Crimini in colletto bianco e criminalità organizzata: due facce oggi della stessa medaglia? Modi d’essere di un complessivo mondo criminale, integrato, sistemico e di dimensione globale?
Nel saggio Finanza criminale del criminologo e questore parigino Jean François Gayraud e del saggista Carlo Ruta, che uscirà a febbraio 2014 per Castelvecchi editore di Roma, si ricercano le risposte a questi interrogativi.
Un esame minuzioso dei processi, che portano in scena ibridazioni, scambi, contagi, rispecchiamenti, conversioni. Ma pure una critica serrata alle politiche degli Stati, che tendono a minimizzare la portata dei nuovi fenomeni criminali. In anteprima, su concessione di Castelvecchi, ecco due paragrafi dell’opera.
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LA SCOPERTA DEL CRIMINE IN COLLETTO BIANCO - Carlo Ruta
Nel XIX secolo, i criminologi più in voga e gli organi di tutela dell’ordine e pubblico presentavano il crimine come un prodotto tipico delle «classi pericolose», entro le quali catalogavano oziosi, giocatori d’azzardo, ladri, assassini, borsaioli, prostitute, vagabondi, e così via. Secondo la concezione corrente, l’individuo delinquente, che metteva in pericolo l’ordine pubblico, proveniva in sostanza dal basso, dalle masse proletarie, e in particolare dalle comunità degli operai, che vivevano in gran parte nei sobborghi delle grandi città industriali. Questa dottrina, destinata a raggiungere nel corso del secolo livelli molto raffinati, si ispirava in qualche modo a concetti delineati nel Settecento, all’epoca della prima rivoluzione industriale, da Jeremy Bentham e dal magistrato scozzese Patrick Colquhoun. Il suo esordio «scientifico» si può far risalire tuttavia al 1840, quando il francese Honoré-Antoine Frégier congedava alle stampe Des classes dangereuses de la population dans les grande villes.
Quest’opera, che sin dalla sua uscita poté godere di una grande influenza, riuscendo ad intercettare in pieno le ossessioni del secolo del capitalismo, conferiva infatti a quelle idee un livello argomentativo inedito e complesso, spiegando appunto, sulla base di osservazioni sul terreno, che le masse proletarie, portatrici per se stesse di malvagità e delinquenza, costituivano un grande fattore di pericolo per l’intera società. Concentrando il suo studio sulle masse inurbate di Parigi, Frégier divideva gli operai in due categorie: quelli di bottega, che, potendo beneficiare di tradizioni e consuetudini secolari, riteneva essenzialmente di buoni costumi, e quelli delle fabbriche, che descriveva invece come ignoranti, volgari, dominati dal vizio e dalla depravazione. E proprio in quest’ultimo ambito sociale egli ravvisava il tessuto generativo delle «classi pericolose», di cui offriva una rassegna puntigliosa. Le donne lavoratrici erano descritte come sfrontate, incuranti delle gravidanze, dissolute, grossolane, perfino provocatrici quando uscivano dal luogo di lavoro, mentre gli uomini erano presentati come individui sordidi, immorali, che al matrimonio preferivano di massima il disordine del concubinato. Frégier sottolineava poi l’incapacità delle famiglie operaie di educare i figli, che mandavano per di più a lavorare, anch’essi in fabbrica, sin dall’età di 12 anni, mentre riteneva che pure l’istruzione dei poveri fosse da considerare pericolosa, per i danni che sarebbero potuti derivare dal contatto dei proletari con la stampa, fonte anch’essa di perturbazioni sociali. Va tenuto conto che era già partita l’epoca dei grandi scandali, economici e politici, e che, da altri versanti, baluginavano idee, culture, e progetti di riscatto sociale delle masse diseredate, che, proprio negli anni in cui scriveva Frégier, trovavano una espressione in letterature e in percorsi narrativi come quelli di Charles Dickens.
