Erano gli anni Settanta quando i primi presero a vedersi
clandestinamente. Lo scopo, la smilitarizzazione del Corpo
e l’estensione dei diritti sindacali anche agli uomini in divisa.
La Riforma dell’81 ne fu un passaggio cruciale
Sono pochi i poliziotti giovani che conoscono la storia della propria amministrazione. Pochissimi quelli consapevoli che le tutele e i diritti che oggi paiono scontati sono frutto, invece, del coraggio e della tenacia di alcuni loro colleghi del più recente passato. Li chiamavano “carbonari” perché costretti, come quelli storici, a riunirsi di nascosto, in luoghi non sospetti, lontano da occhi e orecchie della temuta amministrazione, pronta a mandarli sotto processo militare. Nonostante l’art. 17 della Costituzione, che garantisce a tutti il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per i “carbonari” è rimasto, troppo a lungo, un diritto sulla carta. Un diritto di carta. Nessuna cospirazione, nessun colpo di Stato, nessuna “trama” contro le Istituzioni repubblicane. L’impegno dei “carbonari” era per le Istituzioni, che volevano migliori, a partire dalla “pubblica sicurezza”. Accanto alle guardie, fin da subito, Franco Fedeli e i suoi collaboratori della redazione di “Ordine pubblico”, dove si tenevano le riunioni “clandestine”. L’appoggio di Fedeli – giornalista, ex partigiano arrestato ai tempi dell’Ovra, che coinvolse personalità della cultura, magistrati, giuristi, sociologi – fu indispensabile per la nascita ed il rafforzamento del Movimento per la riforma della Polizia. Da Roma, grazie alla rivista e all’impegno dei primi “carbonari”, la rete cominciò ad estendersi nelle altre città: Genova, Bologna, Padova, Napoli. Nel giro di pochi mesi, in quasi tutti i capoluoghi di provincia era attivo un nucleo di carbonari. Nel 1972 i quadri del Movimento erano già circa seicento.
Considerata dai vari governi esclusivamente il proprio braccio repressivo, per i carbonari la Polizia era strumento di garanzia dei diritti dei cittadini; la Costituzione repubblicana riconosceva certi diritti e loro erano chiamati a tutelarli. Le guardie, invece, erano cittadini di serie b (“dovete stare a cuccia come i cani”, era solito ammonire un comandante di Trieste) con un solo, chiaro, obiettivo: smilitarizzare, sindacalizzare e democratizzare la Polizia. Non più militari: la pubblica sicurezza deve esser gestita da corpi civili. Non più senza tutele: i poliziotti sono lavoratori, come gli altri, con diritti e doveri: era ora di dire basta ai poliziotti impegnati come camerieri di Prefetti o idraulici nelle case dei superiori. Non più rigide strutture di comando: la Polizia è, prima di tutto, con la gente e per la gente, organismo democratico della Repubblica democratica. Perché non doveva più accadere che un poliziotto fosse colpevole di pensare.
“Bisognava fare qualcosa per uscire da quell’equivoco dalle profonde radici storiche: i poliziotti non potevano né dovevano essere utilizzati come guardiani armati contro altri cittadini. Il ruolo assegnato loro dalla Costituzione era quello di garantire la sicurezza di tutti i cittadini, non quello di essere utilizzati per tamponare con la forza conflitti sociali non affrontati politicamente”: ad affermarlo, Ennio Di Francesco, commissario, protagonista di primo piano del Movimento, che pagherà caro il suo impegno.
“Da tempo Franco Fedeli e i carbonari romani – scrive Di Francesco nel suo Un commissario scomodo – stavano preparando una riunione nella capitale a cui sarebbero dovuti intervenire anche parlamentari e sindacalisti di diverso orientamento politico. Alcuni di loro erano già in contatto col Movimento. Si trattava ora di convincerli a incontrare congiuntamente i poliziotti e a discutere insieme, al di là delle diverse ideologie, della riforma della Polizia. Finalmente Fedeli mi telefonò. L’operazione, accuratamente preparata, era scattata: appuntamento a Roma il 2 luglio [1974] con la solita tecnica d’incontro collaudata per le nostre riunioni clandestine. A Roma venne ad accogliermi alla stazione la guardia Fedele Fortunato. Scortati da un altro poliziotto del Movimento che si accertava che non fossimo seguiti, arrivammo al luogo convenuto. Una cinquantina di persone gremiva la piccola sala nei pressi del Pantheon. […]. I deputati ascoltavano attenti, increduli e perplessi, le parole appassionate dei poliziotti che illustravano dure condizioni di vita e speranze di cambiamento e li ringraziavano d’essere lì tra loro”.
Le parole del commissario gelarono la sala: “Signori parlamentari, i miei colleghi vi ringraziano, io no. Stiamo parlando di sicurezza dei cittadini e delle Istituzioni: non ritenete sia umiliante che dei poliziotti, per incontrarsi con voi rappresentanti del popolo, debbano farlo clandestinamente, strisciando come ladri lungo i muri? Ciò non nel 1800, ma nel 1974, con una Costituzione che parla di diritto d’espressione, d’associazione e libertà sindacale”.
