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Novembre-Dicembre/2013 - Articoli e Inchieste
Immigrazione
Il Cie di Bologna, tra passato e presente
di Rita Parisi - Segr. Reg. Siulp Emilia Romagna

Dentro questi centri, sono spesso i poliziotti
a doversi far carico delle carenze organizzative
della Pubblica Amministrazione

Pensando al CIE mi viene in mente soprattutto che da qualunque punto di vista lo si osservi, esso appare inesorabilmente come la più inquietante delle “periferie”. L’anticamera degli accompagnamenti coattivi, dei rimpatri, almeno nelle demagogiche intenzioni della legge denominata “BOSSI FINI”, che è forse l’unica legge negli ultimi trenta anni cui sia stato dedicato un libro bianco (a cura di Giulio Calvisi e Aly Baba Faye), “privilegio” che non è stato riservato neanche alle peggiori leggi finanziarie.
Il CIE periferia della città, è ubicato presso un’ex Caserma dell’Esercito in una via della cintura periferica di Bologna, verso la “bassa”, vicino neanche un bar, i colleghi che vi prestano servizio sono esclusi da qualsiasi forma di socializzazione, più simili alla Polizia Penitenziaria con cui condividono la difficile funzione di garantire l’ordine e la sicurezza in un’isola di disperazione in cui tutto può accadere.
I cittadini extracomunitari ospiti del CIE vivono la periferia della loro esperienza migratoria .
La maggior parte di loro esce da un percorso processuale per aver commesso reati nel nostro Paese, ma la Bossi Fini in realtà riserva il CIE anche a coloro che hanno semplicemente perso i requisiti per avere un permesso di soggiorno pur non avendo commesso alcun crimine.
Il CIE è anche la periferia del trattamento penitenziario da cui provengono coloro che avendo espiato una pena in carcere, devono essere ora rimpatriati nel proprio Paese. Paradossalmente mentre la detenzione comprende anche una filosofia di reinserimento del detenuto, nel CIE sarebbe un “ossimoro”. Perché rieducare coloro che stiamo espellendo con la forza? Nessun percorso premiale per gli ospiti del CIE, il concetto di “buona condotta” è estraneo alla logica del trattenimento nel CIE che del resto nasce per dare una risposta forte all’immigrazione clandestina, uno strumento repressivo non rieducativo, teso all’esclusione non all’inclusione; nell’impeto dell’anti-immigrazione sappiamo bene che si è anche arrivati a criminalizzare l’immigrazione clandestina facendo una capriola dentro la Costituzione, peraltro riuscita male e bocciata a livello europeo.
Il CIE nasce come luogo di trattenimento dell’immigrato clandestino al solo ed esclusivo fine di verificarne l’identità ed ottenere dalle Autorità Consolari del suo paese di provenienza il lasciapassare per consentirgli il passaggio in frontiera. Ma poi qualcuno si è lasciato “prendere la mano”. Il periodo di trattenimento, commisurato nella prima versione alla ragionevolezza dei tempi dell’identificazione, è stato via via dilatato sino ad arrivare a diciotto mesi, uniformandosi comunque alla legislazione di altri paesi europei. Mentre Kofi Annan dichiarava al Parlamento Europeo che “Aprire le porte all’immigrazione legale, rappresenta una delle soluzioni dei problemi dell’UE e non una delle loro cause”, la legislazione del nostro Paese rispondeva alla domanda di sicurezza adottando una serie di misure destinate a limitare anche l’immigrazione legale (vedi ad esempio la durata del permesso di soggiorno che da quattro anni scendeva a due senza alcun nesso di causalità con eventuali violazioni di leggi penali), il segnale era chiaro: NO all’immigrazione né illegale né legale o meglio: l’immigrazione come gentile concessione e non come risorsa del paese, l’immigrato come ospite e non come cittadino, coniugando l’immagine dello straniero che delinque come paradigma e non come eccezione.
Il CIE è diventato, a tutti gli effetti, un luogo di detenzione, un luogo semplicemente punitivo nella speranza, commentava allora qualcuno, che l’extracomunitario scegliesse di tornare in patria piuttosto che rimanere all’interno del CIE . Quale patria? Il CIE in taluni casi rappresenta anche la periferia della cittadinanza. Mi riferisco a coloro che non possono essere rimpatriati semplicemente perché provenienti da paesi con cui non sono stati siglati accordi di riammissione e che non concedono alcun lascia-passare all’immigrato perché non ne riconoscono la cittadinanza. Dopo diciotto mesi di permanenza nel CIE quell’immigrato non è più cittadino di nessun paese del mondo. Un’ ombra, un uomo che non può neanche fare ritorno nel suo paese, l’unica sua identità è quella che sancisce la sua irregolarità e un nuovo ingresso nel CIE.
