Il racconto di una giornata trascorsa insieme alle detenute
di Rebibbia, dove la cooperativa Ora d'Aria gestisce il laboratorio
di pelletteria. Borse, portamonete, cappellini e collane. Semplici
oggetti ottenuti dalla lavorazione di materiali di scarto,
che diventano pezzi unici in grado di regalare la speranza
di un domani diverso a chi ha perso la libertà
"E se la prigione assomiglia agli ospedali,
alle fabbriche, alle scuole, alle caserme,
come può meravigliare che tutte queste
assomiglino alle prigioni?".
Michel Foucault, "Sorvegliare e punire. La nascita della prigione", 1975.
Arrivo a Rebibbia dalla via Tiburtina, in un freddo ma assolato pomeriggio di fine novembre. E subito scopro che l'ingresso dell'ala femminile resta nascosto, lontano da quello principale che con le sue alte cancellate domina la consolare che collega Tivoli a Roma. Svolto sulla destra in via Casal de' pazzi. Sorrido amaramente pensando alla cinica ironia della toponomastica. Immagino che in carcere il demone della follia sia uno dei fantasmi contro cui lotti giorno e notte. Un muro alto e infinito. Poi, alla fine, l'ingresso, al civico 92 di via Bartolo Longo.
In guardiola, alla quale si accede oltrepassando una pesante porta di ferro azzurra, c'è un agente. E' un uomo giovane, l'aria seria ma gentile. Mi sgrida, perché prima di imboccare l'entrata pedonale, mi ero affacciata sul passaggio dove transitano i blindati, spiata dalle telecamere di sicurezza. "E' la prima volta che vengo" mi scuso, tentando di far passare la deontologica curiosità del giornalista per banale sbadataggine. Accenna un sorriso. Alcuni impiegati, uscendo, lo salutano "Ciao Angelo". Mi chiede i documenti e, verificati i permessi, mi spiega il percorso che conduce all'ufficio degli educatori.
Ad accogliermi c'è Noemi, voce dolce, sguardo stanco. Avevamo preso accordi al telefono e continuiamo a darci del lei anche se ci riconosciamo coetanee. Mentre mi accompagna lungo i freddi corridoi che portano alla pelletteria, passando per porte blindate e sorvegliate, mi dice che a Rebibbia femminile le detenute sono quattrocento. "La struttura è a regime – conferma- non abbiamo problemi di sovraffollamento". Di donne e carcere si parla poco, vista la ridotta presenza femminile (circa il 5% del totale dei detenuti), anche se, a livello europeo, i dati dell'Ue parlano di una media in continua crescita. In Italia le detenute sono poco meno di tremila. In prigione le donne ci finiscono soprattutto per furti, scippi, reati legati al consumo di stupefacenti, rapine. La maggior parte di loro (ma questo vale anche per gli uomini), prima di finire in cella viveva già in condizioni di disagio e marginalità sociale. Il 34% delle detenute ha il diploma di scuola media inferiore mentre il 15,5% la licenza elementare. Tra loro molte sono straniere: non essendo regolarmente residenti in Italia e non avendo denaro, non riescono nemmeno ad avvalersi del gratuito patrocinio e devono affidarsi a un avvocato d’ufficio – mai lo stesso- presente solo alle udienze, che raramente conosce la loro storia giudiziaria.
