In un mondo in cui l’economia reale è sempre più ostaggio di quella ‘telematica’
delle borse, si può pensare di utilizzare i beni sequestrati alle mafie
a favore dello Stato? Ma di quanti soldi parliamo? E, soprattutto, la politica
ha questa intenzione?
«Il crimine organizzato è una delle principali minacce alla sicurezza umana, che impedisce lo sviluppo sociale, economico, politico e culturale delle società nel mondo». Le parole scritte dalle Nazioni Unite (United Nations Office on Drugs and Crime) nel 2010 sembrano aprire nuovi squarci di luce anche nel resto del mondo, noi qui in Italia sono decenni che ce ne siamo accorti. Potremmo dire, era ora.
Queste parole sono anche parte dell’incipit di ‘Per una moderna politica antimafia’; un rapporto pubblicato sul sito governo.it il 23 gennaio scorso. Il testo, redatto dalla Commissione per l’elaborazione di proposte per la lotta, anche patrimoniale, alla criminalità, è stato voluto dall’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Il pacchetto di proposte è stato presentato insieme all’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, e all’ex e neo ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ad elaborarlo, invece, sono stati l’ex segretario generale della presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, magistrato del Consiglio di Stato e presidente della Commissione assieme a Magda Bianco (dirigente Banca d’Italia), Raffaele Cantone (magistrato di Cassazione), Nicola Gratteri (procuratore aggiunto di Reggio Calabria), Elisabetta Rosi (magistrato di Cassazione), Giorgio Spangher (professore ordinario di procedura penale).
Forse come il governo Letta anche questo documento, questa “nuova” politica antimafia, avrà vita breve. Anche se la Commissione ha tenuto conto delle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno attraversato il fenomeno mafioso, è cresciuta la «dimensione e la capacità di infiltrazione nel tessuto economico, oltre che in quello istituzionale», non sembra che sia riuscita ad elaborare delle linee guida veramente efficaci. A dirlo è il testo stesso: «Ebbene, la Commissione, pure consapevole delle intense connessioni criminologiche e di disciplina tra i due fenomeni descritti, si occupa – nell’analisi e nelle proposte di intervento – principalmente della criminalità mafiosa: tanto alla luce della particolare rilevanza del fenomeno.
Per le stesse ragioni la Commissione non si sofferma su profili e fenomeni delinquenziali che, pure non estranei all’attività delle organizzazioni mafiose, presentano un ambito assai più esteso: tra questi, per esempio, quelli riguardanti gli illeciti ambientali e i reati societari, il falso in bilancio in specie, attualmente oggetto di una disciplina che richiede un deciso rafforzamento». Insomma la Commissione dichiara persa la battaglia con le mafie del futuro (o del presente?). Ma non ci soffermiamo solo sulle mancanze, in fondo, come riportato nello stesso documento, «nessuna delle misure proposte dalla Commissione può dirsi davvero risolutiva in assenza di una riforma complessiva della giustizia nella direzione dell’efficienza e della congrua durata dei processi. Non vi è dubbio, infatti, che la durata media inaccettabile dei processi (anche quelli relativi a reati comuni o, su altro versante, quelli civili) sia il più grande “regalo” che si consegna alle organizzazioni mafiose».
Dimensioni del fatturato
In tempo di crisi economica, crisi politica e democratica si è più volte proposto di usare i ricavi delle mafie per il “bene comune”. Ma di quanti soldi parliamo?
Per prima cosa dobbiamo premettere che in genere gli economisti non assicurano nessuna correlazione tra le stime del fatturato delle organizzazioni criminali e il loro ruolo sul territorio, sui mercati e più in generale sulla capacità di un Paese di attrarre investimenti. Ovviamente anche le metodologie di calcolo sono quantomeno approssimative; i dati certi provengono solo da denunce, sequestri e confische. Poi come la materia oscura nello spazio, invisibile ma calcolabile per differenza, ci sono i dati dei presunti guadagni criminali.