Si trattava della nascita di un modello criminologico, che lungo il secolo avrebbe goduto appunto di una particolare fortuna. Il dirigente di polizia Giovanni Bolis, a suo modo un innovatore, trattandosi di colui che introdusse in Italia la sezione della polizia politica, nell’opera La polizia e le classi pericolose, del 1871, scriveva: «Sono le classi operaie condensate nelle grandi città che offrono il maggior contingente alle carceri: la insufficienza del lavoro, le maggiori esigenze della vita sproporzionate ai guadagni giornalieri, il vizio precoce, l’immoralità che si spande nei centri popolosi e il difetto d’istruzione, costituiscono le cause principali di un male sociale che sembra ingigantisca col progredire dei tempi, doloroso contrasto con la civiltà dei secoli nostri». E d’altra parte, proprio in quei decenni, alla concettualizzazione delle classi pericolose contribuiva non poco, per via del contesto peculiare da cui muoveva, la ricerca della criminologia italiana, e in particolare quella di Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologa criminale, ed Enrico Ferri.
Nell’opera Nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, uscita a Bologna nel 1881, Ferri sintetizzava il modello criminologico adottato con queste parole: «noi possiamo, nei rapporti del diritto penale, distinguere gli strati sociali: la classe più elevata, che non delinque, perché naturalmente onesta, per effetto dell’eredità, dei sentimenti religiosi e morali, con la sola sanzione della propria coscienza o dell’opinione pubblica. Questa categoria, per cui il codice penale è perfettamente inutile, è purtroppo la meno numerosa della società […] Un’altra classe più bassa, è composta di individui refrattari ad ogni idea di moralità ed onestà, perché, privi di ogni educazione ed istruzione, impegnati sempre nel modo primitivo e brutale di una lotta ferina per l’esistenza ereditano dai loro maggiori e trasmettono ai loro discendenti un’organizzazione anormale, che rappresenta un vero ritorno atavico alle razze selvagge. È da questa classe, che si recluta il numeroso contingente dei delinquenti nati ed incorreggibili». Era la risposta più consona, sancita con i crismi della «scienza», a una serie di aspettative dell’epoca, anche politiche, quando più erompevano le tensioni strutturali della società industriale. Tutto questo non esauriva tuttavia la ricerca criminologica.
Imponendosi, in modo quasi assolutistico, questa dottrina criminologica finiva con il confinare nell’ombra approcci di altro genere, che pure erano andati delineandosi sin dagli anni cinquanta del secolo, proprio a partire dalle tensioni e dalle contraddizioni insiste nel complesso sistema del capitale: ma a partire, soprattutto e in concreto, dagli scandali economici e finanziari che, come detto, già dalla prima metà del secolo, conquistavano, di tanto in tanto, le prime pagine delle gazzette e dei grandi quotidiani. Sin dagli anni cinquanta si manifestava infatti un approccio analitico divergente, che, ancorato ai fatti scandalosi messi in luce appunto dalla stampa, cominciava a sconfessare con radicalità quello imperante, dando conto di un diverso e ben più elevato livello di criminalità, non più riconducibile alle masse proletarie ma alle classi del capitale.
Al riguardo, non si possono non citare i casi di David Morier Evans e Edwin Hill, che potrebbero essere considerati, con le dovute cautele e i necessari distinguo, i primi studiosi del crimine in colletto bianco, quando ancora questa definizione era ben lontana dall’essere coniata. Nell’opera Facts, failures and frauds: Revelations, financial, Mercantile, Criminal, uscita a Londra nel 1858, il primo, giornalista finanziario gallese, già autore di uno scottante rapporto sulla crisi del 1847-48, faceva un rendiconto minuzioso delle frodi e delle speculazioni finanziarie che avvenivano in quegli anni in Inghilterra. E Hill, criminologo di professione, in un rapporto presentato in una conferenza a Cincinnati nel 1870, e poi nell’opera Criminal capitalists, data alle stampe a New York nel 1872, si portava un po’ oltre, come denota già il titolo del libro, muovendosi per certi versi alla ricerca di nuove concettualizzazioni. Sottolineava infatti, proprio in chiave criminologica, l’importanza crescente che andava assumendo il delitto nel mondo degli affari. Egli si chiedeva: «Ma chi sono questi capitalisti criminali? Come viene impiegato il loro capitale? E con quali mezzi possono essere scoraggiati dal modo in cui impiegano il loro capitale?». E provava a dare delle risposte, spiegando i modi in cui i disonesti di alto rango ordivano i loro affari, architettavano frodi e saccheggi, al riparo dalla legge, ma godendo, allo stesso tempo, di significative protezioni. Forse non è inutile sottolineare che il periodo in cui Hill studiava il capitalismo criminale, cioè l’esordio degli anni settanta, era quello in cui New York, capitale finanziaria degli Stati Uniti, subiva, prima di lasciarsela alle spalle, la «dominazione» della Tammany Hall di William Magear Tweed, autore della truffa finanziaria del secolo, per centinaia di milioni di dollari, equivalenti a miliardi di oggi.
