La vera storia di un Navajo Code Talker attraverso
la testimonianza del figlio, raccolta
nel cuore dell’America degli indiani
I nativi Navajo vennero reclutati durante la Seconda guerra mondiale dai Marines, per servire sul fronte del Pacifico. Il loro compito era utilizzare un difficile e segretissimo codice di comunicazione basato sulla loro lingua, impossibile da decriptare. Richard Mike è un nativo Navajo, ed è il figlio di King Paul Mike, che fu uno di quei pochi indiani scelti per essere un Code Talker.
Richard Mike è oggi una delle poche persone al mondo a poter dare informazioni dirette sui Navajo Code Talkers, dei quali onora la memoria attraverso il racconto della vita di suo padre.
Siamo andati in Arizona, nella Navajo Nation, e lo abbiamo conosciuto.
Ogni bandiera nella Navajo Nation, la più grande riserva indiana negli Stati Uniti, è stata posta a mezz’asta durante lo scorso mese di giugno. “Abbiamo perso due dei nostri più grandi eroi moderni”, ha affermato Ben Shelly, il Presidente dei Navajo.
Il 7 e l’8 giugno scorso infatti, a distanza di un solo giorno l’uno dall’altro, sono morti in Arizona King Fowler e Milton Gishal. Erano due tra gli ultimi Navajo Code Talkers ancora in vita. Ne rimangono ora poco meno di 60, molto anziani, stanchi, chiusi ormai in un fiero silenzio. Le loro storie sono state ereditate da alcuni discendenti, figli e nipoti che tentano di tenerne in vita il ricordo e lo spirito.
Per la maggior parte, i pochi superstiti e le loro famiglie vivono nella riserva Navajo, che si sviluppa tra l’angolo nord est dell’Arizona, quello nord ovest del New Mexico e a sud est dello Utah. Il territorio è conosciuto come Colorado Plateau, l’altopiano del fiume Colorado. Questa regione, estesa per circa 70.000 km quadrati, che ha al suo interno parchi come il Canyon de Chelly, la Monument Valley, il Rainbow Bridge National Monument e il Navajo National Monument, è chiamata dai nativi Nation, non riserva, ed il popolo che vi dimora da circa 600 anni, Dinè, non Navajo, costituisce la più numerosa tribù indiana del Nord America.
Per avere informazioni e storie sui Code Talkers, si viene indirizzati quasi sempre presso il National Navajo Code Talkers Museum and Veterans Center. Questo è il principale centro di studi sull’argomento, nonché un museo. Si trova a Window Rock, che è la capitale della Nazione Navajo e quindi sede del Consiglio tribale, situata sulla Highway 264, al confine tra Arizona e Messico. Il Veteran Center offre molte foto, alcuni documenti, e racconti per lo più diffusi con video, libri ed esposizioni temporanee. Ma non è facile riuscire a parlare con qualcuno direttamente, anche perché è uno dei posti più battuti dai turisti, interessati o meno alla cultura dei Navajo.
Per avere una testimonianza diretta è necessario addentrarsi maggiormente nella Nation. Con l’aiuto preziosissimo di uno studioso residente in Arizona, ci mettiamo in contatto con il signor Richard Mike. Richard Mike è un nativo, figlio di un Code Talker ormai deceduto, e ci tiene molto ad onorare la memoria del padre e della sua gente. Per questo ha allestito una piccola mostra permanente all’interno del suo fast food, a Kayenta, cittadina situata sulla US 160. Nel suo piccolo locale, ha disposto delle vetrine espositive con tanti e preziosi oggetti che suo padre inviava direttamente dal fronte orientale della Seconda guerra mondiale. Alcuni sono oggetti davvero unici. Kayenta dista circa 159 km da Window Rock e, soprattutto, è distante poco più di 30 kilometri dalla Monument Valley. La cittadina infatti, è conosciuta quasi esclusivamente per il fatto che da qui si dirama la strada US 163, quella che conduce alla Monument Valley.
