Nate da rivendicazioni culturali e lotte indipendentiste, unite
dai privilegi, le Regioni a Statuto speciale suscitano non poche
invidie tra i contribuenti delle Regioni ordinarie.
Ma quanto ci costano davvero? E come spendono i fondi?
Un breve viaggio nei conti di Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige,
Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna
Tre al Nord, due al Sud. Le Regioni a Statuto speciale, previste dall’articolo 116 della Costituzione, godono tutte di una particolare autonomia ma sono nate con motivazioni parzialmente diverse.
Nella prima metà del Novecento, ad esempio, la Sicilia doveva fare i conti con le forti spinte separatiste del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, fiancheggiato dall'Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana, che chiedevano ripetutamente, anche attraverso atti di forza, l'autonomia dall'Italia. La parziale autonomia, iniziata già con l’invio dell’Alto commissario Francesco Musotto nel 1944, gli venne confermata nel 1946 con un decreto firmato dal principe Umberto di Savoia. Venne inoltre creata la Cassa per il Mezzogiorno, e, nell'aprile del 1947, fu eletto il primo Parlamento regionale. L’aspetto inedito del progetto era concepire la Sicilia come un’entità politica primaria, dotata di proprie competenze pur restando all’interno dei confini dello Stato unitario. Da un punto di vista amministrativo lo Statuto speciale ha attribuito alla Regione siciliana una competenza esclusiva in alcune importanti materie come, ad esempio, industria e commercio, urbanistica, acque pubbliche, turismo, tutela del paesaggio, conservazione delle antichità e delle opere artistiche.
Diversamente dalla Sicilia, la specialità della Regione Friuli-Venezia Giulia non è nata dalla "legalizzazione" di una precedente situazione. I fattori che hanno portato all'autonomia sono stati diversi, in primis il "Memorandum d'intesa" del 1954 che stabiliva, oltre ai nuovi confini fra Italia e Jugoslavia, la suddivisione del Territorio di Trieste in due Zone: la Zona A, amministrata dall'Italia e la Zona B, amministrata dalla Jugoslavia. La Regione ha istituito norme per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulane e un servizio per le lingue regionali e minoritarie: fermo restando il carattere ufficiale della lingua italiana, l’Amministrazione regionale, gli Enti locali e i loro rispettivi enti strumentali operanti nei Comuni possono usare il friulano; gli Statuti dei Comuni, delle Province, e degli altri Enti locali dotati di autonomia statutaria, possono prevedere l’uso scritto e orale della lingua friulana nei rispettivi Consigli; l’uso, accanto ai toponimi ufficiali, dei corrispondenti termini in lingua friulana in tutte le situazioni in cui sia ritenuto opportuno; l’uso della lingua friulana in altre situazioni, ivi compresi i rapporti dell’Amministrazione con i cittadini.
Anche la Sardegna guadagnò la sua autonomia nel secondo dopoguerra, quando nel 1944 fu costituita una Giunta Consultiva Sarda con rappresentanti di tutte le forze politiche.
In Valle d’Aosta le elezioni dell’Assemblea regionale si tennero nel 1946. Durante il fascismo questa regione dovette affrontare gravi problemi politici e culturali, in seguito al forzato processo di italianizzazione che determinò, fra l'altro, un intenso fenomeno di emigrazione. All’indomani del secondo Conflitto Mondiale, il 7 settembre del 1945, Umberto di Savoia firmò un decreto legislativo con il quale veniva riconosciuta alla Valle d'Aosta una speciale autonomia amministrativa, «in considerazione delle sue condizioni geografiche, economiche e linguistiche del tutto particolari». Oggi, fra le norme speciali, vi è anche il libero uso della lingua francese riconosciuta al pari di quella italiana. Da un punto di vista amministrativo la Valle d'Aosta provvede al finanziamento degli Enti locali con le risorse proprie, oltre che con quelle assegnatele dallo Stato e dall'Unione europea.
Anche in Trentino fu centrale la questione linguistica e culturale. Nel 1946, in seguito alla pesante opera di snazionalizzazione perseguita dal regime fascista, finalizzata all'annientamento dell’identità tedesca degli abitanti della regione, furono stabiliti importanti accordi di tutela dell’autonomia linguistica e amministrativa. Si giunse, nel 1948, alla costituzione della Regione autonoma a Statuto speciale, che voleva essere un’ulteriore garanzia per la pacifica convivenza tra le due etnie.