Alla luce di tutto, si trattava in quel tempo di «eresie» criminologiche. Ma negli anni successivi il quadro si faceva più mosso perché dagli studi sociologici e dalle analisi sulla politica, negli orizzonti del positivismo, arrivavano spunti innovativi, non privi peraltro di significative convergenze. E su questo piano un ruolo a sé ricoprivano alcune elaborazioni dall’Italia, per il rilievo straordinario che, a partire già dai primi anni sessanta, conquistavano nella politica nazionale i temi dell’ordine pubblico, la questione meridionale e, in un modo del tutto peculiare, gli sviluppi della questione mafiosa. Il barone Leopoldo Franchetti non si occupava propriamente di capitalismo criminale, nei termini in cui se ne erano occupati Moriel e Hill. Tuttavia, nell’inchiesta in Sicilia effettuata nel 1876 con Sidney Sonnino, assunto l’incarico di indagare le condizioni politiche e amministrative dell’isola, e occupandosi in particolare della genesi e del radicamento del fenomeno mafioso, egli offriva spunti importanti pure da altre prospettive. Indifferente, si direbbe, alle teorie criminologiche delle «classi pericolose», che nel testo non appaiono neppure citate, il barone toscano ravvisava infatti nella mafia una espressione della classe media, in grado di contrastare localmente il monopolio della forza dello Stato e di chiamare a patti i poteri legali. Parlava quindi di questa realtà nei termini di una vera e propria industria economica, che, amministrata appunto da una borghesia facinorosa, offriva un prodotto peculiare, il delitto. E tutto questo, per Franchetti, faceva della mafia un mondo a sé, strutturalmente diverso dal tradizionale banditismo, plebeo e contadino, e dalla comune delinquenza. Il barone, in definitiva, serbava tutt’altre idee sulla pericolosità delle classi.
Da altre postazioni, una nozione interessante delle fenomenologie criminali veniva poi dallo scrittore repubblicano Napoleone Colajanni, autore nel 1893 del fortunato pamphlet Corruzione politica. In questo libretto egli, un po’ per partito preso, puntava su un bersaglio preciso: le grandi monarchie europee, mentre esaltava il sistema statunitense, dicendolo in grado di reagire con efficacia ai criminali di alto rango. A fare la differenza, secondo lui, erano le istituzioni repubblicane essenzialmente virtuose e una opinione pubblica vigile. In America, scriveva, «chi rompe paga, presto o tardi». Anche negli Stati Uniti era in realtà tempo di scandali, ed era partito, soprattutto, il tempo di industriali spregiudicati come John Pierpont Morgan, John Davison Rockefeller, Henry Ford e altri ancora, che ampi settori dell’opinione pubblica identificavano come «baroni ladri», i robber barons. Colajanni finiva allora con il prenderne atto: «È innegabile … che capitalisti, banchieri, classi dirigenti stanno alla testa di ogni movimento più o meno criminoso e costituiscono il campionario più scelto degli uomini corrotti». Ma da convinto repubblicano addebitava anche questa situazione all’Europa, ravvisando in essa, e in particolare nella vecchiezza delle monarchie, la radice e i contagi del capitalismo criminale.
