Ogni giorno in Italia le scelte sessuali determinano
discriminazioni e negano l’accesso nel mondo del lavoro.
Paradossalmente il problema dell’invisibilità riguarda
maggiormente chi possiede un titolo di studio elevato
o chi svolge lavori di alto livello. Ancora più grave è la situazione
dei trans, per loro l’accesso al lavoro è quasi del tutto negato
«Ho lavorato in una grande azienda italiana per cinque anni, non mi sono mai riuscito ad integrare». Andrea, visto che l’azienda è veramente importante, vuole rimanere anonimo. «È come a scuola, anche sul posto di lavoro esistono dei gruppi, delle categorie, o meglio dei branchi. Se sei gay non fai parte né del gruppo uomini né del gruppo donne, ma sei solo una macchietta».
Nel 2011 l’Arcigay ha realizzato un’indagine proprio sulle discriminazioni sul posto di lavoro: il 19% degli omosessuali è stato trattato in modo ingiusto, il 26,6% non ha fatto parola della propria identità sessuale, più del 4% è stato addirittura licenziato perché Lgbt. Se poi si è trans le cose non possono che peggiorare. Il Comitato Bologna Pride 2012 ha stilato un’indagine dove per la prima volta sono coinvolti anche gli eterosessuali. «Per il 75% degli italiani c'è discriminazione», «tre italiani su quattro ritengono che oggi, essere gay dichiarati o "in incognito", nel mercato del lavoro, rappresenta uno svantaggio».
Marco Pasqua, per La Repubblica, ci spiega come è stato strutturato lo studio. «Quindici le domande presenti sui 1.892 questionari raccolti e compilati al 55% da persone Lgbt e al 45% da eterosessuali, appartenenti a tutte le fasce d'età (dai 18 anni agli over 50): lo studio ‘Lavoro e minoranze sessuali in Italia’, realizzato tra i mesi di febbraio e aprile su impulso del Comitato Bologna Pride 2012, ha cercato di capire quali siano le condizioni di lavoro dei gay. Scoprendo, ad esempio, che la difesa e la sicurezza sono i settori nei quali l'82% degli interpellati (contro il 65,5% di media italiana) riferisce di avere almeno un collega omosessuale, quasi sempre non dichiarato. Quello degli uomini in divisa, infatti, è uno degli ambiti professionali percepito come uno degli ambienti in cui è più difficile vivere apertamente il proprio orientamento sessuale e, al tempo stesso, uno dei più duri verso gay e lesbiche».
Raffaele Lelleri, il sociologo che ha condotto lo studio insieme a Luca Pietrantoni, dell'ateneo di Bologna, fa notare una differenza significativa: «Le persone Lgbt mostrano di sapere di lavorare con colleghi gay più spesso dei loro corrispettivi eterosessuali (il 71,2% per i primi, contro il 59,5% dei secondi). Questo dipende dalla cosiddetta visibilità selettiva e dalla impermeabilità della comunità Lgbt i cui componenti, in molti casi, pare tendano a rivelare il loro orientamento solo ai propri 'simili’».
Questi i numeri, il quadro generale. Ma cosa succede nello specifico quando ci si ritrova a lavorare con persone che supportate solo dall’ignoranza ti trattano o con paura o con disprezzo? Andrea ci racconta la sua esperienza.
«Partiamo dalla fine: oggi vivo e lavoro a Londra. In Italia si cita molto la parola meritocrazia, in realtà quando ti ritrovi a lavorare all’estero, anche solo facendo il cameriere, ti rendi conto che nemmeno si capiscono le implicazioni pratiche del concetto. Mi spiego. Non esistono in Italia, tranne il giudizio del tuo capo, strumenti oggettivi per inquadrare, addestrare e giudicare un lavoratore. Figuriamoci se questo lavoratore è giovane, precario e omosessuale. Il primo anno di lavoro - ci continua a raccontare Andrea - in questa grande compagnia, emblematica del sistema e della relativa cultura del nostro Paese, non dichiarai di essere gay. Non lo feci non per nascondermi, non lo feci per principio. Se sei etero la prima cosa che dici quando entri in un nuovo posto non è: “Ciao a tutti, io sono eterosessuale”. Ti prenderebbero per pazzo. La cosa strana è che se sei gay ci si aspetta necessariamente che tu debba fare outing, sbattendo in faccia a tutti la tua vita privata e giustificandola. In sostanza il primo anno mi feci gli affari miei, facendo finta di nulla ogni volta che veniva tirato in ballo il mondo gay, con battute più o meno leggere. Capitava spesso che magari eri concentrato sul lavoro e un collega se ne usciva con frasi tipo: “Ma avete sentito che tal dei tali è frocio?” La reazione emotiva passa dal sentirti in difetto a sentirti un vigliacco che non difende la categoria. Ti ritrovi con le spalle al muro; che faccio mi alzo e dico: “Ragazzi anche io sono frocio!” In questo modo - secondo Andrea - si passa in una posizione di difesa facendo quindi la parte di quello che comunque parte con un handicap».