Ovviamente, alla maggiore autonomia delle cinque regioni si accompagna anche una diversa distribuzione delle risorse. Prendiamo il caso della Sicilia: la Regione ha autonomia tributaria, cioè trattiene per sé tutte le imposte raccolte nel suo territorio ad eccezione di quelle sulla produzione e su lotterie e tabacchi. Oltre a questo, lo Stato versa annualmente una cifra alla regione per il “fondo di solidarietà nazionale”. Questa cifra integrativa, motivata dal minor reddito medio dei cittadini siciliani, non è mai stata fissata con criteri univoci una volta per tutte, ma viene contrattata annualmente tra lo Stato e la Regione e ammonta ad alcune centinaia di milioni di euro ogni anno.
Negli ultimi anni ci sono state alcune modifiche importanti nell’ambito delle Regioni: la modifica del Titolo V della Costituzione ha dato più autonomia a tutte le Regioni e in un certo senso ha ridotto la particolarità delle Regioni a Statuto speciale. Inoltre, molte voci si sono levate contro queste autonomie, ritenute “ingiuste”, troppo costose e da superare con un ordinamento statale di tipo federale. Di certo, osservando il quadro politico di ciascuna di queste, le motivazioni che avevano spinto alla diversa regolamentazione – la spinta indipendentista violenta, le rivendicazioni austriache, la tutela speciale delle minoranze – sembrano decisamente superate.
Ma quanto costano allo Stato queste entità autonome? Per scattare una fotografia più nitida, bisogna considerare il cosiddetto residuo fiscale, cioè la differenza fra tutte le entrate (fiscali e di altra natura) che le Amministrazioni prelevano e le risorse che spendono.
Se si considera questo, nessuna delle cinque Regioni è in attivo. Sebbene possano trattenere gran parte delle imposte raccolte e godano di una spiccata autonomia legislativa, sono tutte in rosso, anche se con differenze sostanziali. Ci sono il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige con un deficit pro capite attorno ai 2mila euro; le altre sfondano quota 4mila con il primato negativo della Valle d’Aosta che sfiora i 5mila euro.
Eppure considerando le cifre assolute il quadro cambia ancora. Il deficit della Valle D’Aosta risulta di appena 617 milioni di euro, quello della Sicilia di quasi 22 miliardi, la Sardegna segna 7 miliardi, le altre due Regioni si limitano a rossi di due miliardi ciascuna. Dunque, riepilogando: le tre Regioni settentrionali costano alla collettività 4,8 miliardi, le due del sud ben 28,8 miliardi. La Sardegna da sola, in pratica, genera un deficit che è una volta e mezzo quello delle tre Regioni del Nord, la Sicilia addirittura quattro volte e mezzo.
Nel suo saggio "Il sacco del Nord" (Guerini e associati editore), il sociologo Luca Ricolfi fa notare che «il residuo fiscale indica quanto Si spende, ma non come si spende». Ovvero: i fondi elargiti dallo Stato centrale sono usati per arricchire il territorio o finiscono nel nulla? La risposta di Ricolfi è molto chiara: «Il livello della spesa pubblica delle tre Regioni a Statuto speciale del nord è eccessivo, ma i risultati che ottengono sono spesso eccellenti». Qualche esempio: la giustizia civile di Bolzano è la più efficiente d’Italia e ogni anno contende il primato a Torino. I livelli scolastici del Friuli o del Trentino sono ottimi, ben sopra gli standard europei. Insomma, molto spesso c’è un ritorno sul territorio, a beneficio, diretto o indiretto, del cittadino, confermato dai dati sulla ricchezza personale. Le tre Regioni del Nord registrano redditi pro capite di circa 23mila euro, oltre la media della Ue.
Nel Mezzogiorno la situazione cambia parecchio. Il livello di spesa di Sicilia e Sardegna è accompagnato da un pessimo utilizzo delle risorse finanziarie. In queste due regioni il tasso di spreco è superiore al 50%: i servizi pubblici costano molto e rendono poco, meno della metà di quanto dovrebbero. I redditi pro capite crollano sotto i 14mila euro.