L’Europa portava in scena intanto i casi più eloquenti e stupefacenti di affarismo e corruzione. Tra gli anni ottanta e i novanta nel continente si stendevano i due maggiori scandali del secolo: in Francia quello della Compagnie universelle du canal interocéanique de Panama; in Italia quello della Banca Romana. Per forza di cose, il modello delle «classi criminali» cominciava a cedere quindi dall’interno, a partire soprattutto dall’Italia. Lo stesso Lombroso, legatosi intanto al socialismo di Filippo Turati, al pari di numerosi suoi allievi e dello stesso Ferri, si trovò a rivedere infatti le idee correnti, definendo una tipologia di reati riconducibili non più alle masse proletarie ma alla «classe del denaro». Egli, si direbbe sull’onda dell’indignazione pubblica, intendeva spiegare in chiave criminologica i fenomeni della corruzione e la ragione profonda di quelli che chiamava i «delitti evoluti». Da un ambiente di studi che godeva di molta considerazione, un altro colpo veniva inferto così alla concezione tradizionale delle «classi pericolose». Era l’avvio di un percorso promettente, che proprio in quei frangenti trovava spunti particolarmente innovativi e anticipatori nell’analisi di un avvocato lombrosiano, Rodolfo Laschi, autore del saggio La delinquenza bancaria nella sociologia criminale, nella storia e nel diritto, pubblicato dai fratelli Bocca di Torino nel 1899. Laschi parlava della delinquenza bancaria come di un effetto «dello smodato desiderio di ricchezza», e la trovava caratterizzata «da gravi violazioni dell’ordine economico e morale». Annotava: «Il regime capitalistico, se pure ha portato qualche vantaggio all’economia pubblica, lo ha scontato ben presto, creando nella sua inesauribile sete di potenza e di guadagno quelle immense trappole finanziarie, nelle quali sono caduti gli illusi di tutte le classi». Faceva quindi una disamina minuziosa sui caratteri organici e psicologici dei delinquenti bancari, per suggerire in ultimo dei rimedi, nell’ambito della legislazione penale.
Restando in Italia, merita poi attenzione, anche sotto il profilo del dibattito criminologico, la lettura del fenomeno mafioso effettuata da Gaetano Mosca, non priva di punti di contatto con quella di Leopoldo Franchetti. Con il breve saggio Che cosa è la mafia, uscito nel 1900, dopo gli esiti processuali del delitto Notarbartolo, il noto sociologo, tra i massimi della scuola elitista, riconosceva infatti l’esistenza di una borghesia criminale, che chiamava, riprendendo una definizione comune del tempo, «mafia in guanti gialli». E a questa realtà criminale, che vedeva annidata pure in grandi banche di emissione, egli addebitava l’uccisione di Notarbartolo. Scriveva: «quando si capì che il carnevale dei furfanti accennava a finire e si parlò di conti da rendere, di inchieste amministrative e parlamentari da fare, allora i concussionari annidati nel Banco di Sicilia videro il pericolo e... pensarono ai modi opportuni per scongiurarlo». Spiegava poi come il progetto omicida avesse trovato in Sicilia un terreno favorevole, «grazie allo spirito di mafia ed ai contatti fra le classi ricche e le cosche mafiose».
La lunga incubazione dell’analisi sul capitalismo criminale continuava ancora per alcuni decenni, fino allo snodo degli ultimi anni trenta, quando giungeva la svolta paradigmatica di Edwin Sutherland, lo studioso statunitense che coniò la definizione di white collar crime. Sullo sfondo delle grandi emergenze criminali, economiche e sociali del primo Novecento, la criminologia si apriva così una chiarificazione in profondo su una fenomenologia criminale di rilievo strategico, che avrebbe raggiunto, decennio dopo decennio, ed è storia recente, livelli sistemici.
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FENOMENI CRIMINALI, CECITA' E RIFIUTO - Jean-François Gayraud
Finita la guerra fredda, nel funzionamento delle società e degli Stati i fenomeni criminali hanno assunto un ruolo centrale, per quanto frainteso. Il crimine in tutte le sue forme – organizzato, imprenditoriale, finanziario, in colletto bianco, ecc. – qualunque ne siano i caratteri e le possibili origini, costituisce ormai una chiave essenziale per comprendere come funziona il mondo. Non sembra tuttavia che questa realtà susciti preoccupazioni particolari.
Ancora oggi, troppo spesso i fenomeni criminali sono ritenuti banali fatti di cronaca, storie ed eventi privi di una reale importanza e perfino di un senso. Essi sono rappresentati solitamente come aspetti del costume locale, in grado di attrarre l’industria dell’intrattenimento e dello spettacolo, ma incapaci di influire stabilmente sulla sostanza dei fenomeni sociali. In realtà questa pretesa «marginalità criminale» sempre più va spostandosi verso il centro delle società contemporanee, quando, come vedremo, non finisce per diventare essa stessa il centro dei fenomeni sociali.