Per arrivare al villaggio si attraversa la Riserva Navajo tagliandola nel mezzo. Ci si addentra nel cuore di un territorio affascinante e aspro. Lunghe, quasi infinite strade dritte attraversano steppa e deserti. Il sole altissimo sembra non tramontare mai. In pieno giugno è caldissimo, ma di un caldo secco e subdolo: sudando poco, non sempre si pensa al fatto che è vitale bere spesso. Le nostre automobili, fuori roventi, all’interno condizionate e freschissime, sono piene di dettagliate cartine del territorio Navajo. Qui non basta il Gps. Poche casette sparse nelle valli sono visibili dalle strade, alcune sono roulotte, altre hanno ancora le fattezze delle tipiche hogan, capanne di tronchi con il tetto ricoperto di terra, e con l’ingresso sempre rivolto al sorgere del sole. I cespugli di artemisia tridentata spuntano un po’ ovunque, dominando la regione, e contribuendo non poco ad un paesaggio genuinamente western, insieme ai cosiddetti cespugli rotolanti, formati dalle piante di Salsola Kali e di Amaranthus. Sullo sfondo delle strade che attraversano questi territori, si stagliano dune e canyon spettacolari. Le montagne all’orizzonte somigliano ad enormi animali mitologici, così come descritti nell’arcaica cultura nativa, dove i monti rappresentano gli antichi esseri viventi di queste aree. Le rocce di pietra rossa, talvolta enormi, si dispongono formando architetture che appaiono quasi innaturali, con effetti scenografici straordinari. Giungiamo infine a Kayenta e Richard Mike ci accoglie nel suo fast food.
Grazie per averci ricevuto. Vuoi dirci innanzitutto chi sei e da dove vieni?
Io sono Richard Mike, la mia famiglia risiede a Kayenta da almeno cinque generazioni a partire dal 1868. Sono un Navajo, e appartengo al clan della Gente dell’Acqua Pungente, che deriva dal clan della Gente della Grande Acqua. Mio nonno materno apparteneva al clan della Gente dalle Molte Capre, mio nonno paterno invece al clan della Gente del Passo del Coyote. La mia storia è quella del mio popolo, i Dinè, ma è anche quella del mio Paese, l’America.
Da dove viene il tuo cognome? Mike non suona come un termine nativo
Il mio trisnonno, nel 1880, divenne uno dei primi poliziotti Navajo. All’atto dell’arruolamento, il mio avo dovette compilare un modulo alla presenza di americani bianchi. Questi gli chiesero: “Come ti chiami?” e lui rispose: “Has’ tèèn Toh’ là zhinii Bè Yèì”, che significa: il figlio dell’acqua nera. A quel punto gli dissero: “Ok da oggi sarai solo Mike”. Così Mike divenne il nome e contemporaneamente quello che voi chiamate il cognome, della mia famiglia
Chi era tuo padre?
Mio padre King Paul Mike è nato ad Houck, Arizona, nel 1916. All’età di due anni ha perso la madre ed è stato cresciuto dalla sorella maggiore. Alla sua epoca, ma in realtà non così diversamente da ora, quasi nessun ragazzo qui della nostra riserva andava alle scuole superiori, perché erano lontanissime e perché quello che facevano i bianchi era di “snaturarci”, tentando di farci acquisire i loro comportamenti, spingendoci a dimenticare anche la nostra lingua, che per noi è invece sacra.
Ancora oggi si tramanda solo oralmente. Ma all’inizio degli anni ’30 ci fu un accordo col governo federale, tramite il Bureau of Indian Affairs [Ufficio federale istituito nel 1789 allo scopo di occuparsi precipuamente della “questione indiana” Ndr.] che prevedeva l’invio di almeno un bambino per ogni famiglia Navajo presso gli istituti superiori costruiti dai bianchi. Le famiglie Navajo risolsero il problema inviando solo il figlio nato nel mezzo, mi spiego: i più grandi dovevano ormai continuare ad aiutare a lavorare la terra, mentre i piccoli erano ancora troppo piccoli per l’istruzione superiore. Quindi, la fortuna di essere istruiti dipendeva dall’esser nati nel momento giusto. Mio padre era il figlio di mezzo. Si diplomò nel 1938 alla Phoenix Indian School, ed imparò bene l’inglese.