Andrea passa quindi più di un anno a sentire continuamente battute: «Tipo se un collega diceva ad un altro anche semplicemente “bella cravatta”, oppure che ne so, “hai tagliato i capelli? stai bene”, la battuta immediata era “mica sarai frocio?”. A lungo andare cominci a fare passi indietro, ti senti in ansia alle riunioni, stenti nel costruire rapporti umani e lavorativi con colleghi uomini e quindi a retrocedere. Non vuoi mostrarti, ti nascondi e nascondi le tue qualità anche a discapito dell’azienda.
Arriva un giorno poi in cui tutto questo diventa troppo, io personalmente ho scelto una via sottile di outing. Invece che salire su un tavolo e urlare la mia omosessualità ho preferito accettare come amici i miei colleghi su Facebook. Dopo poco, però, sono cominciate a girare le prime voci in ufficio, il chiacchiericcio era l’unica esternazione. Nessun collega ha infatti mai avuto il coraggio di affrontarmi personalmente anche con una semplice domanda. Ovviamente in una società competitiva come la nostra questo tema, estremamente distante dalla questione lavorativa, diventava un’arma. Entravo in ufficio e i colleghi cominciavano a bisbigliare, a sentirsi intimoriti o legittimati a fare battute di dubbio gusto. Ricordo con chiarezza un singolo episodio. Entrai in cancelleria per prendere delle penne, nella stanza c’erano sei uomini; uno di questi, con un alto tono di voce, se ne esce con: “Alla fine è nespola”.
Andrea in quel momento scelse di affrontarli, chiese spiegazioni con determinazione avendo come unico risultato quello di essere ‘attenzionato‘ dalle risorse umane dell’azienda. «Passai come uno aggressivo ed inaffidabile. Dopo la discussione in cancelleria ero il ‘frocio’, non uso la parola gay perché per la maggior parte delle persone non esiste la parola gay, ed ero pure aggressivo. Da quel giorno quindi sparii, per gli altri colleghi diventai un fantasma; in fondo se sei amico di un gay, probabilmente sei gay pure tu. Alle cene aziendali io non avevo il diritto di estendere l’invito al mio compagno, non parliamo poi delle iniziative sportive. Per l’italiano medio un gay non può giocare a calcio, se sei gay e pure aggressivo hai sicuramente dei disturbi comportamentali. In sostanza ti vengono precluse tutte le possibilità di integrazione; cominci ad essere considerato un problema. Dal momento che tutti sanno, ogni tua azione rischia di ritorcersi contro di te. Se sei vigliacco, allora la vigliaccheria viene estesa anche alle questioni professionali; se invece reagisci, allora sei quello con problemi comportamentali che si sente attaccato da ogni inezia. Non ti rimane che vivere da ghettizzato o andartene. Come ho detto all’inizio io ho scelto di trasferirmi; continuare in quel modo non era più possibile per me. Con il licenziamento però ho iniziato a vivere».
