A margine dell’incontro di Bologna, si è svolto un confronto dal titolo
“Risorse e proposte per prevenire e contrastare la violenza contro le donne”.
Riportiamo l’intervento del Segretario generale del Siulp Felice Romano
Questa sera siamo qui e ringrazio gli amici del Siulp di Bologna per aver arricchio il premio Franco Fedeli con questa tavola rotonda dedicata ad una problematica difficile, incalzante e devastante che sta investendo l’intero mondo, il nostro Paese e l’Europa stessa. Il femminicidio; un fenomeno come reato di genere che, oltre ad essere motivo di riflessione su come affrontarlo e debellarlo, non ci sottrae dal fare anche un mea culpa sulle gravi e innegabili responsabilità che incombono su ognuno di noi e sull’intera società.
Cercheremo di farlo con un excursus logico e un’analisi dei dati, pochi a dire il vero, sempre però nella consapevolezza che i dati sono un po’ come i lampioni per gli ubriachi, non l’illuminano anche se li aiutano a sorreggersi.
Ecco perché partirò da alcune considerazioni fondamentali, rispetto ad alcuni dati e dalla necessità di fare “Rete” e dalle risorse che ad oggi sono state stanziate (nessuna) e quelle che, pur non essendo state previste specificatamente, possono comunque esserci utili per iniziare un’azione di contrasto, di formazione e informazione per debellare questa che possiamo definire una vera e propria piaga.
La violenza contro le donne, a mio avviso, è prima di tutto una questione strutturale, globale ma soprattutto culturale.
Secondo uno studio dell’Oms su abusi subiti dalle donne svolta in 81 Paesi, il 35% di esse subisce violenza nel corso della propria vita; quella più comune è quella perpetrata da mariti e fidanzati. Il 38% muore per mano del partner, il 42% di quelle che subiscono violenze fisiche o sessuali da parte di uomini, hanno riportato danni alla salute (depressione, dipendenza dall’alcol, malattie a trasmissione sessuale Hiv, sifilide, ecc.). Una donna su 6 che si ricovera per fratture ha subito violenza nell’arco dell’ultimo anno.
Altri dati: 600 milioni di donne vivono in Paesi in cui la violenza domestica non è considerata un crimine; la violenza domestica è la prima causa di morte al mondo per donne tra i 16 e i 44 anni; secondo gli ultimi dati, in Italia viene uccisa una donna ogni 3 giorni dal proprio compagno (circa 124 omicidi nell’ultimo anno); il 50% delle donne che non denunciano gli abusi non è economicamente autosufficiente; la violenza sulle donne è endemica sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo, le vittime appartengono a tutti i ceti sociali, in India e in Cina il femminicidio avviene mediante l’aborto selettivo; lo stupro etnico in un recente, molto recente passato, è stato utilizzato come vera e propria arma di guerra; ancora oggi, anche nel nostro Paese e senza voler fare polemica con il credo e il modo di seguire alcune religioni che però incidono in tal senso, viene praticata l’infibulazione alle bambine.
Un’altra questione che, ne sono consapevole, potrebbe crearmi non poche antipatie ma che la responsabilità e la ferma e convinta volontà di affrontare seriamente la questione non mi consente dall’esimermi di affrontarla, riguarda il modello educativo e il ruolo di principale attore che proprio le donne hanno su questo terreno. Forse, in questo ambito, vi è la necessità di fare alcune riflessioni e verificare se non sia il caso di cambiare o adeguare non solo i modelli ma anche i comportamenti a partire proprio da quelli delle donne. A tal proposito, e con tutta la cautela del caso poiché mancano dati che possano consentire un collegamento diretto tra i due fenomeni, credo non sia sbagliato richiamare l’attenzione sul fenomeno del bullismo.
Questo comportamento, sempre più diffuso tra i ragazzi potrebbe, a mio avviso, trarre origine proprio dalla crisi dei modelli educativi e dalla perdita di autorevolezza delle agenzie preposte a questi modelli (famiglia, scuola ecc.).