Se si considera l’evasione fiscale, il contesto diventa ancora più fosco. Ricolfi definisce l’intensità dell’evasione (contributiva e fiscale) come il rapporto tra gettito evaso e gettito proveniente da redditi occultabili (praticamente tutti eccetto le pensioni e gli stipendi pubblici). Seguendo questo criterio il Friuli-Venezia Giulia è la regione più virtuosa con un’intensità di evasione pari al 24,7%, seguita dal Trentino-Alto Adige con il 26,2% e la Valle d’Aosta con il 27,6%. Poi si apre una voragine: la Sardegna è al 51,3%, la Sicilia al 63,4%. Dunque, a Cagliari e dintorni solo un cittadino (o un’azienda) su due pagano il dovuto al fisco, a Palermo meno di quattro su dieci.
Certo è che neanche le Regioni a Statuto speciale del nord sono sempre un esempio di virtù. Il Trentino-Alto Adige, ad esempio, vanta Presidenti di Provincia più pagati di Barack Obama. Lorenzo Dellai (fino allo scorso anno Presidente della Provincia di Trento) guadagnava 21.000 euro al mese, mentre Luis Durnwalder (presidente della Provincia Autonoma di Bolzano) arriva a 25.620 euro. Siamo nelle ricche Province di Trento e Bolzano, dove il 90% delle tasse riscosse sul territorio resta nelle casse provinciali e dove anche i presidenti di Provincia, che sono a tutti gli effetti equiparati a quelli delle Regioni, sono i più ricchi d’Italia. Oltre ai due organi provinciali composti da 35 consiglieri per il Trentino e altri 35 per l’Alto Adige, esiste anche la Regione, il cui Consiglio è costituito dagli stessi rappresentanti delle Province, mentre la presidenza spetta a rotazione una volta a Trento e l’altra a Bolzano. In questo sistema ci vive appena un milione di persone. Anche se il reddito pro capite è tra i più alti d’Italia, i costi della politica del Trentino Alto Adige non possono lasciare indifferenti. Se il presidente degli Stati Uniti si ferma a 23mila euro lordi al mese e la cancelliera Angela Merkel non supera i 20mila, il vice di Durnwalder, Hans Berger, ne guadagna 24mila, contro i 20.000 del presidente del Consiglio.
A difendere a spada tratta l’autonomia dell’Alto Adige è lo stesso Durnwalder: «Noi prendiamo l’indennità in base alle leggi esistenti. In questa legislatura abbiamo ridotto spontaneamente gli stipendi del 20%. I nostri politici pensano al bene della propria terra. Se di Obama avessi i cuochi e i sarti, due aerei privati e 4 miliardi per la propaganda elettorale, allora potrei abbassare lo stipendio, perché non mi servirebbero più i soldi. In altre regioni hanno meno competenze e stipendi più alti. Noi abbiamo tante competenze e per questo ci servono più dipendenti pubblici».
Proprio le competenze sono un'altra nota dolente. Fermo restando che i tagli ai costi della politica non hanno superato i 290 euro mensili, non bisogna dimenticare che anche i sindaci dei 217 Comuni della provincia di Trento e quelli dei 116 della provincia di Bolzano non se la passano male. Il primo cittadino di Proveis (provincia di Bolzano, 270 anime) guadagna 2.041 euro; quello di Massimeno (Trento) invece, con i suoi 124 abitanti, arriva a 1.140 euro di indennità, importi che resteranno invariati fino al 2015. Insomma, fa riflettere che su un territorio così piccolo ci siano in tutto 333 Comuni che costano ogni anno allo Stato milioni di euro.
A questo bisogna aggiungere che, nella provincia di Trento, esistono anche le cosiddette Comunità di Valle, una sorta di entità territoriale a livello intermedio tra i comuni e la Provincia, che danno da lavorare a 564 persone, con una spesa di un milione e 600mila euro all’anno. Una novità introdotta nel 2006 e che ha iniziato ad operare nel 2010. L’Italia dei Valori ha proposto di abolirle e di accorpare i 30 Comuni, perché, come spiega il consigliere Bruno Firmani, «si risparmierebbero in un anno almeno 20 milioni di euro». Quando ha presentato questa proposta in Consiglio, però, tutti hanno votato contro, da destra a sinistra.
