Cosa accade quando un migrante deve
abbandonare il nostro Paese. Il racconto di
chi, in divisa, condivide la disperazione
di quegli attimi
E’ notte, fa freddo, sono le 4 di mattina di un giorno qualsiasi, c’è uno straniero da rimpatriare.
Dentro di me penso: speriamo bene, è più grosso di me e sarà incazzato. Mi riguardo per l’ultima volta quel fascicolo voluminoso rosa, chissà poi perché i pregiudicati hanno i fascicoli rosa, un colore così delicato e naturale, simbolo di amore e dolcezza.
Violenza sessuale, stupefacenti, stupefacenti, stupefacenti, resistenza a P.U., furto. Ufhhhh!!!!!!!
Che dio me la mandi buona! O come direbbe Lui “Inshallah “.
Il mio collega ed io ci guardiamo, è ora! L’aereo non aspetta noi e non sappiamo quanto impiegheremo.
Si entra.
Cancello 1, cancello 2, cancello tre, ed ogni volta sentiamo i cancelli chiudersi dietro di noi a doppia mandata. Ora siamo dentro, noi e tutti loro.
Ci avviciniamo alla camera dove dovrebbe dormire, al suo letto, ma ahimè non è lui. Come al solito si sono scambiati le stanze per non farsi trovare, ed ora? Ci sono 50 letti da controllare , si sveglieranno tutti e sarà il solito casino, entri per farne uscire uno e ti trovi a discutere con tutti.
Speriamo che vada tutto bene. Cominciamo a cercare con l’operatore che ci accompagna. Controlliamo un letto poi un altro. Uno si agita. Gli sussurro: “Tranquillo non cerchiamo te”.
Finalmente eccolo, lo chiamiamo: “cCiao Mohamed toccate a te, sapevi che prima o poi saremmo venuti, il giudice te l’aveva detto”.
Non si alza, tiene gli occhi chiusi, non si muove. Di nuovo: “Mohamed tocca a te”. Le luci si accendono. Gli spieghiamo che lo stiamo portando a casa.
Cominciano ad entrare gli altri ospiti nella stanza (si sono svegliati tutti), troppa gente. Troppi di loro, noi siamo solo in due, e per loro siamo “i cattivi”.
Uno di noi si mette davanti alla porta. “Per favore uscite, ragazzi. Per favore! Si deve vestire lasciatelo stare 2 minuti, poi avrete il tempo di parlarci”. Qualcuno si muove, di malavoglia, il vociare è forte, sono più urla, non capisco cosa si dicono, parlano in arabo e non capisco una sola parola. Chi sa se si stanno mettendo d’accordo per fare casino o peggio per accerchiarci. Siamo veramente due sfigati.
Insisto con calma: “Per favore uscite”. Intanto Mohamed si è alzato è agitato nervoso, si veste con estrema lentezza, cerca le sue cose, urla frasi in arabo, torna uno con un paio di scarpe, un altro ospite con un caricabatterie.
Sei pronto? Andiamo? Mi urla addosso di non rompergli il cazzo! Il suo sguardo è pieno d’odio.
Questo è il momento più difficile, convincerlo ad uscire e dobbiamo sbrigarci, più tempo stiamo qui peggio è: si possono organizzare, non bisogna lasciargli il tempo di riflettere troppo.
Si siede sul letto, si china a prendere le scarpe e improvvisamente ha in mano una lametta, si taglia un braccio: una, due, tre volte. Il sangue comincia a scorrere lungo le mani fino in terra. No! Penso, speravo di non arrivare a questo! Il collega gli si avvicina, “ Che fai? Vai a casa, non hai famiglia lì? Mica vai in galera”.
Lui intanto urla tre parole in arabo e una in italiano, minaccioso!
Ci guardiamo, che fare? Avvicinarci e cercare di togliergli la lametta con la forza o provare a portarlo alla ragione? Bisogna decidere, l’aereo non aspetta e gli altri ci stanno guardando. Urlano frasi contro di noi e d’incoraggiamento a lui. Non è una bella situazione. Il collega gli si avvicina ha preso una coperta in mano, Lui non se ne è accorto, si dimena e pensa di essere forte ora.
E’ un attimo che gli tira la coperta sopra la testa e insieme ci buttiamo su di lui atterrando su un letto, per c..lo sul morbido. Ha le mani sotto la coperta, gli ordiniamo di lasciare la lametta, di non fare lo sciocco, di andare dal medico a curarsi, di parlarne con calma.
Gli altri si agitano, entrano nella stanza. Gli urliamo: "Fermi, non gli facciamo nulla. Tranquilli!”. Urlano anche loro.
Nel frattempo a Mohamed è caduta la lametta, che fortuna!!!!!! Gli immobilizziamo le mani con il velcro. Lo prendiamo da un braccio e dall’altro e lo trasciniamo fuori. Sono tutti incazzati. Non vogliono farci uscire ci si parano davanti. Corriamo per come è possibile portando di peso uno che non ha alcuna voglia di camminare. Diamo le spalle a tutti gli altri e ci avviciniamo al primo cancello tra urla, insulti, fischi, parolacce irripetibili.
“Calmi non gli facciamo nulla, lo facciamo per lui, per impedirgli di ferirsi da solo”.
C’è tensione, ci giriamo continuamente per vedere se qualcuno tenta qualcosa di strano. Il primo cancello è chiuso. Signore Dio è andata bene. Evidentemente non era tra i più amati dentro, altrimenti ci sarebbero venuti contro, come altre volte è successo a noi e ad altri colleghi. Si sentono urla e schiamazzi provenire dai vari settori ancora per un po’, qualcuno tira delle bottiglie di pipi verso i militari che sono lì di vigilanza, qualche sputo, parolacce ma noi intanto siamo in infermeria, lo stanno disinfettando e incerottando.
Tiro fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette, mi guarda, gliene do una! Non fumo; le compro solo per loro! Miracolo, mi dice anche grazie.
Penso siamo a metà dell’opera ma già è tanto essere ancora interi, già è tanto esser riusciti a tirarlo fuori da lì dentro. Già è tanto …. Manca ancora di accompagnarlo a bordo dell’aereo!
Già come se fosse semplice! Lui ha la forza della disperazione, una forza grande sconfinata contro cui neanche il più grosso e palestrato di noi può nulla.
Quella disperazione… per cui anche nell’occhio del più delinquente, vedi un seppur breve barlume di umanità.
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