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Novembre-Dicembre/2013 - Articoli e Inchieste
Memoria
“Il dolore sia lievito di un nuovo impegno civile”
di Michele Turazza

A cinquant’anni dalla disastrosa frana
del Monte Toc, l’Avvocato Sandro
Canestrini ripercorre per Polizia e
Democrazia la vicenda del Vajont

9 ottobre 1963, ore 22.39: “Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del grande Vajont, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime”. Così la giornalista Tina Merlin nel suo libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe (Cierre edizioni).
Un olocausto con duemila vittime. Una catastrofe costruita, artificiale, che di naturale non ha niente. Iniziata con un’illegalità, apparentemente insignificante: la mancanza del numero legale nel Consiglio superiore dei lavori pubblici che il 15 ottobre 1943 espresse parere favorevole alla costruzione dell’invaso.
Lo sottolinea Sandro Canestrini, avvocato trentino che fece parte del collegio di parte civile in difesa delle vittime della tragedia, a cui Polizia e Democrazia ha chiesto di ripercorrere quegli eventi nel cinquantesimo anniversario: «Il progetto di costruzione della diga del Vajont inizia subito con un imbroglio. Negli anni Trenta del secolo scorso una società elettrica capeggiata dal conte Volpi di Venezia, la Sade, progetta la costruzione di una diga dal disegno futuristico, mai sperimentato prima. L'idea era di raccogliere le acque di cinque torrenti montani in un'unica diga, alta 261 metri. Già dal primo momento la progettazione ebbe aspetti poco chiari. Malgrado questo, il Ministero responsabile diede l'assenso alla costruzione il 15 ottobre 1943, pur mancando il numero legale dei membri. La Sade inizia immediatamente con gli espropri, evacuando centinaia di famiglie. La costruzione vera e propria inizia nei primi anni del dopoguerra, nel 1956, prima ancora del permesso del Ministero. La Sade nulla temeva evidentemente da parte dei politici e del governo».
Sade sta per Società Adriatica di Elettricità. Fondatore e capo, il conte Volpi di Misurata di cui la Merlin ci offre un efficacissimo ritratto: “[…] sapeva che gli affari migliori si compiono sempre con le protezioni e le complicità politiche, con gli intrallazzi, con l’inganno. Fin che fu in vita egli servì fedelmente – se così si può dire – ogni governo, in cambio di protezioni, finanziamenti, prebende e titoli nobiliari. Costruì un impero economico personale, specialmente sotto il fascismo (del quale fu ministro delle Finanze), appropriandosi di terre, banche, stampa, industrie. Sempre pronto ad annusare i cambiamenti politici, dopo l’8 settembre 1943 assume una posizione antifascista scappando in Svizzera, dove si mette in contatto con uomini della Resistenza”.
Un potere immenso, quello della Sade, che, secondo la giornalista bellunese, fa assomigliare molto la storia del Vajont a quelle di oggi. Un potere distorto, marcio, che corrompe e corrode, che si fa Stato. Il conte Volpi di Misurata nel 1934 fa approvare una legge per se stesso e per i suoi interessi, secondo la quale alle società idroelettriche concessionarie sarebbero state rimborsate le spese per la realizzazione degli impianti fino all’80% del costo. E’ stato scritto che la Sade non è uno Stato nello Stato; la Sade è lo Stato.
«I periti interpellati – prosegue Canestrini – erano stipendiati della Sade stessa, le perizie presentate imprecise e lacunose. Lo si notò subito: durante la costruzione delle strade di accesso si aprirono crepe profonde sulle pendici dei monti circostanti. Non erano state fatte perizie sulle pendici dei monti sopra la diga, limitandosi a perizie sui pendii sotto la diga. Tre anni dopo, un geologo austriaco interpellato, Leopold Müller, predisse il pericolo. Identificò sul monte Toc una falda a forma di M di terreno instabile lunga 2 km e alta 600 metri. Restò inascoltato. Anzi: il geofisico Pietro Caloi sostenne che la roccia era stabile e sicura. Un altro, invece, Edoardo Semenza, calcolò la presenza di 200 milioni di metri cubi di pietrame che si potevano mettere in movimento. Fu suo padre, geologo anche lui, che minimizzò e convinse il figlio a ritirare la perizia. Il governo e la Sade decisero di ignorare e di nascondere il pericolo».
