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Giugno-Luglio/2010 - Pubblicazioni
Per l’ispettore triestino un’indagine con ritratto di famiglia
di Paolo Pozzesi

Nel secondo romanzo di Andrea
Ribezzi - finalista al Premio Franco Fedeli - ritorna
l’ispettore Massimo Ravera, condotto a seguire
una pista che lo porta ad affrontare enigmi
e a porsi interrogativi che, per alcuni
aspetti, lo coinvolgono in prima persona


“Gennaio 1995. Erano gli ultimi del mese, i giorni della merla, solitamente i più freddi dell’anno, ma per una bizzarria meteorologica a Trieste il clima era mite”. Così ha inizio il prologo del nuovo romanzo di Andrea Ribezzi (“Eredità blindate – L’ispettore Ravera indaga”, Ibiskos Editrice Risolo, pagg. 248, ? 12,00), vigoroso e vivace come quello che l’ha preceduto. Massimo Ravera è tornato a casa interrompendo una vacanza – insieme a un’amica romana quasi fidanzata – per assiste al funerale del padre. Al cimitero, come su un palcoscenico elisabettiano, sono schierati i comprimari delle vicende dell’ispettore: il nonno Settimo, la madre Luisa, i colleghi del commissariato di Opicina, compresi il sempre incazzato commissario Liguori – che ad aggravare le cose è anche capo della Mobile -, e la dolce e disponibile, non solo professionalmente, Valentina Triani. E poi la giornalista d’assalto Stefania Piani, che ha lasciato impronte infuocate nelle pagine di “Sette Fine – La prima indagine dell’ispettore Ravera”. E persino il questore.
In realtà pochi tra i presenti conoscevano il defunto Luciano Ravera, stroncato da un infarto in una sala giochi, e chi lo conosceva sa che era un personaggio da prendere con le molle. E lo sa anche il figlio Massimo, el sbiro, che dovrà andare molto in fondo per ricostruire una trama che ha le sue origini in avvenimenti di mezzo secolo prima.
Come nel primo romanzo di Andrea Ribezzi, la protagonista sullo sfondo è sempre lei, Trieste, la bella dallo sguardo azzurro del mare, la città che accoglie per antica vocazione la mescolanza degli idiomi e delle passioni, del bene e del male sublimati in forme sempre diverse. E Massimo Ravera – come il suo creatore Ribezzi – è un poliziotto triestino doc, che della sua città sa tutto, e ogni giorno scopre nuove sfumature.
L’indagine di Ravera parte, come spesso accade, alla cieca, sulla base di sospetti ai quali sembra difficile dare una direzione precisa. E poi, non è piuttosto anomalo che un ispettore indaghi su fatti nei quali in qualche modo è implicato il padre, sia pure morto? Probabilmente sì, ma dietro le quinte si muovono personaggi anonimi (i Servizi, ma non solo i Servizi) che sono in grado di guidare le mosse del solito Liguori, e anche del questore. Ravera lo sa, e ci si arrovella, parando come può i colpi del “fuoco amico”, e cercando – e a volte trovando – l’appoggio del magistrato Silvana Melfi. “Era un giovane magistrato al primo incarico come Sostituto Procuratore. Alta, magrissima, capelli castani lunghi oltre le spalle, occhi scuri, aveva un carattere forte che spesso si esprimeva con un atteggiamento molto deciso, quasi altezzoso, specie verso gli uomini”.
Per il resto, ordinaria amministrazione. “Signori, si ricomincia!”, annuncia Ravera ai suoi colleghi e colleghe tornando al commissariato di Opicina, E si ricomincia con il cadavere di una giovane donna trovata, seminuda, sulla landa carsica. Priva di documenti ma “probabilmente di nazionalità est-europea”. Traduzione: clandestina, e prostituta. Quanto alla nazionalità, serba, croata, o slovena. E infatti di serbi, maschi e femmine, ne spuntano altri, vittime e carnefici, insieme a balordi locali, strozzini, e qualche fantasma di un fosco passato.
Riemergono le tracce dei collaborazionisti dei nazisti negli anni in cui, dal 1943 al 1945, Trieste e la Venezia Giulia faceva parte dell’Ozak, la Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico annessa al Terzo Reich. E delle formazioni neofasciste dei primi anni ’50, nelle quali militava anche Luciano Ravera. “Luciano partecipò insieme ai fratelli Sciortino e ad altri consimili alle manifestazioni di novembre del ’53 nelle quali ci scapparono dei morti e dietro alle quali in molti pensarono che ci fossero i neofascisti finanziati dai servizi segreti italiani”. E’ il racconto del nonno Settimo al nipote, che in questa inchiesta deve affrontare fra le varie gogne, quella degli affetti famigliari. E non è tutto, perché, tra un morto ammazzato e l’altro, la trama si infittisce, vengono alla luce i crimini della caccia agli ebrei accompagnata dalla sistematica spoliazione dei deportati, e nella vicenda si inserisce un inatteso “mistero del tesoro sommerso”. Mentre l’ispettore Ravera sente che a ogni passo che fa c’è qualcuno che gli taglia l’erba sotto i piedi.
Che fare? La tentazione di mollare è forte, ma lo è ancora di più la tenacia di Massimo Ravera. O piuttosto il suo concetto del dovere e della giustizia. E l’ispettore con l’aiuto dei suoi riesce a sbrogliare la matassa, a trovare le risposte giuste, e offre a chi la vuole una soluzione parecchio imbarazzante. E chiede di riprendere le ferie che ha dovuto interrompere. “Mi serviranno per fare, è proprio il caso di dirlo, il punto nave sul mio ruolo in questo carrozzone e soprattutto sul rapporto con… mio padre”. Quello e altro. Compreso un “rapporto” che prevediamo avrà interessanti sviluppi nella prossima indagine. Perché le difficoltà e i problemi fanno parte integrante del Dna del nostro perennemente inquieto ispettore.

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