Ci sono casi in cui la discriminazione non si annida tra debolezze psicologiche e maleducazione. «In Italia oggi il vero problema non è solo la discriminazione, ma l'accesso al lavoro». Andrea Maccarrone, presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, con questa frase intende riferirsi soprattutto al problema legato ai trans. Chi aspetta, o ha compiuto, la transizione è il vero discriminato del nostro tempo. Per loro è quasi impossibile accedere al lavoro. «Si crea una sorta di paradosso - ci spiega Maccarrone -; un transessuale infatti viene subito indicato come prostituta o pervertito, gli vengono negati alloggio, lavoro e in qualche caso legami sociali. A questo punto il transessuale per vivere è costretto a prostituirsi». In questo caso quindi è la discriminazione a indurre alla prostituzione. Il circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, «un’associazione indipendente, basata sul volontariato», nasce nel 1983 dalla fusione di due preesistenti organizzazioni romane (“Fuori” e “Collettivo Narciso”): «si occupa della rivendicazione e della tutela dei diritti civili delle persone Lgbtqi (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali) e della persona in genere, della lotta a ogni forma di discriminazione e promuove attività culturali e di socializzazione. Fin dalla sua nascita il Circolo è impegnato nella lotta all’Aids e nella difesa delle persone con Hiv/Aids, sia nel campo dell’informazione e prevenzione (anche per altre infezioni sessualmente trasmesse) sia in quello dell’assistenza. Il Circolo opera nel settore politico, sociale, culturale e collabora con le altre realtà Lgbtqi e con organizzazioni che hanno come scopo la difesa e la promozione dei diritti umani e civili e la lotta alle discriminazioni.
In ambito politico lavora contro il pregiudizio omofobo e transfobico, nel campo dei diritti civili e per una cultura delle differenze, anche con pressioni su mass media, partiti e Istituzioni, al fine di modificare l’atteggiamento discriminatorio sia per orientamento sessuale sia per identità di genere. A tal fine il Circolo svolge iniziative politiche, dibattiti, manifestazioni e dal 1994 cura l’organizzazione del Pride a Roma».
Maccarrone, ad esempio, ci ricorda come sia fondamentale avere almeno una casa accoglienza nel Lazio che raccolga chi decide di allontanarsi dalla prostituzione. «Il Dipartimento delle Pari Opportunità non ha, infatti, ammesso al finanziamento i progetti “Agar I – Agire e assistere in rete contro la tratta nel Lazio: programma regionale di emersione e prima assistenza” e “Agar II – Agire e assistere in rete contro la tratta nel Lazio: programma regionale di assistenza e di integrazione”, entrambi promossi dalla Regione Lazio a valere sui fondi ex art. 13 L. 228/2003 e ex art. 18 D.lgs. 286/98».
I progetti erano in continuità con il lavoro decennale atto a contrastare il fenomeno della tratta delle donne e degli uomini. «All’interno dei progetti - riporta una nota del circolo Mario Mieli - un’attenzione specifica era riservata alle persone transessuali/transgender/omosessuali costrette alla prostituzione e sfruttate dai circuiti criminali, che avevano trovato sul territorio regionale un percorso dedicato, con una casa d’accoglienza riservata.
Lo scenario che si prospetta adesso è fosco: l’interruzione dei progetti significa, infatti, l’interruzione dell’accoglienza nella case protette e nelle case di 2° livello, l’interruzione della garanzia dei pasti, l’interruzione dell’assistenza legale, l’interruzione del supporto psicologico, l’interruzione dei percorsi formativi e delle borse lavoro. In particolare sarà cancellata la possibilità di avviare e continuare i percorsi di regolarizzazione, non essendoci più alcun Ente che si occupi dell’ottenimento e/o del rinnovo dei permessi di soggiorno per protezione sociale».
Questa notizia, che risale a febbraio, ci apre uno spaccato sui casi più gravi; l’ufficio di consulenza giuridica del Circolo Mario Mieli però ci ricorda anche come molto spesso la discriminazione sia sottile e molto difficile da prevenire e combattere. Molto spesso, infatti, si confonde e si unisce al classico mobbing, un reato spesso sottovalutato in Italia rispetto al mondo anglosassone. Nel Bel Paese, semplificando molto, i macro casi di discriminazione si possono ridurre a tre. Il primo, il più grave e raro, si verifica quando tutti sul posto di lavoro compiono azioni di mobbing; dal capo ufficio all’ultimo dipendente. Qui ci troviamo di fronte ad un «problema culturale» difficilmente risolvibile. «Sarebbe quasi consigliato rinunciare - ci spiegano all’ufficio di consulenza giuridica del Circolo Mario Mieli -, per fortuna questi casi sono sempre più rari e marginali; in genere avvengono nei piccoli centri abitati e in piccole aziende». Il secondo macro caso è molto più sottile, «spesso un litigio tra due dipendenti sfocia in discriminazione quando uno dei due è omosessuale. La sessualità diventa un’arma di offesa o di ricatto. In questi casi - ci spiegano al circolo - è consigliato andare a parlare con il manager o il proprio responsabile, spiegare la situazione con la massima sincerità e aspettare che le cose si calmino».