Per un paradossale inganno della mente, molti nostri contemporanei, soprattutto nell’ambito delle élites, stentano però a comprenderlo. L’accecamento è profondo, e importa poco sapere se si tratti di un meccanismo auto-protettivo di rimozione psicologica, di un atteggiamento politico indotto dal bisogno di cautelarsi da entità pericolose, talvolta anche utili, di una ignoranza tipicamente intellettuale, o solo di stupidità. Questo rifiuto, a volte, ancora più sottilmente, è di tipo ideologico. Per riprendere alcuni concetti di Guy Debord e Philippe Muray, il conformismo spettacolare e festaiolo, tanto diffuso quanto resistente, non cessa di banalizzare e relativizzare i comportamenti criminali, rendendoli seducenti e pittoreschi. L’illusione spettacolare si associa peraltro a un’altra fonte di accecamento ideologico: una concezione dogmatica del liberalismo che tende a negare e a dissolvere la corrosività del crimine nel funzionamento dei mercati, quando non lo incoraggia in nome della onniscienza, dell’infallibilità e delle capacità di auto-stabilizzazione dei mercati aperti e deregolamentati. In questa breve sintesi sulle tipologie del rifiuto, avevo dimenticato una ulteriore forma di cecità: il rifiuto di origine amministrativa. Si potrebbe intuitivamente pensare che i governi degli Stati, incaricati della sicurezza, della polizia e dell’Intelligence, siano i più lucidi sul funzionamento del mondo, poiché in contatto con le realtà, senza mascheramenti. In realtà, spesso è esattamente il contrario. Non che queste amministrazioni pubbliche manchino di talenti, tutt’altro. Ma ci sono logiche istituzionali che sono in grado di alterare e comprimere il giudizio e l’acutezza visiva dei migliori. Un’amministrazione ha una tendenza naturale a fare quel che ha sempre fatto, indulgendo alla routine, immaginando il nemico di oggi e di domani identico al nemico di ieri: quello che con maggiore facilità è in grado di riconoscere. Vige in sostanza un atteggiamento indolente, che porta a leggere le minacce come un «prolungamento della curva»: domani sarà come ieri.
Queste amministrazioni seguono una logica burocratica che le porta a rifiutare l’evoluzione del reale. Si continua a seguire le spie mentre cresce la minaccia terroristica; o si immagina che la minaccia terroristica sia centrale mentre aumenta l’ondata della criminalità organizzata. I burocrati hanno sempre la speranza segreta che il mondo si adatti alle loro logiche amministrative. In Francia, in modo tipico, c’è da parte dello Stato una seria difficoltà a capire quanto le differenti forme di criminalità costituiscano una minaccia importante per la sopravvivenza dei nostri sistemi liberali; con il corollario di una sopravvalutazione delle questioni del terrorismo e della proliferazione della armi di distruzioni di massa. La lotta contro il terrorismo ha conosciuto un curioso punto di svolta dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Questa lotta è stata il pretesto per scatenare due guerre inutili in Iraq e in Afghanistan. Essa si è risolta in un grande effetto di diversione, facendo passare in secondo piano il crimine organizzato e i crimini finanziari, e ha generato un apparato amministrativo su misura, talvolta sproporzionato. Riassumerei la situazione come segue: «Il terrorismo fa vivere più persone (funzionari, “esperti”, etc.) di quante ne uccide». Quanto al crimine organizzato e alla criminalità in colletto bianco, è esattamente l’inverso: «Questi crimini uccidono più persone di quante ne fanno vivere». Con queste formule un po’ sarcastiche, vorrei sottolineare quanto la sproporzione di mezzi messi in campo sia evidente, e quanto la letalità del crimine organizzato sia incommensurabile con quel quella del terrorismo.
Ma noi tutti siamo più o meno interessati del perché, come ha detto Primo Levi ne I sommersi e i salvati, noi amiamo «le verità consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche».