Anche la Valle d’Aosta ha la sua "casta": si tratta del suo potentissimo Consiglio regionale composto da 35 membri, 74 Consigli comunali, 8 Comunità montane, 10 aziende pubbliche di promozione turistica, un consorzio Bim (Bacini imbriferi montani), una Cva (Compagnia valdostana acque), un Consiglio permanente degli Enti locali che riunisce i 74 sindaci (quasi tutti dell’Union Valdotaine) deputato a «favorire l’integrazione dei Comuni con la politica della Regione», più uno svariato arcipelago di altri enti. Conti alla mano, fanno circa 1.300 persone (senza contare l’indotto di portaborse e collaboratori) che vivono di politica. Non male per una Regione di appena 128mila abitanti. Tra diaria e indennità, un consigliere regionale “base” sfiora i 10mila euro al mese, a cui si aggiungono i vari aumenti in relazione alle “funzioni”. E se non è tra gli eletti, in Val d’Aosta è stata introdotta l’indennità da assessore “tecnico”: chi è chiamato da fuori a gestire un settore della politica valdostana prende il 75% dell’indennità da consigliere, la “paga” da assessore, due terzi della diaria, più un rimborso forfettario delle spese di viaggio. In totale fanno quasi 12mila euro ogni 30 giorni.
Poi c'è la sede Rai, che riceve ogni anno 2 milioni di euro circa grazie a una convenzione con la Presidenza del Consiglio per la produzione di 110 ore di programmi televisivi e 78 ore di trasmissioni radio all’anno in lingua francese. Una Convenzione fondata sulla legge 103 del 1975 a tutela del bilinguismo: peccato che in Valle d’Aosta il francese lo parli lo 0, 9% della popolazione.
Anche il Friuli-Venezia Giulia ha la sua storia di sprechi: anche qui riduzioni reali dei costi della politica non se ne sono viste. I politici regionali, oltre alle indennità, si portano a casa anche un rimborso vitto di 735 euro per 21 giorni di lavoro, più quello per l’uso della macchina che, a seconda della provincia di residenza, varia dai 533 euro per i triestini – sempre per tre settimane (le settimane di presenza in Consiglio, però, sono quasi sempre due) - ai 3.210 per chi arriva da Pordenone e deve farsi 117 chilometri. Gli stessi che intascava l’ex presidente del Consiglio regionale, il leghista Eduard Ballaman, dopo aver scorrazzato a spese dei contribuenti per quasi due anni (dal 2008 al 2010) con l’auto blu per viaggi di piacere con la propria compagna.
A differenza di quelli di altre Regioni italiane, i consiglieri del Friuli vantano buste paga “blindate” e fissate a quanto percepivano a gennaio del 2011, grazie ad un emendamento inserito nella legge Finanziaria 2012 e votato a novembre trasversalmente da tutti, con esclusione dell’Italia dei Valori. Insomma, come ha denunciato l'ex consigliere dell’Idv Alessandro Corazza, si è trattato di una “messa in sicurezza” da nuovi tagli nazionali dell’indennità”, ma non solo anche dei soldi a disposizione dei gruppi Consiliari. C’è di più. «L’aver slegato l’indennità dei consiglieri da quella dei parlamentari e averla definita all’importo in vigore al 1° gennaio 2011, ha un effetto diretto anche sui vitalizi di chi è già in pensione e di chi ancora deve andarci, evitando che anche questi siano adeguati ai tagli romani». E ad essere a rischio è anche il referendum proposto dal Comitato guidato da Giovanni Ortis, che chiede di abolire i vitalizi e la cosiddetta indennità di fine mandato, come ha indicato Corazza: «Andando a modificare la legge sull’assegno vitalizio si fa decadere definitivamente il referendum abrogativo. In questo modo i Consiglieri regionali hanno eliminato quello che per loro rappresentava un problema non indifferente».