Perché tuo padre è partito per la guerra?
Mio padre è stato chiamato in guerra dalle autorità statunitensi, non fu volontario. Al momento della chiamata aveva già due figli. Ma, grazie al fatto che aveva studiato alle superiori, era uno dei pochi che parlava perfettamente inglese, oltre alla nostra lingua nativa. Mio padre non lo sapeva, ma questo determinò immediatamente la sua spedizione al fronte, presso la Prima Brigata Provvisoria, la quale venne quasi completamente decimata a Guam. Lui fu uno dei pochi sopravvissuti e venne destinato, insieme ai sopravvissuti di altre divisioni e reggimenti, a costituire la Sesta Divisione. La Sesta Divisione venne inviata a Okinawa ed impegnata nella dura battaglia di Sugar Loaf Hill. Lì vennero uccisi circa 7.547 marines.
Mio padre mi disse che era una giungla piena di alberi ma spararono così tanto da ambo le parti che scomparve ogni forma di vegetazione. Combatté poi a Guadalcanal, e infine presso Tsingtao, in Cina. Mio padre è sempre sopravvissuto, ma si è portato dietro incubi orribili, che lo tennero sveglio ogni notte che io possa ricordare.
Che ti ha raccontato tuo padre King Paul della sua missione?
Mio padre non mi raccontava quasi nulla. Non parlava del suo servizio militare e tenne tutti i suoi segreti fino alla morte. Molte cose le ho ricostruite dai racconti di altri amici e compagni Code Talkers. So che mio padre ha combattuto in alcune delle più sanguinose battaglie: in Guam, e Sugar Loaf Hill ad Okinawa. Mio padre è sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale ma si è sentito in colpa per questo fino alla sua morte.
Dalla guerra mondiale portò indietro un fucile giapponese. Mi raccontò personalmente, ed è stata una delle poche volte che lo ha fatto, che questo fucile venne utilizzato da un soldato asiatico contro lui e i suoi compagni durante uno scontro a fuoco. Ma King Paul e i suoi compagni ebbero la meglio, e poi addirittura litigarono per chi dovesse prendersi l’arma.
Quali altre informazioni hai raccolto su tuo padre?
Sapevo che mio padre fosse un marine, ma il fatto che fosse un Code Talker l’ho saputo da un suo compagno marine, di nome Husky Thorn. E’ stato Husky il primo a rivelarmi che mio padre era uno di quelli incaricati di comunicare in codice. In particolare aveva il compito di direzionare i bombardamenti aerei, criptando e decriptando rapidamente decine di informazioni. E’ stato sempre Husky a dirmi che all’inizio del suo arruolamento, mio padre lavorava in un team di quattro persone: lui era il Code Talker, poi c’erano un esperto di elettronica, uno che parlava giapponese, e uno che capiva al volo il codice morse. Nella sesta divisione furono inviati due Code Talkers per ognuno dei tre reggimenti che la costituivano. Mio padre King Paul fu uno di quei sei Navajo.
Voglio raccontarti una delle storie vissute da mio padre e Husky. Mentre camminavano di notte, non distanti dalla spiaggia, ad Okinawa, tra i sibili dei proiettili sopra il loro capo, si lamentavano di non essersi imbarcati come marinai, piuttosto che nelle truppe di terra, dicendo: “I marinai sono quasi sempre sulla nave, mangiano meglio e girano il mondo”. Mentre erano lì a lamentarsi delle loro condizioni, videro strane e alte onde in mare, con qualcosa di anomalo che galleggiava ovunque. Erano i corpi di 6000 marinai morti, uccisi da piloti kamikaze schiantatisi sulle navi statunitensi in avvicinamento. Smisero di lamentarsi per tutta la guerra. Husky mi raccontò tante storie terribili come questa.