2 febbraio 1960, la Sade inizia a riempire l’invaso senza autorizzazione ministeriale, che arriverà quattro giorni dopo, per una quota massima di 595 metri. Ma la nazionalizzazione delle imprese produttrici di energia elettrica è alle porte e bisogna arrivare al pieno invaso entro l’anno. L’acqua cresce, giorno dopo giorno, mese dopo mese ed il monte Toc inizia a dare i primi segnali. Nel novembre dello stesso anno, l’evento temuto: una grande frana si stacca e precipita nel lago: “E’ un intero appezzamento di bosco e prato, interessante un fronte di 300 metri – scrive Tina Merlin. Solleva una grande ondata che travolge come fuscelli i muri delle case vuote che affiorano dal lago […]. Per puro caso non fa vittime”.
La montagna si sta sgretolando, l’acqua che sale impregna i fianchi del monte Toc, che in friulano significa malato, marcio. Da sempre i vecchi del posto sanno che con quel monte non si scherza. Pian piano si costruisce la catastrofe. «Sulle pendici del Toc – spiega Canestrini – comparvero crepe simili a voragini a forma di M, come profetizzato da Müller, segnalando esattamente i confini della frana futura. Ora il pericolo era agli occhi di tutti. Persino Caloi ebbe un ripensamento. Solo il geologo Francesco Penta, nominato dal Ministero, scrisse che nessun pericolo esisteva. Nel dicembre del 1961 arrivò l'assenso per la riempitura completa dell'invaso che si protrasse fino all'ottobre 1962 con continue scosse sismiche avvertite in tutti i paesi circostanti. L'ultimo avviso di pericolo si ebbe nel luglio 1962 da parte di alcuni ingegneri civili specializzati. In laboratorio avevano dimostrato che l'acqua spostata da una eventuale frana avrebbe inondato la vallata sottostante. Ma anche su questo avvertimento si mantenne il silenzio».
I tecnici della Sade sanno, ma non informano i commissari ministeriali delle prove effettuate in laboratorio. Poco importa. A fine anno, la Sade non esisterà più. Nel dicembre del 1962 è pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge istitutiva dell’Enel. La Sade viene inglobata dall’Enel, il Vajont passa allo Stato. Canestrini nella sua requisitoria cita un giornalista cattolico, Gervasoni, che scrive: “La Sade è il padre, l’Enel il figlio, corruzione intrallazzi carenze legislative interessi e frenesie di potere che uccidono la ragione e negano l’evidenza, sono lo Spirito Santo. Si metta tutto assieme e si mescoli ben bene e si avrà il mistero del Vajont”.
«Nell'aprile del 1963 – prosegue Canestrini – il Ministero dette via libera al riempimento completo. Le vibrazioni attorno all'invaso aumentarono di intensità. Il 3 settembre una forte scossa sismica allarmò gli abitanti, ma i sindaci tranquillizzarono. Il 15 settembre il fianco del monte Toc era calato a valle di 22 centimetri. I responsabili iniziarono a sentirsi in apprensione, e pensarono di aprire le chiuse per alleggerire la pressione dell'acqua».
L’acqua cresce, la terra trema. Boati, scosse continue. La costruzione della catastrofe è quasi ultimata.
«Quello che accade dopo lo sappiamo tutti – conclude l’avvocato. La sera del 9 ottobre 1963 una valanga d'acqua, causata da una frana precipitata nel lago, distrusse cinque paesi e ne danneggiò gravemente altri. Alcuni geologi ricostruirono la caduta: il continuo movimento aveva surriscaldato l'acqua infiltrata fra creta e roccia stabile. In un collasso termoplastico la massa precipitò con una velocità di 100 km/h nel lago della diga. Solo alcuni fra i responsabili vennero condannati dopo decenni di processi, celebrati a centinaia di chilometri lontano dalle valli colpite. L'Enel, subentrata alla Sade , pagò l'equivalente di 11 milioni di euro ai superstiti. La diga, oggi, è inutilizzata».
Due giorni dopo la tragedia l’allora Presidente del Consiglio Giovanni Leone salì in elicottero ad Erto, assicurando alla gente che sarebbe stata fatta giustizia. Pochi mesi dopo, divenuto semplice deputato, accettò di far parte del collegio difensivo dei dirigenti della Sade-Enel. Il processo non si tenne a Belluno, sede naturale, ma a L’Aquila, dove fu spostato per legittimo sospetto, costringendo i parenti delle vittime ad estenuanti viaggi in autobus lungo la penisola per raggiungere il Tribunale.
L’avvocato Canestrini pronunciò la sua arringa il 23 settembre 1969, parlando per diverse ore: “[…] il processo è esemplare perché il dolore è lievito di un nuovo impegno civile; perché si deve ristabilire il valore primario ed insostituibile della vita umana di fronte a qualsiasi feticcio del profitto o del progresso tecnico; perché si deve gridare qui, e dimostrare, che il potere economico, il prestigio scientifico e la posizione dominante nell’apparato dello Stato non devono garantire l’impunità e assolvere da responsabilità”.
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Fenomeno naturale?