Dal nord alle isole la situazione non sembra cambiare. In Sardegna quello del consigliere regionale non è certo un lavoro mal retribuito, anche per chi non ha incarichi extra. Ecco cosa compariva in una busta paga del 2011: indennità consigliare 9362,91 euro e diaria consiglieri 4003,11 euro, per un totale lordo di 13.366,02 euro. Per il presidente del Consiglio regionale invece bisogna aggiungere l’indennità di carica di 4.038,67 euro, a cui vanno sommate le spese di segreteria e rappresentanza (3.352 euro) e quelle di documentazione, aggiornamento, stampa e strumentazioni tecnologiche (9.026 euro l’anno) e ancora gli eventuali emolumenti relativi agli altri ruoli ricoperti in Consiglio. Qualche passo verso il risparmio, però, la Regione Sardegna lo ha fatto. Ad esempio ha abolito il vitalizio, ha ridotto il numero dei consiglieri da 80 a 60, le indennità e i finanziamenti ai gruppi risparmiando oltre 1 milione e 300mila euro. Alla Regione, però, ci sono ben altre spese più consistenti. Ad esempio quelle per la gestione dei sistemi informatici regionali. Acronimi e sigle dietro cui si celano spese per milioni di euro: il Si-Bar dell’Amministrazione Regionale, il Sisar della sanità, il Sira dell’ambiente e il Sil del lavoro. Per il sito della Regione e per il sistema informatico per la pianificazione territoriale si spendono circa 2 milioni di euro l’anno e 5milioni e 700mila per quello sanitario. Il Sibar costa 2 milioni di euro, lo stesso vale per il sito del lavoro. Uno smacco per il popolo sardo, afflitto da sempre dalla piaga della disoccupazione e che attende da sei anni un nuovo piano occupazionale. Finora si sono spese per l’informatizzazione della Regione centinaia di milioni di euro: solo Sibar e Sisar sono già costati alle casse della Regione quasi 100 milioni di euro. E sul fronte sanitario, quello che grava maggiormente sul bilancio, pesano stipendi d’oro, come quello di Giorgio Pisu, un medico cardiologo di 70 anni, ex proprietario di una casa di cura privata e candidato Udc alle regionali 2009: per dirigere per tre anni l’Agenzia Regionale della Sanità (l’organismo tecnico-scientifico della Regione che supporta l’Assessorato Igiene e sanità e l’assistenza sociale) riceve un compenso di 130mila euro.
Infine c'è la Sicilia, che vanta il Consiglio più affollato e ricco d'Italia. Per mantenere la casta di Palazzo dei Normanni ogni siciliano spende cinque volte più dei lombardi, 33 euro l’anno, per una spesa complessiva di 167,5 milioni. Anche vitalizi e retribuzioni del personale sono in testa alla classifica degli sperperi: l’Ars ha stanziato per le pensioni dei consiglieri – in Sicilia “deputati” – 20,5 milioni di euro, tre volte tanto in confronto alla Lombardia che, pur avendo più dipendenti (296 contro 248) spende per i suoi funzionari la metà dei 40,4 milioni di euro che sborsa l’Ars. Questo perché i salari del personale della regione a statuto speciale sono parametrati a quelli del Senato.
Anche altre voci di bilancio fanno impallidire: nell’anno appena trascorso solo la buvette dell’Ars è costata oltre 925mila euro, 77mila euro al mese, mentre le spese di rappresentanza ammontano a 342mila euro, dieci volte in più della Puglia e trenta volte in più dell’Emilia Romagna. Solamente per le divise dei 120 commessi la Regione paga 360mila euro, mentre per il noleggio e la gestione delle 13 auto blu in dotazione 425mila euro. Entrare a lavorare all’Ars rappresenta il sogno di ogni siciliano. Palazzo dei Normanni, infatti, garantisce stipendi e pensioni impensabili per qualsiasi altro dipendente pubblico. Un segretario generale, con 24 anni di anzianità, ha uno stipendio netto pari a 13.145 euro al mese in 16 mensilità. Un suo pari del Consiglio regionale della Lombardia guadagna 6.590 euro netti in sole 13 mensilità. Con 35 anni di anzianità, sempre un segretario generale ha garantita una pensione di 12.263 euro netti al mese, mentre un consigliere parlamentare con incarico di direttore con 24 anni d’anzianità guadagna 9.257 euro netti al mese (3.790 in Lombardia). I 120 commessi, con 24 anni di lavoro alle spalle, arrivano a guadagnare 3.736 euro netti al mese e possono contare su una rendita pensionistica di 3.439 euro.
Con questi dati alla mano, viene da pensare che negli anni lo Statuto Speciale abbia conferito a queste Regioni privilegi ormai intollerabili a discapito delle finanze pubbliche e che siano necessari una maggiore trasparenza e un controllo più efficace sulle scelte degli amministratori locali.
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