E tua madre, era a conoscenza dell’incarico segreto di tuo padre King Paul?
No, non sapeva che il marito fosse un Code Talker. Ma lascia che ti racconti qualcosa. La nostra è una cultura matriarcale, e la donna è molto forte. Assume su di sé molte responsabilità, è padrona della casa e delle terre. Mia madre ha regalato quei pochi attimi di gioia che mio padre abbia mai vissuto. Di solito, ogni volta che un nativo era precettato per la guerra, la moglie prendeva i figli e tornava presso l’hogan (casa) della propria madre, e lì crescevano i bambini. Ecco, mia madre ha avuto una storia diversa. Lei ha preferito avere una casa tutta sua e vivere da sola, perché decise di lasciare Kayenta, per trasferirsi a Tuba City, una città raggiungibile con due giorni di cammino a cavallo. A Kayenta infatti, la posta arrivava, se andava bene, una volta a settimana, a Tuba City invece tre volte a settimana.
Quindi mia madre se ne andò da qui per poter avere una più fitta corrispondenza con mio padre. Poi voglio dirti che ogni volta che mio padre tornava a casa per una licenza, mia madre lo accoglieva con amore, si preparava, metteva i vestiti migliori, lo accoglieva dopo aver preparato l’hogan, e stava con lui tutto il tempo possibile. Non ha mai saputo però del segreto di suo marito fino al 1968.
E tutti questi oggetti che esponi nel tuo ristorante?
Sono tutti originali. Mio padre li inviò dal Pacifico: foto, vestiti, radio e cimeli vari raccolti dopo le battaglie. Altri li portò lui personalmente alla fine della guerra, come il fucile di cui ti ho raccontato prima la storia. Nel 1990, quando tutto sui Code Talkers già era conosciuto, lessi il libro The Road to Tokyo, sul quale è scritto che 2.662 marines del reggimento di mio padre furono sterminati a Okinawa.
Iniziai a pensare che fosse giusto realizzare un’esposizione permanente presso il mio ristorante. Così, ho costruito personalmente delle teche e delle vetrine espositive a casa. Poi le ho portate nel mezzo del ristorante e ho iniziato a sistemare i vari cimeli. Alcuni Navajo mi suggerirono di officiare una cerimonia tradizionale propiziatoria, ed una contro gli spiriti nemici. Dissi di sì in principio, per non urtare la suscettibilità degli anziani che sono molto rispettati ancora oggi. Ma poi non la feci, perché mio padre era un Navajo cattolico, e non voleva questo. King Paul accolse l’iniziativa della mostra all’inizio con distacco. Poi non la trovò una cattiva idea, ma morì solo tre anni dopo.
Come mai tuo padre inviò tutti questi cimeli?
Questo può essere interessante. Molti cimeli che oggi qui vedete, sono stati prelevati dai corpi dei nemici abbattuti in battaglia. Mio padre è stato forse quello che più di tutti tra i Code Talker ha raccolto oggetti e li ha spediti a casa. Gli altri indiani credevano che avrebbe fatto adirare gli spiriti prelevare cose dai corpi di morti in battaglia. Quindi per lo più non lo fecero, a causa delle loro credenze. Mio padre invece, essendo cattolico, non credeva agli spiriti malevoli, e non aveva problemi a prendere oggetti anche in campi di battaglia o da nemici abbattuti.
Qual è la cosa più preziosa tra questi oggetti?
Tra gli oggetti più preziosi che ho esposti, vi è una rarissima cinta giapponese detta Thousand stich belt, la cinta dalle mille cuciture, chiamata in giapponese Senninbari. Questa cinta tradizionale giapponese veniva preparata dalle donne della comunità di appartenenza di colui che andava in guerra, apponendo mille punti, ciascuno cucito da una donna diversa, impiegando quindi migliaia di persone e molto tempo per realizzarla.