Ed è proprio la storia di una detenuta immigrata, finita recentemente con un foglio di via, ad aver lasciato l'amaro in bocca a Marilena, una delle fondatrici della cooperativa sociale Ora d'Aria, che a Rebibbia gestisce una pelletteria dove le detenute hanno la possibilità di lavorare. Il laboratorio è un'ampia stanza rettangolare, piena di cartamodelli appuntati alle pareti, macchine da cucire e quell'odore tipico di ferro a vapore che mi ricorda la stanza dove mia nonna, sarta ancora in attività, cuce e stira. Marilena è una donna forte, attenta come una mamma severa. Mi scruta da dietro gli occhiali, cercando di capire se rivolgerò domande sfrontate o indelicate alle sue ragazze. "Questo è un laboratorio nato molto tempo fa – racconta - Noi lo abbiamo in convenzione da tre anni. Dai macchinari che abbiamo trovato nacque, credo, come calzaturificio, poi trasformato in pelletteria. Noi invece lo utilizziamo per produrre borse e accessori con materiali di scarto e di riuso come i banner pubblicitari dismessi in PVC. Quindi ricicliamo un rifiuto speciale". Sorrido, e subito il livello di empatia sale. Si rilassa, poi prosegue. "Le ragazze che fanno domanda per lavorare qui vengono selezionate in base alle competenze richieste che sono comunque minime anche perché sono previsti dei corsi di formazione, come quello che sta per concludersi, finanziato dalla Provincia di Roma. Sono piccoli aiuti, ma utilissimi per noi." Continua, guardando con aria complice una donna bionda alla sua sinistra. "Il reinserimento può avvenire attraverso una serie di attività. Noi abbiamo scelto di puntare sul lavoro perché la rieducazione riguarda anche la sicurezza e la sicurezza non può essere solo repressione: le statistiche parlano chiaro, e ci dicono che la recidiva si abbatte se il detenuto, quando esce, ha la possibilità di lavorare". "E dopo?" le chiedo "che succede fuori?". Lo sguardo di Marilena si anima. "Magnifica domanda – esclama - mi dà la possibilità di raccontare la storia di una detenuta immigrata che è stata qui con noi per tre anni e mezzo in attesa di giudizio. La settimana scorsa il processo è andato a sentenza e lei, scarcerata nottetempo sotto una pioggia battente, è stata prima portata alla sezione immigrazione della questura e poi a Ponte Galeria da dove entro sette giorni uscirà con un decreto di espulsione perché accusata del reato di clandestinità. Perché l'hanno portata al Cie (Centro di identificazione ed espulsione n.d.r.)? - si chiede e mi chiede ancora incredula - "cosa dovevano identificare? Era più che nota e aveva con noi un contratto di assunzione. La clandestinità è una condizione umana: come può essere considerata un reato? Questa storia ci ha causato tanta rabbia e personalmente ho avuto anche un momento di sconforto perché questo per noi è un impegno civile, cui dedichiamo tempo sottratto alla famiglia, alla nostra vita privata, perché ci crediamo e lo facciamo con passione. E allora mi chiedo, a che serve se poi fuori non ci sono prospettive? Mi sembra che tutto il nostro lavoro venga vanificato da un sistema sbagliato, ingiusto e disumano".
La donna bionda che ci ascolta mentre sta cucendo delle etichette su un cappello mi guarda e i suoi occhi celesti mi colpiscono profondamente per la forza e insieme la commozione che trasmettono. Si chiama Elena, ha 60 anni e una lunga pena da scontare. "Vuoi sapere cosa significa per noi lavorare qui? Ti senti donna, ti senti viva, ti senti realizzata, non ti annulli. Non stai chiusa in gabbia, perché non sono le sbarre alle finestre che ti levano la libertà, ma è il non fare niente, non tenere la mente impegnata". Le domando da quanto tempo è a Rebibbia "Da nove mesi – racconta- e appena entrata ho fatto tutte le domande. Siamo in tante qui, e il lavoro o i posti per i corsi non ci sono per tutte. Non pensavo di essere scelta, invece il 7 luglio, proprio il giorno del mio compleanno, mi hanno dato la risposta che ero stata accettata. Ringrazio la cooperativa Ora d'Aria di avermi offerto questa opportunità, perché in galera lavorare e mantenerti è l'unico modo di non perdere la dignità di essere umano". Vedo brillare quegli occhi liquidi. Non voglio andare oltre, nel rispetto del profondo senso di dignità che questa donna trasmette.