[…] vi è un altro punto sul quale credo bisogna essere assai chiari: è quello relativo ad una argomentazione fondamentale della difesa degli imputati, e cioè che il disastro è accaduto per fatalità di fenomeno naturale. Ossia, in altre parole, che la colpa di ciò che è successo è del buon Dio. E’ una giustificazione che cominciò a nascere quando questi uomini si accorsero che passavano i mesi e gli anni, che i veneti non avevano fatto giustizia sommaria, che l’opinione pubblica iniziava ad essere disposta ad inghiottire anche le ipotesi più assurde.
Nel rischio che a ciò qualcuno creda, diciamo che in tutto il processo corre la prova evidente, palpabile, sovrana che ciò che è accaduto è colpa dell’organizzazione umana, dell’orgoglio, dell’avidità, della legge del profitto. […] Sarà bene intenderci: noi non vogliamo qui spendere neppure una parola a proposito della colpa, che assurge a gradi di criminalità impensabili, di quelli di costoro che sapevano, con anticipo di mesi ma certamente di settimane, anche il torno dei giorni in cui tutto sarebbe venuto giù, e non vollero dare l’allarme e non vollero dire la verità. Che dobbiamo dire infatti di chi può assistere freddamente ad un’agonia, che egli può evitare e che non vuole evitare? No, noi intendiamo l’altro aspetto della questione, quello appunto delle pretestuose colpe della natura nel disastro.
Non c’è nulla di meno naturale della frana del Toc: abbiamo già visto che la SADE ben sapeva da anni quale era l’esatta natura geologica della montagna, ben aveva capito che le frane e gli smottamenti, i rumori e i movimenti denotavano che l’irreparabile stava per compiersi, in diretta ed unica relazione con lo sfruttamento della diga e la presenza di enormi quantità di acque. In questo nostro paese dove le sciagure nazionali si ripresentano a ritmi sempre più frequenti ad una opinione pubblica non del tutto cosciente delle loro cause, e dove al destino e alla fatalità vengono addossate le colpe della negligenza dei responsabili, il fenomeno del Vajont è un esempio da manuale.
La frana del monte Toc era stata prevista tre anni prima, calcolata in tutte le sue possibili conseguenze, compreso lo sterminio di una intera popolazione. Imputata la SADE, imputato l’Enel, ma anche certamente lo Stato che non è ignorante della insaziabile avidità del monopolio privato e delle compiacenze dell’Ente di Stato. Lo Stato che, come è stato scritto, mostra un uguale volto di follia burocratica ai superstiti del Vajont, agli alluvionati del Polesine e del Biellese, ai terremotati dell’Irpinia e della valle del Belice; “lontano dagli uomini” come è stato giustamente detto, ma assai vicino agli interessi del grande capitale.
[…] alla radice di questi cosiddetti fenomeni naturali vi è l’arretratezza civile, la carenza urbanistica, la presenza della speculazione, il marcio della burocrazia che fanno si che una pioggia diventi un dramma, come in Piemonte, o un terremoto, come in Sicilia, diventi una tragedia. A proposito: dov’è la naturalità del crollo di Agrigento? E il monte Toc non era già stato da decenni definito “una montagna senza piedi”? […]
Le inadempienze, le colpe nei confronti dei decisivi problemi della montagna e del suolo, dei fiumi, della sicurezza e della vita della gente, hanno nomi e volti precisi, sigle prestigiose, con apparati tecnici e culturali al loro servizio.