Il terzo, ed ultimo caso, è quello già citato dell’accesso negato al lavoro per i trans. Qui ci sono poche cose da fare, serviranno anni per poter cambiare la mentalità di tutti. Va comunque ricordato che le associazioni che si battono per i diritti dei gay sono sempre aperte e pronte ad ascoltare i problemi e le difficoltà di tutti.
Come si contrasta un fenomeno culturale? Certamente con il tempo, progetti e con delle buone leggi. Il tentativo ‘Lotta all’omofobia e promozione della non discriminazione sui luoghi di lavoro come strumento di inclusione sociale’ è durato fino al 2009 ed è stato co-finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tre erano gli obiettivi principali:
• Costruire una piattaforma scientifica di dati quantitativi e qualitativi sull’estensione e l’articolazione del fenomeno discriminatorio Lgbtqi in ambito lavorativo.
• Sperimentare metodologie di osservazione standard dei fenomeni di omo/transfobia e omo/transnegatività, al fine di costituire in seguito un database nazionale sostenibile e fondato sulla realtà.
• Formare dei mediatori in grado di intercettare e riconoscere il fenomeno e, se necessario e opportuno, di intervenire appropriatamente ed in collegamento con le risorse del territorio.
Il progetto ha permesso, inoltre, di effettuare una mappatura delle buone prassi esistenti, in modo da divulgarle presso altri enti, associazioni, operatori del diritto, esperti di gestione delle risorse umane. Ovviamente finiti i fondi è finito il percorso. Ora sul piatto delle proposte rimane solo una legge tanto discussa sull’omofobia, una legge che trova degli oppositori anche nelle fila delle associazioni.
Qualche settimana fa la Camera ha approvato il disegno di legge su omofobia e transfobia che ha come relatore e primo firmatario Ivan Scalfarotto del Pd. Il testo, che ora deve passare al Senato, è stato criticato soprattutto delle associazioni che difendono i diritti degli omosessuali. Il testo è un allargamento a omofobia e transfobia della legge Mancino del 1993 che condanna l'istigazione alla violenza per motivi religiosi, etnici e razziali con pene più severe rispetto all’articolo 61 del codice penale sulle aggravanti comuni. In una nota l'Arcigay parla di rabbia e indignazione «per una legge sbagliata che di fatto legittima proprio il razzismo, l'omofobia e la transfobia che in teoria dovrebbe combattere».
Anche il «Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli - viene riportato da Andrea Maccarone in una nota - è molto allarmato per la preoccupante piega che rischia di assumere la discussione degli emendamenti sulla legge contro omofobia e transfobia. In particolare l’emendamento “testo Verini subemendamento Gitti” mira ad introdurre delle vere e proprie categorie di esclusione di applicazione della legge e, se approvato finirebbe per legittimare di fatto le discriminazioni all’interno di ambiti molto ampi e socialmente significativi (organizzazioni politiche e sindacali, religiose, sanitarie ed educative) di fatto svuotando di senso l’intera norma.
Noi non siamo affezionati a una legge purché sia. L’importanza di una normativa contro l’omofobia e transfobia deve essere innanzitutto culturale, mentre la norma che adesso rischia di passare è un arretramento gravissimo nel contrasto a tutte le discriminazioni e manda messaggi contraddittori se non addirittura negativi. Il Partito Democratico può far passare una buona legge. Questa non lo sarebbe. Preferiamo piuttosto che si ricominci a parare di norme che contrastino davvero l’omofobia sociale e contribuiscano a cambiare in meglio le nostre vite come il riconoscimento del matrimonio egualitario piuttosto che avere leggi manifesto brutte e dannose».
Alle critiche Scalfarotto risponde che «è meglio una legge che nessuna legge visto che finora in Italia non esisteva una norma che tutelasse i diritti della comunità Lgbtqi, cioè Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender. La legge prevede inoltre il divieto di creare organizzazioni che sostengano l'omofobia».
Una cosa è certa, in Italia il problema sembra sempre la superficialità. Anche quando si parla di diritti e innovazioni. A Roma, ad esempio, si attendono ancora i registri delle Unioni Civili, che comportano il riconoscimento giuridico della coppia di fatto.
|