È stato calcolato che in Italia le mafie, con il solo mercato della droga, «fatturino ogni anno 25 miliardi di euro esentasse. Sicché, dal confronto con i dati dell’economia legale, il fatturato prodotto dal mercato della droga è quasi pari a quello registrato dal più grande comparto economico del Paese ovvero il settore tessile-manifatturiero». Questi dati, sempre riportati nel rapporto ‘Per una moderna politica antimafia’, sono impressionanti. I ricavi delle attività gestite dalle organizzazione criminali ammonterebbero «all’1,7% del Pil, variando – a seconda delle metodologie seguite – da un minimo di 18 miliardi a un massimo di 34 miliardi di euro». Un dato interessante, su cui poi proveremo a centrare il nostro ragionamento, è legato alla «consistenza delle confische disposte in danno delle organizzazioni: nel solo 2012 sono stati sottratti beni alla criminalità per un valore di 1.152.668.541 di euro a titolo di prevenzione patrimoniale, in netta crescita rispetto ai due anni precedenti». I beni confiscati oltre ad essere un simbolo della lotta alle mafie potrebbero essere una risorsa; le organizzazioni criminali sono pericolose soprattuto per la loro «comprovata capacità di procurare una perdita di sviluppo delle aree coinvolte riassumibile in un minore Pil pro capite. In proposito, sono significativi i dati forniti dalla Banca d’Italia: nelle tre regioni (Calabria, Sicilia, Campania) in cui si concentra il 75% del crimine organizzato il valore aggiunto pro capite del settore privato (comprensivo di imprese e cittadini) è pari al solo 45 di quello del Centro Nord. In alcune Regioni (Puglia e Basilicata), interessate dal fenomeno solo intorno agli anni ’70, il radicamento della criminalità organizzata ha coinciso con il passaggio delle stesse da un sentiero di crescita elevata ad uno inferiore, tradottosi nell’accumulo di un significativo ritardo durante i decenni successivi fino ad arrivare a una differenza del 15% nel Pil pro capite negli ultimi anni considerati (2007).
Infine - conclude il rapporto -, che si tratti di un fenomeno da valutare anche nella sua portata economica, oltre che nella sua tradizionale rilevanza criminale, è dimostrato dalla constatazione che la disponibilità di ingenti patrimoni consente alle mafie di insinuarsi pesantemente nei gangli dell’economia legale, conseguendo un duplice risultato: la “ripulitura” dei proventi di attività illecite ed il conseguimento di ulteriori profitti.
Con particolare riferimento alle aziende legali, l’investimento criminale è considerato la strategia di infiltrazione più pericolosa. La presenza sul mercato di imprese controllate dalle organizzazioni criminali genera distorsioni nella concorrenza, destinate a compromettere l’integrità del tessuto socio-economico.
In proposito è significativo un dato statistico: negli ultimi due anni le denunce per usura, che rappresentano solo la porzione “emersa” del fenomeno criminale, sono aumentate del 155 per cento rispetto ai due anni precedenti, sicché imprese apparentemente legali si ritrovano, nei fatti, nelle mani della criminalità».
Per Ernesto Savona, direttore di Transcrime, «il crimine», però, «paga molto meno di quello che si dice». I ricavi annui sono stimabili «con una forbice che va dai 17,7 ai 33,7 miliardi di euro (il valore medio di 25,7 miliardi corrisponde all’1,7 per cento del Pil). Le due organizzazioni criminali più aggressive negli affari sono la camorra e la ‘ndrangheta, che si aggiudicano rispettivamente il 35 e il 33 per cento dei ricavi. Più di Cosa nostra (18 per cento) e della criminalità organizzata pugliese (11 per cento)». La ‘ndrangheta, a differenza delle altre realtà criminali, si distingue per aver maggiormente colonizzato le regioni italiane ed europee. Infatti solo «il 23 per cento dei suoi ricavi proviene dalla Calabria, mentre a farla da padrone sono i clan attivi nel nord-ovest: il Piemonte pesa infatti per il 21 per cento dei ricavi, la Lombardia per il 16%, seguite da Emilia Romagna (8%), Lazio (8%) e Liguria (6%). Un dato che conferma i risultati delle ultime inchieste della magistratura, che hanno mostrato come la ‘ndrangheta abbia messo le mani sull’economia delle zone più sviluppate del Paese».