Il rifiuto è stato ancora più profondo in quanto abbiamo conosciuto un decennio di euforia, dal 1990 al 2000. Le opinioni e il leitmotiv dell’epoca sono noti: la caduta del muro di Berlino doveva portare, in modo deterministico, felicità e prosperità sulla terra. Tuttavia, con la fine della guerra fredda non abbiamo assistito alla Fine della Storia, per riprendere il titolo di un libro di Francis Fukuyama, ispirato in parte al pensiero dei filosofi Hegel e Kojève, ma al suo ritorno brutale. La fine della storia descritta da questo autore non era di certo la morte degli eventi e delle vicissitudini del mondo, ma l’unificazione del mercato mondiale sotto le insegne della democrazia liberale. La storia si è ristabilita in realtà in modo brutale e sanguinoso. Dopo la caduta del muro di Berlino il pianeta è percorso da un caos profondo, di cui i fenomeni criminali costituiscono un additivo essenziale. Sono convinto che noi assistiamo in numerose regioni del pianeta a un ritorno della storia: siamo entrati in un nuovo ciclo caotico nel quale il crimine svolgerà un ruolo centrale, di catalizzatore. Per riprendere le parole di Jean-François Lyotard, mi sembra che stia emergendo un’altra «grande recita». Questa nuova storia non sarà portata da una trascendenza, come nel cristianesimo e nel comunismo, ma da una discesa agli inferi. E ci accorgeremo probabilmente che questo caos non è solo negli eventi, nella vita concreta dei paesi, ma anche negli iter intellettuali, nelle idee, per l’inadeguatezza dei tradizionali punti di riferimento.
La nostra cecità al crimine risiede spesso nel fatto che siamo incapaci a discernere nella complessità e nella fumosità delle informazioni che ci sommergono. Il nostro primo fallimento in primo luogo è intellettuale. Questa prima sconfitta dell’intelligenza e del discernimento è una vittoria per i grandi criminali che il mondo caotico lascia emergere, spesso nella più profonda indifferenza. Tutto questo è facilmente comprensibile perché il crimine è più complesso, coinvolgente, incardinato nelle realtà sociali contemporanee. Spesso al punto di fare sistema o diventare il sistema. Più il crimine è lampante, presente, meno noi lo vediamo. Edgar Allan Poe nel suo racconto La lettera rubata ha detto tutto sulla nostra incapacità di vedere il più visibile. In realtà il nostro accesso all’evidenza del crimine è condizionato da un paradosso essenziale della società dell’informazione e della comunicazione. Questa non è sinonimo di trasparenza e di conoscenza, ma piuttosto di opacità. Essa regge infatti su modalità di selezione del reale che finiscono per oscurarlo in permanenza.
E le scienze sociali non sempre ci aiutano. Penso a una difficoltà epistemologica che va riconosciuta. Tanto il diritto criminale quanto la criminologia sono stati creati per comprendere, prevenire e reprimere: da una parte l’eccezionalità, il marginale, quello che come ha ben spiegato Durkheim, «offende gli stati fondamentali della coscienza collettiva»; dall’altra parte, in maniera limitata, determinati comportamenti individuali o di gruppo. Ma ecco che il marginale è divenuto centrale, l’eccezionale si è mutato in regolare, l’intollerabile si è reso normale, e infine il crimine è divenuto sistema! Non vediamo più perché non possiamo più vedere, con strumenti intellettuali e giudiziari obsoleti. È per questo che bisogna superare questo limite ontologico, utilizzando la geopolitica o l’economia politica per analizzare i contorni esatti del crimine contemporaneo. La geopolitica permette di superare la visione individualistica e sordida del crimine, per svelarne la colonna vertebrale, seguendo tre prospettive fecondi: i flussi, il potere e i territori. L’economia e la finanza sono ugualmente essenziali, ma gli economisti troppo spesso hanno evitato questo campo di ricerca, fino a diventare miopi. Intanto il crimine sempre più diventa un modello economico… silenzioso. Inoltre, così come non si parla più di direzione degli Stati ma di «governance», facendoci credere che la «scienza manageriale» disincarnata è la nuova pietra filosofale, l’economia politica è sparita a favore della «macroeconomia» o peggio della «scienza economica», proprio nel momento in cui questa disciplina affondava in un clamoroso fallimento con il business dei mutui subprime. Oltre che la dottrina liberale, gran parte del pensiero economico classico, pervaso da un rigido positivismo, rifiuta di considerare il crimine una variabile di rilievo. Gran parte degli economisti ritengono che la questione criminale non li riguardi. Il crimine sarebbe un atto neutro per la comprensione dei mercati, perché il suo contenuto sarebbe essenzialmente morale e giuridico. I fatti criminali costituirebbero dei processi privi di una propria eziologia. Questo pregiudizio è antico ed è sostenuto da gran parte degli autori.
