Il 2013 non ha entusiasmato gli spiriti federalisti: la road-map resta intrappolata e la Germania della Grande Coalizione ha rinviato in questi giorni l'unione bancaria a "dopo la soluzione della crisi". Come se la crisi potesse spontaneamente mettere noi - anche la Germania - al sicuro senza rafforzare l'evidente convergenza degli interessi comunitari e senza superare le politiche di austerità che, comunque, attentano alla democrazia. D'altra parte proprio le banche portano non poche responsabilità della crisi internazionale e, anche se il fondo unico chiamato "salva banche" ha le sue ragioni, l'Europa rischia di restare al palo rispetto agli Stati Uniti, oggi in crescita dopo aver fatto salire il Pil al 4 % (l'Europa è all'1 %) con pratiche opposte. D'altra parte tutti restano afflitti per la scomunica di Standard and Poor's (ma che legittimazione di diritto avrà mai S&P?).
Resta, dunque, la politica impropriamente detta "del rigore", di fatto solo devastante, soprattutto per le fasce sociali più esposte (ovunque il ceto medio sta sparendo!). Sarebbe solo doloroso; ma diventa distruttivo se, invece, prevale l'antieuropeismo strisciante e, in particolare, la campagna contro la moneta unica, obiettivo comune dei non disinteressati populismi e nazionalismi europei all'opera (perfino in Finlandia) già da tempo.
A mano a mano che si avvicina la scadenza elettorale ("maggio" è "domani"), si fanno maggiori le paure che la crisi produca la dissoluzione del "sogno" europeo. Il presidente dell'Istituto di studi strategici di Ginevra, François Heisbourg, ritiene che si debba mandare al diavolo l'euro "per salvare almeno l'Unione". Come strategia sembra piuttosto folle, dato che l'Unione è concreta soprattutto per la moneta: rinunciarvi significa non tanto arrendersi alla Germania, ma tornare alle origini per ripartire da zero al termine della crisi. Significherebbe creare gerarchie economiche non ancora formalizzate e, invece di progettare una politica comune per il Mediterraneo, indurre i paesi meridionali dell'Europa a rapportarsi alla misura del Magreb. Siccome nulla sarà senza costi alti, almeno alcuni dei sei paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda), l'italia in primo luogo, debbono provare ad avanzare proposte. E a fare politica al loro interno: la gente, che non sa nulla, è esposta alle suggestioni interessate e, siccome è in sofferenza e si fa vittima della propria ira impotente, andrà informata assiduamente: da un pezzo non ci sono provvedimenti i cui legami con lo sviluppo comune il governo e i partiti non abbiano ragione di far conoscere.
Con buona pace degli amici pacifisti, vorrei chiedere chi mai può credere utile alla difesa del proprio paese l'esercito nazionale. In presenza di 28 eserciti distinti, ciascuno dei 28 paesi dell'UE è sicuro di spendere miliardi (almeno oltre 100) per effettivi e armamenti in grado di resistere al massimo un paio di giorni ad un'invasione. La difesa esprime con la massima chiarezza il vantaggio di un'integrazione che unifichi le spese e i comandi a beneficio della sicurezza reale e non solo pateticamente patriottica.
Occorre tenere d'occhio, in un tempo di tagli lineari costanti in tutti i settori, le opportunità che la cittadinanza europea fornisce ai suoi membri. L'Italia non brilla per capacità e perde spesso gli stessi fondi economici a cui avrebbe diritto. Abbiamo un bisogno enorme di fare Ricerca e Sviluppo, nonostante né il pubblico né, tanto meno (purtroppo), il privato sembrino interessati. Il Parlamento europeo ha approvato 77 miliardi per il programma Horizon 2020 per investimenti - da integrare con finanziamenti nazionali e privati - appunto in R&S. L'Italia ha capacità e competenze nel campo: deve necessariamente fare di questa risorsa un volano per iniziative che già università e imprese in campo scientifico, teconologico ed energetico stanno sviluppando. Ma occorre informare e sostenere. Come governo si potrebbe far avanzare, in mancanza di quello bancario, almeno uno "spazio europeo della ricerca".
Per fortuna come ministro degli Esteri Emma Bonino sembra in grado di fare passi coraggiosi: siamo il primo paese dell'UE che ha aperto il dialogo con l'Iran. Iniziativa importante perché dal dialogo si può sempre recedere, mentre la diffidenza preconcetta alimenta la discordia e i conflitti. Non è il caso di entrare nella complessa problematica internazionale, dove l'unità politica europea è ancora al palo. Bastano due soli argomenti da portare all'attenzione dei popoli europei: la responsabilità - e l'interesse - comune nei confronti delle relazioni con i paesi mediterranei e la cooperazione.
Nessuno ignora la sfida a bassa intensità - per ora - tra paesi ricchi e paesi poveri (ormai ne siamo diventati tutti competenti da quando la stiamo riproducendo all'interno dei nostri paesi): la pace, non la guerra, produce benessere. Lo diciamo in senso non moralistico: si sa che spesso le guerre distruggono perché la ricostruzione aiuti a superare le crisi; ma le guerre moderne non sono più in grado di riprodurre questi meccanismi. E non per virtù, ma per evoluzione dei sistemi, in cui il rischio non è più contenibile in aree predeterminate. Quindi meglio investire per attenuare le divaricazioni fra chi ha il lusso Lamborghini/Cartier e chi fa la fame ed emigra. Oggi la cooperazione, partita con la vecchia legge 49 del 1986, è da trasformare radicalmente (anche perché ha anche prodotto abbastanza guai): proprio l'egoista che non intende dare nulla a chi sta peggio di lui ha tutto l'interesse a fare due conti sui benefici che derivano dal mantenimento di relazioni pacifiche con un vicinato che è sempre più esteso e collegato. La pace è più vantaggiosa economicamente e perfino il razzista xenofobo che vorrebbe rimandare a casa gli immigrati dovrebbe calcolare almeno il costo di affitto degli aerei e delle scorte per i rimpatri.
Comunque, auguriamoci che il 2014 porti coraggio e buon senso a governanti e governati. In particolare agli eredi di Barroso e Van Rompuy, senza contare la presidenza italiana del prossimo semestre.
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