Sarebbe interessante infatti poter disporre di dati e verificare quanti ragazzi assurti all’attenzione per fenomeni di bullismo hanno alle spalle condizioni familiari nelle quali si sono perpetrate violenze domestiche e confrontarli poi con quanti di questi, raggiunta l’età adulta, si sono manifestati anche come stalker e, peggio ancora, come autori di femminicidio.
Mi rendo conto della presunzione e anche della gravità di questo ragionamento; ma sono convinto che se vogliamo risolvere questa piaga del femminicidio e dello stesso bullismo, e non è un caso che il Siulp abbia iniziato aderendo all’Osservatorio Nazionale Antibullismo e Antidoping, che proprio il 4 giugno scorso alla Camera dei Deputati ha organizzato un convegno per affrontare la tematica. Bisogna partire da due aspetti fondamentali: conoscere bene il fenomeno per poterlo inquadrare e predisporre innanzitutto attività di prevenzione.
Vi è poi il problema della comunicazione: sul femminicidio essa è fondamentale per due aspetti. Il primo attiene al metodo di insegnamento e della comune interazione tra le persone e tra queste e le agenzie deputate a tale compito (si pensi ai mass media, alla famiglia e alla scuola) che ha assunto nel tempo, sempre più un carattere sessista (come lo definiscono gli esperti) con marcata connotazione maschile; il secondo riguarda il modo con cui i mass media fanno comunicazione e sul quale va fatta una seria considerazione anche rispetto alla necessità di dotarsi, almeno per materie così delicate come quelle che attengono al reato di genere sulle donne e sui minori, di un codice deontologico che preservi la privacy e la dignità delle vittime.
L’ultima questione riguarda un aspetto curioso e interessante, che ci aiuta ad inquadrare bene la problematica, che ha attirato la mia attenzione nel corso delle ricerche effettuate sul tema: persino il Wall Street Journal, il Financial Times e l’Economist si stavano interessando del fenomeno, con titoli tipo “Love Kills” (L’amore uccide) o “Redeemers of a macho society” (Redentrici di una società machista), nei quali si sottolineava, in riferimento al femminicidio, l’inquietante diffusione della violenza di genere.
Nel trattare lo specifico tema venivano citate alcune situazioni relative alle conquiste effettuate dalle donne ed in particolare quelle brasiliane. Il Brasile infatti è un Paese, sottolineava l’Economist, in cui il Presidente è una donna che vanta il 26% di donne nel proprio Gabinetto, in cui ha sede l’unica grande compagnia petrolifera del mondo guidata da una donna (la Petrobas) e dove è donna il 27% dei senior manager delle principali società, contro il 21% della media mondiale (pensate che nella evolutissima Svezia il dato si ferma al 23%, in Gran Bretagna al 20% e negli Stati Uniti al 17%). L’articolo chiudeva sottolineando che il 20% dei miliardari carioca sono donne contro la media mondiale che vede il dato fermo al 10%. La cosa che mi ha colpito è stata: ma perché quotidiani così importanti, e alcuni dal chiaro taglio economico, si interessano ad un fatto di carattere sociale che sfocia in criminalità?
La risposta, credo possa trovare spiegazione nei dati forniti dall’Ocse. Secondo questi dati emerge che se i Paesi dell’Ocse eliminassero del tutto, entro il 2030, il divario di genere nella forza lavoro (oggi composta dal 65% di donne e dal 79% di uomini), il loro Pil, nello stesso periodo, crescerebbe del 12%. Se il Giappone portasse la forza lavoro femminile ai livelli dell’Europa del nord, il suo Pil pro capite aumenterebbe dell’8%. Se in Francia e in Germania la forza lavoro femminile fosse ai livelli di quella maschile, il Pil salirebbe del 4% entro il 2020, se accadesse in Egitto il Pil volerebbe addirittura del 34%.