Nel suo Cours complet d’économie politique pratique del 1840, Jean-Baptiste Say esponeva questo pregiudizio inaugurando – non senza ambiguità, peraltro – un punto di vista che la maggior parte di economisti avrebbero poi difeso. Citiamo il seguente passaggio perché costituisce lo sfondo dottrinale degli economisti, di destra come di sinistra, keynesiani o liberali: «Il medesimo oggetto può essere motivo di studi differenti. L’uomo stesso, elemento primo delle società, non è osservato differentemente dallo psicologo e dall’economista politico? Deve essere quindi permesso a quest’ultimo lo studio dei fenomeni che dalla prospettiva prescelta può far avanzare la conoscenza scientifica. In un guadagno fraudolento egli vedrà uno spostamento di ricchezza mentre il moralista vi condannerà un’ingiustizia. L’uno e l’altro guarderanno la spoliazione come deleteria: l’economista perché tale passaggio di ricchezza è dannoso alla produzione in senso stretto; il moralista perché esso costituisce una pericolosa offesa alle virtù, senza cui non può esserci una felicità duratura, né una società. Lo studio dell’economia politica e quello della morale, si prestano, come si vede, un mutuo sostegno. […] Tutte le scienze si ridurrebbero a una sola se non si potesse coltivare una branca delle nostre conoscenze senza coltivare quelle che ad essa sono associate; ma quale mente umana potrebbe abbracciare una tale immensità!».
In modo ancora più esplicito: «un furto, una perdita al gioco d’azzardo e altri accidenti, fanno passare una porzione di ricchezza da una mano all’altra, senza che la società complessiva diventi più povera o più ricca. Un accaparramento, generando una situazione di monopolio, arricchisce una classe di cittadini a sfavore di una o più classi; le fortune private sono alquanto mutevoli: gli uni vanno in rovina, gli altri diventano sempre più ricchi […]».
Se Jean Baptiste Say afferma che il crimine opera solo un «trasferimento» di ricchezza, egli in modo quantomeno contraddittorio riconosce che questo fatto è «dannoso alla produzione in senso stretto». E nondimeno, per riprendere un’altra delle sue espressioni, il crimine, essenzialmente, non è che una vicissitudine senza effetto generale.
Va così radicandosi presso gli economisti l’idea della neutralità del crimine. Questa idea la si ritrova in maniera ancora più netta in Léon Walras, nei suoi Eléments d’économie politique pure del 1874: «Che una sostanza sia ricercata da un medico per curare un malato o da un assassino per avvelenare la sua famiglia, è una questione molto importante da vari punti di vista, ma è del tutto indifferente dal nostro. La sostanza è utile, per noi, in ambedue i casi, e lo può essere di più nel secondo caso che nel primo.»
Il crimine è dunque un non soggetto per l’economia politica, a meno che – si è tentati di sottolineare con malizia – esso non arrivi a uccidere l’economista o il suo editore! C’è nel pensiero economico classico, e a fortiori liberale, un angolo morto, una rimozione originaria e profonda. Ciò che questi autori non vogliono vedere, ritraendosene infastiditi, è che il crimine non è solo una questione morale e giuridica ma un fatto di ordine pubblico, in grado di distruggere o trasformare i beni e i servizi, e il funzionamento dei mercati, in senso contrario all’interesse generale. La criminalità non è un gioco a somma zero ma una presenza che può alterare in modo permanente il funzionamento dell’economia politica. L’osservanza delle leggi – diritto penale, commerciale, civile, etc. – è infatti una condizione necessaria e indispensabile per il funzionamento dei mercati. Le leggi dell’economia possono essere sopraffatte dalla «mano invisibile del crimine», una «mano» non meno radicata e fondata scientificamente di quella descritta da Adam Smith.