Era data come amuleto dalle donne ai soldati nel loro cammino verso la guerra, deriva dalla cultura scintoista del Giappone orientale, e si pensava avesse il potere di salvare dalla morte la persona che l’avesse indossata. Sa che i giapponesi passati da qui, hanno tutti sentito parlare di questa importante cinta, ma non l’avevano mai vista dal vivo? Solo qui da me hanno potuto farlo.
Tua madre che pensava di tutte queste cose che inviava tuo padre?
Questo non lo so. Le custodiva in attesa del ritorno del marito. Ma voglio dirti che successe una volta a mia madre. Quando mio padre inviava dei vestiti o bandiere asiatiche a casa, mia madre le lavava accuratamente. Una volta, giacché aveva steso fuori casa alcune bandiere giapponesi ad asciugare, arrivarono degli agenti federali col sospetto che ci fossero spie o agenti asiatici nel bel mezzo della nostra riserva, pronti a scoprire tutto del codice segreto, di cui in realtà in quegli anni nessuno, tanto meno mia madre, ne sospettava l’esistenza. Non fu facile all’inizio far capire che erano solo cimeli inviati da mio padre.
Qual è il messaggio che vuoi comunicare oggi per onorare tuo padre?
Mio padre, e tutti i Code Talkers, hanno fatto ciò che l’America gli ha chiesto, senza volere nulla in cambio. Non hanno mai parlato del loro lavoro come qualcosa di speciale. Ci lasciano in eredità il senso del dovere per il dovere. Pensate che i nativi cooptati per la guerra non avevano la cittadinanza americana prima, e non l’hanno avuta neanche dopo la guerra! Durante la guerra non hanno ricevuto nessun riconoscimento, solo in anni molto recenti. Mio padre ha ricevuto onorificenze solo negli ultimi anni della sua vita.
Voglio dirti anche questo. Mio fratello ha servito in Vietnam presso il Delta del Mekong per due anni. Ma una volta tornato, ha aderito ad un’associazione di veterani contro la guerra in Vietnam. Sai perché? Perché i nativi, come altre minoranze, sono sempre stati al fronte in prima linea, e nei posti peggiori. I nativi hanno combattuto con onore per il Paese, ma non sempre sono stati ringraziati a dovere. Mio padre mi ha detto “Abbiamo combattuto per la libertà degli uomini bianchi. Noi invece, non abbiamo alcuna vera libertà”.
A volte penso che essere troppo attaccati al mito dei Code Talkers è come parlare sempre di nostri eroi come Toro Seduto, o Geronimo, o Cavallo Pazzo, ma non è così che è giusto. No, non è questo ciò che è giusto per noi. Noi indiani dobbiamo anche guardare avanti e, rispettando ed onorando il passato glorioso come quello di mio padre, dobbiamo trovare anche nuovi orizzonti e prospettive, ma oggi, nel presente.
Spesso i nativi indossano la divisa militare perché realmente la amano, altre volte non c’è scelta. Spesso la mia gente è combattuta tra il produrre manufatti artigianali che vende a uomini bianchi o fare il soldato. Pastorizia ed agricoltura rendono poco. Qual è la prospettiva? Devo dire che stiamo affrontando sempre meglio i problemi di alcune riserve, ma mancano veri sbocchi occupativi, e lo vedo qui ad esempio, a Kayenta.
Mio padre è morto il giorno di Natale del 1993. Aveva 77 anni. E’ morto di alcolismo. Ma dal 1942 al 1945 ha combattuto per l’America, tutta. E’ stato chiamato come marine, ed è partito, senza neanche essere considerato americano, ma il suo lavoro, come quello degli altri Code Talkers, ha contribuito tantissimo alla vittoria della Seconda guerra mondiale. Mio padre era un indiano Navajo, della Gente dell’Acqua Nera.
FOTO: Richard Mike, sullo sfondo, la foto del padre, King Paul Mike [di Claudio Ianniello]
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