E’ paradossale che in questo paese detenuti condannati all’ergastolo per strage sono oggi ammessi al lavoro esterno, ma questa categoria di immigrati, quelli non rimpatriabili , sono abbandonati in una periferia esistenziale che può preludere solo alla contaminazione di ambienti criminali da cui sono facilmente reclutabili.
A chi giova tutto ciò? A sfamare la demagogia di cui è intrisa la politica della sicurezza degli ultimi anni?
Il CIE è anche la periferia del lavoro dei poliziotti; destinati a fare da cuscinetto, come sempre, nel difficilissimo compito di coniugare in questo luogo, che è anche la periferia dei diritti umani, la fredda e rigorosa applicazione della legge con quella solidarietà che è comunque un valore costituzionale. Non deve essere certo facile interfacciarsi con una realtà di uomini e donne senza speranza, alcuni di loro pericolosi pregiudicati, alcuni tranquilli, alcuni disposti a qualsiasi cosa pur di non farsi rimpatriare, altri collaborativi, magari chiedono solo di farsi portare le loro cose e i loro vestiti dai parenti prima di imbarcarsi sul volo che li riporterà nel loro paese, alcuni disposti a raccontare furbescamente qualsiasi falsità pur di ottenere l’asilo politico, altri rassegnati al loro destino. I colleghi hanno davanti una realtà così complessa da fare fatica a capire veramente chi si trovano di fronte. Dentro un freddo e spoglio edificio finiscono come in un imbuto storie di emigrazione iniziate anni e anni prima, ma anche il percorso di chi ha commesso gravi reati e per il quale diventa impossibile qualsiasi forma di comprensione .
Il CIE di Bologna, in questo momento, è anche la periferia di sé stesso, è stato chiuso dopo che il Prefetto di Bologna ha revocato il contratto sottoscritto dalla Cooperativa “Oasi”, che ne aveva preso in carico la gestione, per palesi inadempimenti degli obblighi assunti.
Il garante dei diritti delle persone private di libertà, l’ASL, la Prefettura, le Autorità locali, tutti hanno preso coscienza delle difficili condizioni in cui versava la struttura bolognese. Mi risulta che nessuno abbia mai parlato con i lavoratori di Polizia, nessuno ha utilizzato la loro decennale esperienza per conoscere meglio quella realtà, per riconoscere loro quel ruolo complementare e sussidiario grazie al quale forse tante situazioni ad “alta tensione” sono state risolte solo ed esclusivamente grazie alla loro capacità di attraversare quella disperata umanità senza che lo strumento della giustizia diventasse mai giustizialismo. Il poliziotto come spesso accade deve farsi carico delle carenze organizzative e gestionali della Pubblica Amministrazione. C’è preoccupazione, oggi, alla vigilia della riapertura del CIE. E’ imminente la pubblicazione del bando per assegnare di nuovo l’appalto ma le risorse sono diminuite di due terzi. All’apertura del CIE nel 2002, la somma stanziata per retribuire chi avesse preso in carico la gestione, era di circa 80 euro pro-capite al giorno, oggi si è assottigliata sino ad arrivare, sembrerebbe, a 30 /40 euro pro-capite al giorno, ma con una sostanziale differenza: si aggiudicherà l’appalto il concorrente che offrirà di meno ( gara al massimo ribasso).
Un’analisi attenta dei costi di gestione porta a quantificare in un minimo di 45 euro al giorno pro-capite la somma necessaria a garantire i servizi minimi essenziali.
Ancora una volta la demagogia si scontra con se stessa, con la sua impossibilità di tradursi in misure concrete e compatibili con il sistema economico. Su chi ricadranno le conseguenze di uno stanziamento insufficiente a garantire la vivibilità all’interno del CIE? In primis sugli “ospiti”, ma subito dopo sui lavoratori di Polizia che dovranno affrontare le conseguenze del disagio sofferto dagli extracomunitari in termini di rivolte, di atteggiamenti autolesionisti, di aggressioni e saranno loro l’unico Stato che gli immigrati avranno di fronte perché in quella periferia ci saranno solo loro.

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