool antimafia Giovanni Falcone. Cosa che non avvenne.
La direzione è stata assegnata a un altro giudice che prima ha disfatto completamente la squadra e poi ha suddiviso le inchieste in tanti tronconi assegnandole alle vare procure sparse per la Sicilia.
Purtroppo di sbagli ne sono stati fatti e probabilmente se ne continueranno a fare.
FOTO di Alessandro Giannini:
11 Maggio 2010, III congresso provinciale SILP CGIL di Firenze.
Pìerluciano Mennonna e Renato Scalia consegnano la tessera di socia onoraria
a Elisabetta Baldi Caponnetto, simbolo della lotta alla mafia.
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