Un romanzo di Andrea Ribezzi introduce la figura
di Massimo Ravera, ispettore di Polizia
alle prese - nella sua prima
indagine - con un mondo affascinante, variegato,
inquietante che valica i confini
e le distinzioni etniche, in un intreccio
nel quale il “bene” e il “male”
si scontrano e si incontrano a ritmi serrati
Più che un romanzo poliziesco, lo si potrebbe definire un romanzo sulla Polizia, un ritratto tracciato con un taglio originale e uno stile “fresco”, coinvolgente. E sembrerà strano - un romanzo sul “fascino discreto (o indiscreto)” del lavoro del poliziotto, degli ambienti fisici e psicologici in cui questo lavoro si svolge, dei protagonisti e comprimari, non sempre distintamente divisi tra “buoni” e “cattivi”. E degli intrighi che fungono da sfondo a vicende già di per sé inquietanti.
“Sette Fine – La prima indagine dell’ispettore Ravera” di Andrea Ribezzi (Ibiskos Editrice Risolo, pagg.324, euro 12,00) ha un’altra caratteristica particolare: l’autore è, come il personaggio da lui creato, un ispettore di Polizia, e come il Massimo Ravera del libro, è nato e lavora a Trieste.
Trieste, la città “italianissima”, storica icona irredentista, dall’incancellabile memoria asburgica. Trieste, che dette i natali a Italo Svevo, nom de plume di Ettore Schmitz, triestino doc di madre ebrea e padre tedesco. Trieste che affascinò James Joyce con la bellezza ariosa e vitale delle sue strade, delle sue birrerie, delle sue donne. Lontanissima dalla grazia soave e decadente della vicina Venezia. Una bellezza complessa, però, composita, contenente pulsioni anche violente. “Una doppia personalità”, scrive Andrea Ribezzi nelle prime pagine del suo romanzo. Segnata da quarant’anni di storia travagliata. “Era iniziato tutto negli anni ’20. La politica nazionalista dello Stato italiano e successivamente il fascismo di confine, avevano messo in atto, nel litorale adriatico da poco entrato a far parte del Regno d’Italia, una sistematica aggressione ai diritti delle popolazioni slovene e croate che era sfociata nel 1941 nell’occupazione militare della Jugoslavia. Nell’autunno del 1943 e per un anno e mezzo, Trieste aveva provato il tallone nazista e vissuto il momento più buio della sua storia. In quei mesi era stato allestito nella Risiera di San Sabba un campo di concentramento con crematorio, l’unico in Italia. Nell’immediato dopoguerra era seguita la feroce ritorsione jugoslava perpetrata nei quaranta giorni di occupazione militare. Infine, per quasi un decennio, in concomitanza con lo scoppio della guerra fredda, c’era stata l’occupazione anglo-americana che aveva stemperato le pretese espansionistiche di Tito e preparato le condizioni del ritorno di Trieste all’Italia”.
E Ribezzi colloca la prima inchiesta dell’ispettore Ravera nel 1994, a pochi anni dalla fine delle guerre intestine che smembrarono la Jugoslavia in varie nazioni indipendenti, con un intreccio di polizie, servizi segreti, trafficanti, mafie (anche italiane) nel quale Ravera e i suoi colleghi - donne e uomini accorti e bene addestrati, ma non immuni dalle insidie dei sentimenti - devono per forza di cose fare i conti, perché la “antica vocazione mercantile” e cosmopolita di Trieste la porta ad essere al centro di quel Grande Gioco.
L’ispettore Ravera, 32 anni, appena entrato in Polizia dopo dieci anni nei Vigili del Fuoco, prende servizio nel commissariato di Villa Opicina, e subito si trova di fronte ai primi problemi sotto forma di rebus da risolvere: cominciando dal commissario, un napoletano incazzoso, cordiale, e spesso enigmatico, che è anche capo della Mobile e intrattiene rapporti discreti con strutture istituzionali “limitrofe”. Tutto nelle regole, ma le regole non sono solo quelle scritte, e l’ispettore deve imparare dei codici che nessuno si è sognato di insegnargli al corso di Polizia, ma che, dopo qualche sbandamento, intuisce e traduce correttamente, da triestino doc uso a ragionare senza badare troppo alle frontiere, gerarchiche e geografiche.
E fa bene a sbrigarsi, perché il Grande Gioco della sua prima indagine prende subito un ritmo incalzante, ondivago, e molto pericoloso. Per i poliziotti triestini i colleghi sloveni e croati sono vicini di casa. Ci si telefona – soprattutto con i cellulari, grandi attori di queste vicende – e ci si incontra, anche solo per un bicchiere di grappa, o di slivovitz. E per scambiarsi delle informazioni, magari false. Tra colleghi… e anche tra colleghi e colleghe, sempre con la giusta dose di fiducia-sfiducia.
Un romanzo sulla Polizia? Forse sarebbe più giusto dire una storia di “azione filosofica”, o di “filosofia dinamica”, che ha un poliziotto come figura emblematica di una professione che nella difesa della legalità presenta spesso interrogativi, sorprese e risvolti drammatici. Comunque, Andrea Ribezzi con questa “prima indagine” del suo ispettore si rivela uno scrittore perfettamente in grado di manovrare e dominare eventi e personaggi. E, ovviamente, attendiamo la “seconda indagine”, e le altre a seguire.
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