Nicolò Machiavelli in una lettera inviata il 9 aprile 1513 a Francesco Vettori, così si presentava: “la fortuna ha fatto si che non sapendo io ragionare né dell’arte della seta, né dell’arte della lana, né di guadagni, né di perdite, mi conviene ragionar dello Stato”.
Politico, storico, uomo di lettere, queste le componenti di Machiavelli per i suoi lettori moderni.
I suoi contemporanei vedevano in lui un modesto ma non ignobile letterato. I tre secoli di critica successive ne hanno analizzato quasi esclusivamente il profilo politico.
L’atteggiamento politico della critica al Machiavelli, fino alla fine dell’800, si spiega con la novità sconvolgente e appassionata del suo messaggio che segue la fortuna o la sfortuna quasi esclusiva del “Principe” che lo portò alla popolarità con aspetti leggendari.
Su questa opera disancorata dal contesto storico e dal corollario delle altre opere machiavelliche, si è focalizzata l’attenzione di uomini di chiesa e di stato, di filosofi e di giuristi attenti più al problema generale del rapporto tra etica e politica che alla risposta a tale problema in esso contenuta.
Scritto in tempi eccezionali della vita politica italiana l’opera delinea la figura di un sovrano che necessita di agire con urgenza e poteri straordinari. Il “Principe” è l’artefice essenziale di quel mito per cui lo stato è tutto: privo di morale, di ragione e di anima.
Anche questi nostri tempi, come nei precedenti, si verificano nei confronti del Machiavelli due diversi tipi di approccio, quello dei letterati e dei critici, che si propongono di approfondire la conoscenza del suo pensiero e quello dei politici, che non esitano a stravolgerlo per farlo servire ai propri fini.
“L’elemento fondamentale della politica è l’uomo” ma dobbiamo chiederci quale opinione avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare conoscendo il suo acuto pessimismo nei riguardi della natura umana.
Machiavelli non s’illuse e non illude il “Principe”. L’antitesi fra Principe e popolo, fra stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale.
Secondo Gramsci, il Machiavelli vuole persuadere le forze democratiche dell’epoca della necessità di avere un capo che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo con entusiasmo anche se le sue azioni possano essere o sembrare in contrasto con l’ideologia diffusa.
E’ vero, dice Gramsci, che il Machiavellismo è servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, ma il suo carattere rimane fondamentalmente rivoluzionario perché una teoria e una tecnica della politica più moderna finiscono col servire specialmente alla parte che “non sapeva”, perché in essa è ritenuta esistere la forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito il risultato di spezzare l’unità basata sulla ideologia tradizionale, senza la cui rottura la nuova forza non acquista coscienze della propria personalità indipendente.
Ma per i marxisti sovietici, del suo stesso partito, Machiavelli rimane soltanto l’interprete degli interessi della borghesia. Ma è noto che la figlia di Stalin, Svetlana laureandosi all’Università di Mosca abbia scelto proprio il Machiavelli come soggetto della sua tesi.
Oggi nell’era del “progresso” e della “tecnologia” Machiavelli è diventato un tecnico della politica, un uomo che studiava le leggi della convivenza umana con rigore scientifico.
Non sappiamo se questo sarà il giudizio definitivo poiché ogni tempo è destinato a rispecchiarsi sul viso enigmatico del “Principe”, per arrivare a risolvere situazioni morali e confuse, divenendo astuti, spietati e implacabili.
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