Reazioni scomposte
Cambia il Governo ma le logiche di potere rimango le stesse; visti i numeri si fa sempre meno fatica quindi a comprendere il ragionamento di Travaglio su Micromega. «Quali problemi creava, dunque, Gratteri» come Guardasigilli? «Almeno due. 1) Con il suo piano organico di riforme, minacciava di far funzionare la Giustizia per davvero. Ma una Giustizia che funziona il nostro sistema di potere non se la può permettere. Basta una ripresa dall’elicottero o dal satellite di tutti i politici nazionali o locali, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, lobbisti, massoni, boiardi, alti ufficiali e alti dirigenti delle Forze dell’ordine e dei servizi sotto processo per cogliere la portata destabilizzante, eversiva di una Giustizia rapida ed efficiente. Con una classe dirigente così corrotta e collusa, basterebbe una riforma di stampo europeo della prescrizione (che dappertutto smette di correre dopo il rinvio a giudizio, mentre qui galoppa fino in Cassazione) per fare una rivoluzione pacifica molto più devastante di quelle cruente. 2) Gratteri - conclude Travaglio -, pur occupandosi dell’ala militare della 'ndrangheta, ha maturato sul campo una conoscenza approfondita e dunque “tridimensionale” dei sistemi criminali italiani (chi avesse dubbi dia un’occhiata alle facce e alle fedine penali dei dirigenti calabresi di Pd, Pdl, Ncd e Udc). Infatti non fa mistero di considerare questa classe politica, trasversalmente, un focolaio di infezione. Perciò chiedeva “mani libere”. E, se avesse ottenuto il via libera, le avrebbe usate per andare fino in fondo. Mettendo a repentaglio non la sua carriera (non ci ha mai tenuto), ma la stabilità e la sopravvivenza del Sistema».
Viene quindi quasi da ridere a rileggere le «linee guida di una moderna ed “integrata” politica antimafia» scritte dall’ex Governo (in parte copia del nuovo). «L’analisi svolta e le indicazioni delle istituzioni internazionali inducono la Commissione a ritenere che una moderna politica antimafia debba mirare:
• ad aggredire i benefici patrimoniali delle organizzazioni,
• a cogliere appieno le occasioni di riaffermazione della legalità e di sviluppo dei territori interessati dal fenomeno mafioso che una efficace politica di contrasto determina,
• a spezzare i legami tra organizzazioni criminali e tessuto economico ed istituzionale,
• a rafforzare il sistema personale -penale e processuale- di repressione,
• ad evitare che il degrado urbano e socio-educativo che affligge talune aree del territorio nazionale continui ad alimentare la presenza criminale nelle stesse aree.
Tanto premesso, il Rapporto propone quindi:
• misure intese ad aggredire i patrimoni, incidendo sulle disponibilità economiche delle mafie;
• misure dirette ad assicurare una efficace gestione e destinazione dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose;
• misure dirette ad ostacolare le infiltrazioni nell’economia legale;
• misure volte a incidere sui legami con le Istituzioni;
• misure destinate a rafforzare l’apparato repressivo e a migliorare l’efficienza del sistema processuale;
• misure tese ad incidere sul contesto economico e sociale, destinate in particolare a recidere il legame tra arretratezza economico-sociale e fenomeno criminale».
Un elenco di misure, ne ho riportato solo una piccola parte, che sulla carta promettono anche qualcosa ma che alla realtà dei fatti assomigliano alle solite promesse.
Speranze
Ma se riuscissimo ad immaginare un futuro in cui la politica si riscatti e cominci a fare il suo lavoro, quali sarebbero le prime cose da fare? «Si rende necessaria una visione ed una progettualità nuova, ci risponde Daniele Tissone, segretario generale della Silp Cgil, che parta dalla consapevolezza che la sicurezza è un tema complesso che ha a che fare anche con le politiche sociali che ci stanno attorno». «Non si potrà altresì parlare nel nostro Paese di una vera riscoperta della legalità praticata, se non vi sarà, anche, un ormai non più rinviabile adeguamento legislativo che semplifichi la lettura di tutto il complesso delle norme contro le mafie comunque denominate inclusa quella finalizzata al contrasto della criminalità economica».