E vengo ai dati di “casa nostra”: nel 2009 sono stati decretati 990 ammonimenti e 724 divieti di avvicinamento; nel 2010 rispettivamente 1.211 e 1.340; nel 2011 1.045 e 2.036 e nel 2012 1.058 e 2.019. Nello stesso periodo il numero dei delitti relativi agli atti persecutori commessi in Italia sono quantificabili in: 6.216 nel 2009; 7.673 nel 2010; 9.027 nel 2011 e 9.852 nel 2012. Le vittime di questi atti, sempre nello stesso periodo, vedono una media pari a circa l’80% di donne che è pressoché costante in tutto il quadriennio.
Rispetto agli omicidi volontari, specificando che riportiamo il numero di vittime donne e che non sono riferite tutte al femminicidio, la situazione è la seguente: nel 2008 su 615 omicidi, 148 sono state donne; nel 2009 su 590 casi 172 erano donne; nel 2010 su 531 le donne sono state 158; nel 2011 su 553 le donne sono 170 e nel 2012 le vittime donne sono 160 su 526. Nel primo trimestre di quest’anno le donne vittime di omicidio sono 42 su 126 complessivi.
Questi primi dati, come si può constatare e rammentando sempre quello che ho detto in premessa sulla lettura delle statistiche, rappresentano già un chiaro indicatore su alcuni fattori: è un fenomeno comune a tutte le società, a tutte le classi sociali e prescinde, al di là dell’andamento che in ogni territorio si registra, dalle condizioni di scolarizzazione, di benessere sociale o di altri fattori di criticità che investono le popolazioni. E’ quindi, soprattutto, una questione culturale dalla quale, se vogliamo vincere le future sfide della globalizzazione e della reale e pacifica integrazione dei popoli, non si può prescindere.
E’ comunque positivo che l’attuale Esecutivo abbia assunto nell’agenda politica lo specifico tema della violenza sulle donne nominando anche un Consigliere ad hoc che potrà essere un riferimento costante per conoscere lo “stato dell’arte” e le strategie con cui il Ministero intende procedere per contrastare il fenomeno.
Ecco perché è necessario fare “Rete”, sistema, perché solo insieme e con i necessari supporti legislativi, economici ma soprattutto culturali possiamo sperare di sconfiggere questa piaga. Nel sistema, ovviamente un ruolo fondamentale spetta anche all’associazionismo e al volontariato.
In Italia, dove è bene ricordarlo il delitto d’onore è stato abrogato solo nel 1981 con tutto il vulnus negativo che ciò ha comportato in termini culturali e strategici, i primi centri antiviolenza sono nati alla fine degli anni 90 a Bologna e a Milano. Solo nel 2008 nasce una federazione che riuniva 63 centri antiviolenza con funzioni di recupero delle donne maltrattate (inizia un sistema di “Rete” anche se senza alcun supporto legislativo ed economico).
Un recente studio dell’Onu Dc (Organizzazione Nazioni Unite – Droga e Criminalità – 2011 studio globale sugli omicidi), relativamente all’Europa e per l’anno 2008 ha evidenziato come circa il 65% delle donne vittime di omicidio, sia stata uccisa da mariti o ex mariti (35%), da parenti (17%) o da altri membri della famiglia (10%) rilevando che studi condotti in Canada, Australia e Stati Uniti fornivano quasi gli stessi risultati. In termini più specifici in Italia gli omicidi delle donne, nello stesso anno, rappresentavano il 23,9% delle uccisioni (0,5 x 100.000 abitanti) in Romania il 34,5% (0,5 x 100.000 ab.), in Norvegia il 41% (0,5 x 100.000 ab), in Svezia il 34.5% (0.6 x 100.000 ab.), in Croazia il 49% (1 x 100.000 ab.), in Belgio il 40% (1.5 x 100.000 ab.), in Germania il 49.6% (0.8 x 100.000 ab.), ed a Malta addirittura il 75% (1.4 x 100.000 ab. rispetto allo 0.5 x 100.000 ab. relativamente agli uomini).