Mi alzo dallo sgabello su cui mi avevano fatto accomodare per avvicinarmi ad una giovane donna che sta cucendo a macchina. Le chiedo che cosa sta realizzando. "Una trousse in crinoline" sorride. Natàlia ha 34 anni. In Ucraina faceva l'insegnante di danza e musica, come testimonia la piccola chiave di violino tatuata sull'anulare della mano destra. "Sono dentro da quattro anni e da tre lavoro qui. Conto di uscire tra un anno. Resterò in Italia perché non ho più nessuno e vorrei continuare a fare questo mestiere. Personalmente questo lavoro è stato un punto di riferimento, materialmente e psicologicamente. In carcere è molto importante avere sempre la testa occupata: se tu programmi la tua giornata il tempo corre velocemente e non ti fissi su dove stai e perché ci stai. Pensi a cose pratiche, occupi il cervello, e questo ti aiuta tanto, aiuta a stare meglio. E poi acquisisci una nuova professionalità: io non avevo mai cucito prima". Mi diranno dopo che Natàlia ha le mani d'oro. E' stata lei a realizzare la borsa vincitrice del concorso "La libertà in una borsa" il cui ricavato andrà alla cooperativa (vedi box n.d.r). "Mi hanno fatto i complimenti per quella borsa -racconta cosciente del suo talento - mi hanno detto che è di alta qualità. E di questo noi abbiamo bisogno: di una soddisfazione, di un riconoscimento personale da parte di qualcuno che ti dice una parola buona. Noi qui paghiamo la nostra pena nei confronti della società ma abbiamo bisogno di qualcosa che ci faccia sentire di non essere dei rifiuti. La vita è una lotta: c'è chi, come me, deve affrontare una battaglia più dura. Io sono caduta e ho sbattuto in pieno la faccia. Ma l'importante è rialzarsi, credere in se stessi e migliorarsi sempre. Io cerco di prendere il lato positivo di questa esperienza per maturare ed essere più forte. E' difficile, ma ora posso dire che comincio a tenere la testa alta".
Il mio pomeriggio a Rebibbia si conclude così. Vorrei restare ancora nella pelletteria, dove si respira un'atmosfera di calma e concentrata serenità, accanto a quelle donne così vere. Ma il tempo a mia disposizione è finito. Saluto tutte, augurando loro buona fortuna. E mentre mi dirigo verso il parcheggio penso che, nonostante gli errori o il destino avverso, ognuno di noi può scendere nel suo personalissimo inferno per poi risalire e decidere di cambiare.
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Ora d’Aria mette la libertà in una borsa
Ora d’aria è una cooperativa sociale fondata nel 2011 da persone libere e recluse per promuovere il lavoro all’interno del carcere. L’idea nasce dall’esperienza di Ora d’Aria onlus di Roma e di Terni, associazioni che dalla fine degli anni '80, si occupano di carcere con la finalità di recuperare i soggetti alla legalità attraverso un percorso sociale e lavorativo. Secondo la filosofia della cooperativa, il reinserimento sociale è possibile soltanto attraverso una buona occupazione. Creare posti di lavoro all’interno del carcere significa dare alle persone recluse la possibilità di impegnare proficuamente il proprio tempo e percepire un salario adeguato. L'obiettivo è quello di pensare non ad un lavoro qualsiasi, ma un lavoro creativo che racchiuda negli oggetti la traccia di coloro che li hanno realizzati. Cifra stilistica distintiva delle produzioni targate Ora d'Aria, sono i materiali, rigorosamente riciclati, come i classici banner pubblicitari dismessi che per prima la Fao mise a disposizione della cooperativa. Per chi fosse interessato all'acquisto di questi oggetti, davvero molto belli e unici perché realizzati a mano, occasioni di vendita sono i mercati alternativi o quelli natalizi organizzati dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Ci sono anche alcuni punti vendita, come quello in via del Cardello a Roma o quello presso il bookshop di Caos in viale Campofregoso a Terni. Alcuni prodotti si possono poi trovare sempre nella capitale, in via di Torre Argentina, presso LeArtigiane (shop - punto vendita - spazio espositivo della creatività tutta al femminile), promotrici del concorso "La libertà in una borsa" (appena concluso) rivolto alle imprese artigiane al femminile. La borsa vincitrice, A4Freedom (foto a lato??) realizzata dalle detenute di Rebibbia sarà venduta presso LeArtigiane. Il ricavato andrà alla cooperativa Ora d'Aria.
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