Per Tissone, «è possibile costruire un circolo virtuoso del processo di legalità» solo se si riesce a colpire il meccanismo perverso di protezione delle organizzazioni criminali da parte della politica. Servirebbe, in sostanza, «una legge contro la corruzione che attanaglia in maniera sempre più pericolosa i gangli vitali delle nostre Istituzioni. Dagli ultimi dati in nostro possesso emerge, infatti, che la corruzione in Europa ha un “peso” di circa 120 miliardi di euro l’anno di cui 60 solamente in Italia. La corruzione toglie ai cittadini la fiducia nelle Istituzioni e nei suoi rappresentanti, danneggia l'economia nazionale con danni che, per effetto della crisi in atto, possono risultare irreversibili. In questo contesto operano le iniziative promosse dalla Cgil che si batte per l’adeguamento legislativo avendo messo in campo anche una proposta di una legge di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 120 mila cittadini sulla confisca e l’immediato utilizzo dei patrimoni sottratti alla criminalità organizzata, a questo proposito cogliamo l’auspicio che simili modifiche legislative possano consentire, al più presto, ai lavoratori e alle Istituzioni di riprendersi tutto quello che è stato loro strappato attraverso il sopruso e la sopraffazione da parte di una criminalità che ha il solo obiettivo di perpetrare azioni nocive a solo beneficio del proprio dilagante quanto feroce strapotere».
Il nostro Paese è anche una nazione di persone con inventiva e tenacia; vorrei chiudere questo articolo con una nota positiva. Se pensassimo al patrimonio delle mafie solo in termini macroeconomici commetteremmo un errore, paradossalmente le organizzazioni criminali sono una risorsa potenziale. Consiglio la lettura di ‘Economia canaglia’ dell’economista Loretta Napoleoni, oppure un’analisi accurata del processo di legalizzazione della marijuana in California. Il nostro Sud, ad esempio, ha ancora infinite potenzialità in campo turistico. Pensiamo alle bellezze naturalistiche e culturali dello stivale non strangolate da logiche criminali, pensiamo a cosa si può fare grazie all’economie parcellizzate e frazionate a singole unità familiari con il cicloturismo o il turismo enogastronomico. In un contesto europeo di decrescita, non sono più necessarie grandi infrastrutture e grandi investimenti (che molto spesso hanno solo aiutato a finanziare le mafie), servono idee, tradizioni e la possibilità di lavorare in un ambiente di piena legalità.
Sarà forse anche per questo che Libera ha organizzato «cento chilometri, come fossero i "Cento passi" citati da Luigi Lo Cascio». Un percorso da Roma a Latina in bicicletta. L'associazione ha scelto Latina perché lì Libera ha subito le più recenti intimidazioni, a quanto pare del tutto inefficaci.
La reazione si è ispirata ad un'idea del gruppo musicale Tetes de Bois, che l'anno scorso a giugno inaugurò la prima "Transumanza a pedali". Due giorni in bici da Roma all'Aquila insieme a #salvaiciclisti e cicloturisti di ogni risma, per "andare a dare un abbraccio alla città", scrisse allora il fantasioso leader del gruppo, Andrea Satta.
Lo staff di Libera ha contattato i musicisti e i cicloattivisti inventori del viaggio in Abruzzo; l'idea è stata accolta subito, ed è nata la "Transumanza Latina", viaggio da Roma seguendo tra l'altro il tracciato dell'Appia antica e la via Francigena, con inizio il 21 marzo e arrivo il giorno dopo a Latina.
«Cento chilometri che simbolicamente vogliono richiamare i “Cento passi” di Peppino Impastato - affermano a Libera -. Cento chilometri che toccheranno i luoghi e i terreni su cui hanno messo le mani le mafie e le ecomafie. Cento chilometri da percorrere in bicicletta, con partenza da Roma, per partecipare con una marcia silenziosa alla giornata della memoria e dell'impegno per le vittime innocenti delle mafie che Libera celebra il giorno dopo, il 22 marzo, nel capoluogo pontino».
FOTO: A destra: la villa di Riina a Palermo
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