Uno studio pubblicato nel dicembre 2012 da Euros-Ansa , evidenzia che i femminicidi in Italia fra il 2000 ed il 2011 sono stati 2.061 chiarendo come nel 66.3% dei casi il soggetto attivo sia rappresentato dal partner e che nel 2011 gli omicidi delle donne sono stati pari al 30,9 % degli omicidi totali.
Al fine di dare un parametro di confronto e anche per aiutare a comprendere quanto incida il fattore culturale su questo fenomeno, ritengo utile ricordare di seguito, seppur brevemente, che gli omicidi per causa d’onore sono stati: nel 1970 n. 21; nel 1971 n. 18; nel 1972 n. 14; nel 1973 n. 10; nel 1974 n. 19; nel 1976 n. 28; nel 1977 n. 74; nel 1978 n. 69; nel 1979 n. 69 nel 1980 n. 78 per un totale di 323 casi (dati Istat tratti da uno studio Eos del 2006).
Il termine femminicidio nacque per indicare gli omicidi delle donne in quanto donne. Ovvero gli omicidi basati sul “genere”.
Per Marcela Lagarde, antropologa messicana, oltre che parlamentare di quel Paese fra il 2003 ed il 2006, «femminicidio è la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dai suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine (maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare comunitaria istituzionale) che comportano l’impunità delle condotte poste in essere poiché, a livello sociale, lo Stato pone la donna in condizione indifesa e di rischio tanto che queste azioni possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa. Questo fenomeno può, altresì sfociare in altre forme di morte violenta, sia di donne che di bambine, quali i suicidi, gli incidenti, le sofferenze fisiche e psichiche dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni o alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia che le donne avvertono».
Questa breve premessa introduce il tema del “femminicidio” ovvero di una “categoria”, per ora non giuridica, con la quale si contrassegna l’omicidio di “genere” che sino ad oggi è sempre stato affrontato dall’aspetto repressivo piuttosto che preventivo. Una lacuna gravissima che potrebbe essere superata con il recepimento della convenzione di Istanbul appena votata dal nostro Parlamento.
La convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 infatti, è il primo strumento di Diritto internazionale diretto a tracciare un quadro complesso di riferimento normativo di natura preventiva (capo III), di protezione e sostegno (capo IV), di diritto sostanziale (capo V) in materia di contrasto di violenza alle donne. Nell’ambito della Convenzione si rintraccia, per definire la violenza alle donne il termine di “violenza di genere” (preambolo alinea 13; art 2, 2° comma in fine; art. 3 lettera a) e art 4, comma 4, per citarne alcuni). Appare utile ricordare, in questa sede, che alcuni Paesi, pur non avendo definito la categoria, raccolgono i dati sul fenomeno da lungo tempo (la Spagna dal 2003 in modo analitico sul sito del ministero della Sanità ed in Francia, su impulso della Federazione nazionale Solidarietà Donne, il ministero dell’Interno).
Il profilo che in questa sede intendiamo affrontare, non è relativo alla presa di posizione sul riconoscimento o meno della eventuale futura categoria giuridica del reato di femminicidio, ma svolgere alcune considerazioni che aiutino a comprendere il fenomeno e come, operativamente prevenirlo e affrontarlo.
Se per “femminicidio” si intende, così ci è sembrato di capire, l’uccisione di una donna soltanto perché è donna e dunque “genere”, appare evidente come l’affermazione può apparire fuorviante. Sarebbe femminicidio anche l’omicidio di una donna in seguito ad una lite fra vicini o quello per motivi di traffico. A nostro parere può qualificarsi come “femminicidio” quello che vede nella donna uccisa una “definita qualità”: essere sposa, compagna, fidanzata, figlia, nuora. I dati statistici che abbiamo esaminato all’inizio, sembrano deporre per questa tesi: “femminicidio” non è il reato commesso sul “genere” ma quello commesso sulle donne alle quali è legata una “qualità” specifica come prima ricordato. Questa distinzione, se vogliamo affrontare il vero problema che qui interessa, è fondamentale, soprattutto dal punto di vista preventivo.