Luglio 1975. L’allora dirigente della Mobile romana, Fernando Masone convoca Di Francesco nel suo ufficio. C’è un problema che ha un nome e un cognome, Marco Pannella, che ne avrebbe combinata una delle sue, fumando l’indomani uno spinello nella sede del Partito Radicale di via Torre Argentina. Pannella aveva avvertito provocatoriamente Carabinieri e Procura e tocca a Di Francesco intervenire, in qualità di capo della sezione narcotici. Il salone è gremito: giornalisti e fotoreporter pronti a raccontare quanto sarebbe accaduto. Dopo un’ora di interventi sull’assurdità della legge antidroga che si accaniva contro i tossicomani anziché colpire i trafficanti, Pannella mantiene la promessa: estrae dalla tasca una sigaretta, la accende e inizia a fumarla: “Questo è uno spinello di marijuana! – dice rivolgendosi a Di Francesco. Invito il rappresentante della legge ad arrestarmi”. Pannella segue Di Francesco in Questura per gli accertamenti sul contenuto della sigaretta; nell’attesa, Di Francesco fa leggere all’esponente radicale un intervento tenuto pochi giorni prima in un convegno presso il circolo Rai, nel quale sostiene che la legge vada cambiata. Pannella viene poi arrestato e condotto a Regina Coeli. “Mi era impossibile – spiega il commissario – non pensare a quell’uomo che era finito in carcere per aver affermato delle verità importanti per tutti quei giovani caduti nella trappola della droga […] D’impulso scrissi il telegramma: se come funzionario ho dovuto applicare una legge anacronistica e iniqua, come cittadino mirante a una società più giusta e umana, non posso non esprimerle stima e ammirazione. Destinatario: personale Marco Pannella, Regina Coeli, Roma”.
Il mattino successivo scoppia il finimondo! Così Di Francesco lo racconta al giornalista Valter Vecellio in “Radicalmentesbirro”: “Un agente scuro in volto mi porta una copia del Momento Sera fresco di stampa col titolo in prima pagina: il commissario che ha arrestato Pannella gli esprime solidarietà, con sotto una foto scattata nel salone di Torre Argentina, Pannella che fuma, io a braccia conserte che osservo… La frittata è fatta, penso. […Ma] ero convinto dovessi farlo! Un gesto di solidarietà umana senza seguito per un problema drammatico! […] Sul tavolo dell’ufficio trovo una busta gialla riservata-personale, di quelle che per chi conosce l’Amministrazione annuncia grane. La apro, è un fonogramma: E’ stato redatto rapporto alla Procura della Repubblica di Roma riscontrandosi elementi di reato. Con effetto immediato si dispone che il commissario Ennio Di Francesco cessi dal servizio presso la squadra mobile in attesa delle decisioni adottate dal superiore Ministero. Firmato: Ugo Macera, Questore di Roma”.
Di Francesco sta seguendo in quei giorni una delicata e complessa indagine, che chiede di poter concludere. Niente da fare, ordini dall’alto: deve andarsene. Trasferito all’ufficio passaporti a mettere timbri. Indagine smantellata.
“Giuristi insigni e personalità prestigiose si schierarono al mio fianco – racconta il commissario a Vecellio in Radicalmentesbirro –. Filosofi come Guido Calogero e Norberto Bobbio, giuristi come Stefano Rodotà e Paolo Barile, il Presidente emerito della Corte costituzionale Giuseppe Branca sostennero il pieno diritto di un pubblico ufficiale di criticare una legge che ritiene ingiusta, purché l’applichi correttamente. Nel frattempo il caso Pannella fede interrogare tutti sulla bontà della legge antidroga. Il Parlamento riprese lavori accantonati e nel dicembre 1975 emanò la nuova legge certo più saggia e moderna. In essa, per quel che riguarda la Polizia, venne istituito un Ufficio centrale antidroga interforze. Infine il giudice Santacroce archiviò la denuncia redatta nei miei confronti: non c’era alcun reato di telegramma. […] Forse è una delle disavventure che rifarei. Qualcosa socialmente cambiò e non è un caso che tanta gente ricordi ancora quell’episodio”. Con Marco Pannella il commissario si incontrerà altre volte. Magari non condividerà tutte le sue idee, tutte le sue battaglie, talvolta troppo “radicali”. Ma di certo non potrà negare un loro tratto in comune: tenacia e impegno per obiettivi che si ritengono giusti.
30 aprile 2004: ultimo giorno di servizio del dottor Di Francesco. “Nel 2004 – spiega in Radicalmentesbirro – si era nella fase di predisposizione finale del rapporto che avrebbe influito sulla scelta della sede dell’Accademia europea di polizia. Col generale Siazzu durante la presidenza italiana del semestre 2003 avevamo costruito le premesse affinché l’Italia potesse diventare un polo di formazione per i funzionari europei sulla tematica immigrazione. Era cosa fatta! Fui messo in pensione il primo maggio 2004; il negoziato si sarebbe concluso durante la presidenza irlandese a Dublino il 12 maggio. Mi misi a rapporto, chiesi una proroga di pochi giorni per affiancare almeno come esperto il Generale; ero disposto ad andare a mie spese! Ero l’unico che poteva concludere quel negoziato! Invano! In quelle condizioni sdegnato non andò neppure il generale Siazzu; il mio sostituto, ovviamente impreparato al negoziato, gli era stato messo a disposizione solo il giorno prima. La sede di Cepol fu assegnata alla Gran Bretagna, a Bramshill”.
Presso la Scuola di perfezionamento per le Forze di Polizia “all’ultimo minuto dell’orario di lavoro, alle 20, in lacerante solitudine, staccato anche il quadro di Palatucci, avevo chiuso l’ultimo cartone, e in esso parte di me”. Dal giorno successivo, primo maggio, festa dei lavoratori, il commissario Di Francesco sarebbe stato un “congedato d’ufficio”. Colpevole di aver (troppo) pensato.
FOTO: A destra, Ennio Di Francesco assiste alla scena in cui Marco Pannella fuma una ‘canna’ prima del suo arresto
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