È anche vero che la cecità al fatto criminale è aggravata da chiusure disciplinari, che conducono ad analisi riduttive e povere. Ogni scienza sociale, gelosa del suo ambito di studio, tende a chiudersi in se stessa. I paraocchi intellettuali e giurisdizionali hanno l’effetto di non farci cogliere l’essenziale. Per questo, l’osservazione dei sistemi politici ed economici non dovrebbe più fare a meno di una griglia di lettura criminologica. Allo stesso modo, la criminologia non dovrebbe più ignorare la scienza politica o la macroeconomia. Attraverso tali incroci e convergenze, non si tratta di ricondurre le realtà economiche o politiche a una sola causa. Si tratta, diversamente di fornire prospettive differenti ai fatti sociali, che sono più complessi di quanto lasciano apparire le loro dinamiche a prima vista. Non s’intende operare una ingenua reductio ad criminem ma porre l’oggetto di studio in una luce differente. Lo sguardo criminologico non entra in conflitto con i concetti e le spiegazioni della scienza economica. La stessa realtà può essere descritta in modo diverso, attraverso strumenti e concetti differenti. L’atto che gli economisti descrivono e spiegano attraverso la nozione di «comportamento asimmetrico», o di «azzardo morale», può perciò corrispondere a quello che il criminologo valuta in termini di frode. Allo stesso modo, derivando da atti ingannevoli, le famose «sofferenze creditizie», o «prestiti a rischio», che ricorrono spesso nelle crisi finanziarie sono in realtà dei prestiti fraudolenti.
Il rigido positivismo che prevale tra gli economisti porta di fatto a rappresentare le cose con eufemismi e concetti sterili. Ugualmente, le riflessioni sui «difetti di previsione» del mondo finanziario dovrebbero portare a conclusioni più chiare sugli effetti di questi errori: la capacità dei soggetti finanziari di liberarsi dalle regole, quindi di frodare. Non si comprende bene perché l’interpretazione delle crisi finanziarie dovrebbe rimanere un monopolio dei soli economisti ed esperti di finanza. Una concezione troppo catastale – ciascuno fa da sé – della conoscenza non provocherebbe una limitazione e un impoverimento della nostra comprensione degli eventi? È vero che il linguaggio specialistico degli economisti può trasformarsi rapidamente in una neolingua. Le parole vengono utilizzate allora per nascondere la verità, non per renderla più comprensibile. A proposito delle frodi che reggevano il funzionamento del Libor (London Interbank Offered Rate) durante la crisi dei mutui subprime, Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, descriveva così su «Le Monde», nel luglio 2012, queste manipolazioni: «Il comportamento di alcuni protagonisti e le violazioni sono inqualificabili e hanno messo in evidenza ancora una volta una gestione difettosa del processo». Ma si tratta di una semplice «gestione difettosa»?
Concluderei la questione delle interferenze e del rifiuto con un’osservazione che riguarda in modo specifico la Francia. I francesi sono sempre convinti della loro straordinarietà. Essi pensano di poter vivere al di fuori del mondo. A volte questo rifiuto del mondo si traduce in uno spirito di resistenza curioso: specie quando si tratta di preservare l’«eccezione culturale» di fronte al rullo compressore della macchina dell’intrattenimento anglosassone. Tuttavia, questo stato del pensiero riflette spesso una chiusura tipicamente provinciale. La Francia manifesta a volte un lato ingenuo o arrogante, che chiamerei «la sindrome di Chernobhil»: le nubi radioattive che si arrestano come per miracolo alle nostre frontiere! Il motivo «questo è impossibile in Francia» è stato dominante in questo paese fino agli anni 2000 in materia criminale. La discussione accademica e politica sul crimine era monopolizzata e regolata da un piccola comunità di sociologi che negavano al crimine ogni realtà. Per questi sociologi, si trattava solo di una questione di «devianza» o di «situazioni problematiche». Quanto ai fenomeni criminali, essi non li ritenevano degni di studio, perché insignificanti o di rilievo limitato. Occorrevano solo lo Stato e la «reazione sociale»: la produzione di leggi, l’azione della giustizia, etc. Era una criminologia senza criminali, che negava il suo oggetto di studio. E quando dico «criminologia», uso un termine improprio. Questi sociologi critici, sostenuti da professori di diritto penale interessati a conservare lo studio del crimine nelle loro giurisdizioni, si sono costituiti in lobby per opporsi alla creazione ufficiale di una disciplina criminologica nell’Università francese. Tuttavia, questo insegnamento è stato creato per un breve periodo nel 2012, per alcune settimane, e poi soppresso, in un lampo, per modesti tornaconti politici. In definitiva, esiste un rifiuto ideologico a studiare il crimine. Di qui la domanda semplice, tutta gramsciana: si può comprendere (nel senso di «prendere con», non di giustificare o di scusare!) e poi combattere quello che ci si rifiuta di studiare?
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