Dall’esame del disegno di legge 3390 – Senato della Repubblica – sembrano apparire elementi confortanti verso questa tesi.
Il disegno di legge ha il pregio di definire un quadro ampio ed articolato di strumenti posti a difesa della donna (capi II, III, IV, VI, VII ). Vorrei soffermarmi brevemente nel rilevare come nell’articolo 20 (modifiche alla legge 13 ottobre 1975 ed al d.l. 26 aprile 1993 n. 122 convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 1993 n. 205) viene recepito il concetto di identità di “genere”. Gli articoli 17 e 18 sembrano invece fondarsi, per definire le condotte antigiuridiche, più che sul genere, sulla violazione dei principi di affidamento (inteso in senso ampio) che qualificano, rispetto agli altri consociati, i rapporti nascenti da vincoli di diritto familiare (o di principi, da questi mutuati, di quelli relativi alla convivenza).
L’adozione di uno strumento normativo rispetto al fenomeno che si intende contrastare, ha fatto per lungo tempo, attribuire “effetto salvifico” alla norma.
L’“effetto salvifico”, a mio giudizio, non è nella norma, ma nella sua applicazione. Un breve, ma chiaro, saggio del dottor Maurizio Santoloci, magistrato di Cassazione con funzioni di gip presso il Tribunale di Terni (pubblicato su Polizia Moderna nell’aprile 2012) ci consente di affermare l’essenzialità della rilevanza del profilo applicativo, più che la stessa esistenza giuridica della norma. Dopo essersi chiesto “servono nuove leggi?”, l’autore si sofferma sulla esistenza di “diffuse prassi interpretative” in base alle quali ad un soggetto incensurato non deve essere applicata alcuna misura di custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari, anche se l’arresto è convalidato. Si tratta di una procedura fisiologica adottata per reati ancora più gravi tra cui anche quelli di violenza e di sangue.
Parimenti è riconducibile ad una prassi interpretativa il “diritto automatico di ottenere il beneficio della sospensione condizionale della pena” che, nei fatti, innesca, almeno agli occhi della vittima per non dire dell’intera collettività, il cosiddetto “effetto salvifico”. Le conclusioni cui giunge il magistrato sono: un’interpretazione più rigorosa delle norme attualmente vigenti a livello sostanziale e procedurale consentirebbe – senza necessità del varo di nuove leggi – di contribuire a porre freno alla serialità di reati a grave allarme sociale che sempre più si stanno radicando e diffondendo sul territorio nazionale e che vedono uno sforzo rilevante delle Forze di Polizia. Ciò nonostante si ingenera, sempre più spesso, la convinzione nell’opinione pubblica che questo sforzo, di fatto, è vanificato nonostante gli obiettivi effettivamente conseguiti.