[Stralcio della requisitoria dell’Avv. Sandro Canestrini, pubblicata nel volume Vajont: genocidio di poveri, Cierre edizioni, 2003, pp. 122, 11,50 euro].
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Chi è Sandro Canestrini

Nato nel 1922, si è laureato in giurisprudenza all’Università di Firenze con maestri come La Pira e Calamandrei, discutendo la tesi con Norberto Bobbio. Ha partecipato alla Resistenza e si è iscritto all’Ordine degli Avvocati nel 1948. Per due legislature è stato membro del Consiglio comunale di Rovereto e della Regione Trentino Alto Adige. Membro di Amnesty International, già presidente nazionale del Movimento nonviolento per la pace e dirigente dell’Associazione Giuristi Democratici, ha prestato assistenza di parte civile nel primo processo antimafia di Palermo, al processo Valpreda, al processo Vajont a L’Aquila e in numerosi processi per reati ambientali. Ha collaborato come assistente di parte civile al processo di Trieste contro gli aguzzini nazisti della risiera di San Sabba e a quello di Corte di Assise di Verona contro Misha Seifert (imputato di sevizie nel campo di concentramento di Bolzano) per conto della comunità ebraica di Merano. Ha difeso i diritti delle minoranze politiche, etniche e Carlo Feltrinelli. Tra le sue pubblicazioni: Il processo di Milano nelle arringhe della difesa, Vienna 1966; Legittima suspicione e minoranza etnica di lingua tedesca, Varese 1966; L’ingiustizia militare, Milano 1973; I diritti del soldato, Milano 1978; La strage di Stava negli interventi della parte civile, Trento 1989; Ricominciare: 1945-1947 (una critica ai processi contro i collaborazionisti con i nazisti in provincia di Bolzano); Vajont: genocidio di poveri, Cierre edizioni 2003.
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Per saperne di più

Questo è il romanzo che è stato scritto prima della catastrofe del Vajont. Il testimone è il suo scrittore che racconta e profetizza prima di quel 9 ottobre 1963, giorno in cui persero la vita oltre duemila persone fra Longarone e dintorni. Il romanzo vede la luce solo oggi, a quasi 50 anni da un disastro rimasto impresso a caratteri cubitali nella storia del Paese per cause legate all’incuria delle istituzioni, alla cattiva gestione della cosa pubblica, allo sfruttamento più inconsulto dell’ambiente e delle sue risorse.
Il testimone è il giornalista Armando Gervasoni: è nato a Vicenza nel 1933 e fino ai primi mesi del 1963 lavora alla redazione di Belluno del Gazzettino. Un ruolo professionale che gli consente di seguire “in diretta” la costruzione della grande diga commissionata dalla società elettrica Sade, esprimendo nelle pagine di questo suo romanzo le inquietudini, le paure, i dubbi e i sospetti generati dalla costruzione di un’opera di colossali proporzioni.
Quando avviene il disastro, Gervasoni è già stato trasferito alla redazione di Rovigo, ma si reca come inviato del Gazzettino a Longarone e negli altri paesini veneti colpiti da quello spaventoso Tsunami in miniatura. Gli tocca così l’ingrato e doloroso compito di raccontare a posteriori una vicenda che aveva già avuto modo di “avvertire” e in qualche modo “vedere”, trasformando in narrazione letteraria le tensioni e i conflitti di un territorio profondamente segnato dal progetto prima, e dall’edificazione poi, di quell’immensa diga.
Il romanzo dovrà attendere per essere pubblicato. Perché nel 1968, a soli 35 anni di età, Armando Gervasoni, che intanto aveva iniziato a scrivere per il settimanale Panorama, trova la morte in un incidente stradale.
Oggi, grazie all’interessamento degli eredi di Armando Gervasoni, che hanno coinvolto nella loro iniziativa lo scrittore Stefano Ferrio come curatore del libro, «I corvi di Erto e Casso» giunge finalmente al suo meritato esito, riservando al lettore le sorprese di un linguaggio diretto e incandescente, di un’emozionante ricostruzione d’epoca, di una galleria di personaggi scavati con la precisione fotografica del reporter. Nonostante sia trascorso mezzo secolo dai fatti cui si riferisce, non è certo tardi per scoprirlo e apprezzarlo come grande, vivido, dolente racconto corale di un capitolo così tristemente esemplare della storia del nostro Paese [dal risvolto di copertina].

Armando Gervasoni - I corvi di Erto e Casso. Voci dal Vajont. A cura di Stefano Ferrio. Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti. Gabrielli Editori. 2012, pp. 178, 14,00 euro.

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