Il reato in esame, salvo rari casi, è preceduto da una serie di comportamenti, in alcuni casi prognostici dell’evento finale. Gli atti persecutori, introdotti nella nostra legislatura dall’art. 612 bis dal d.l. 23/02/2009, convertito in legge, con modificazioni dalla legge 23/04/2009 n. 38 (fra gli Stati che si sono dati una legislazione specifica ricordiamo gli Usa nel 1994, il Canada nel 1993, l’Inghilterra nel 1997, l’Olanda nel 2000, la Danimarca addirittura nel 1930) sono un chiaro indicatore di situazioni che potrebbero evolversi in femminicidio. Sotto il profilo pratico, infatti sarebbe utile conoscere, in dettaglio, non solo il fenomeno nel tempo, ma in quale misura i reati di stalking si sono “evoluti” in omicidio. Sotto il profilo pratico (non essendo questo il momento per una esegesi del testo di legge) il reato di stalking ricorre quando si commettono, in modo ripetitivo, comportamenti consistenti in “minacce o molestie in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Alcune considerazioni sull’art 612 bis. Non si comprende, in questo articolato il perché dell’esclusione, fra i soggetti attivi, del coniuge separato di fatto. Così come non appare convincente la perseguibilità a querela della persona offesa (salvi i casi di cui al 4° comma, 2° parte). Con la pretesa punitiva rimessa alla parte sembra si lasci intendere allo stalker come sia possibile una “transazione” sui fatti compiuti. Al contrario la perseguibilità d’ufficio, anche se attivata a mezzo querela di parte non remissibile, metterebbe l’autore di fronte alla impossibilità di far caducare gli effetti dei fatti compiuti attraverso la remissione.
Altra condizione necessaria è quella di elevare la pena da 4 a 6 anni; ciò consentirebbe le intercettazioni telefoniche ed ambientali e renderebbe applicabile il giudizio immediato (la durata dei processi è un altro elemento che viene inflitto alla vittima e che la fa sentire ancora più esposta).
Il reato è particolarmente odioso agli occhi di tutti ed è necessario che le autorità di governo provvedano a breve, e bene, non attraverso il ricordato “effetto salvifico” della norma, ma attraverso la necessaria, responsabile, dura applicazione di sanzioni che la collettività ormai non chiede, ma pretende.
Infine, gli aspetti che più premono agli operatori di Polizia per affrontare questa piaga. Abbiamo detto che per prevenire e debellare questo fenomeno c’è bisogno di fare “Rete” perché solo insieme si vince. C’è bisogno di interventi legislativi per dare un quadro completo e definito soprattutto rispetto alla prevenzione; credo che recepire la convenzione di Istanbul e le nuove prerogative attribuite ai Questori in termini di diffida, ammonimento e allontanamento dalla vittima sia un buon inizio, sempre nella convinzione che bisogna evitare l’“effetto salvifico” delle norme attraverso una chiara, corretta e possibile applicazione in quanto essa rappresenterà il vero strumento per gli addetti ai lavori. Parimenti, e al di là dell’effetto giornalistico, la qualificazione del femminicidio deve passare attraverso l’identificazione non tanto di una fattispecie giuridica nuova quanto tramite l’elencazione di precise aggravanti da far interagire con la norma dell’omicidio ogni qualvolta la vittima donna è coinvolta per una sua particolare caratteristica che si lega al genere. L’ultima questione, e non per questo meno importante, anzi, è quella relativa alle risorse.
Oggi non esistono stanziamenti specifici per contrastare questo fenomeno; non esistono statistiche univoche né esiste un centro che fa raccolta e analisi di questi dati. E ciò, a mio giudizio, è un male, un grande male. Ma noi siamo italiani e pure poliziotti. In quanto tali siamo abituati a ricorrere all’estero e all’arte dell’arrangiarsi prima ancora che il legislatore metta a nostra disposizione strumenti, anche legislativi, oltre che le risorse.
Mi sembra giusto ricordare che presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale, il Dipartimento della Ps ha istituito l’Oscad e, che la Sala Operativa internazionale, per ottemperare alle esigenze di cooperazione tra tutti i Paesi membri dell’Interpol, utilizza le banche dati anche per fornire indicazioni su quali tipi di reati insistono nell’area geografica a cui appartiene il soggetto che viene controllato: nei dati che vengono oggi raccolti per quei fini si potrebbe inserire anche il femminicidio e le caratteristiche dei suoi autori. Questo è un modo, forse tutto italiano ma utile al nostro scopo per essere, come sempre seguendo il buon senso e la nostra vocazione al servizio dei cittadini e per la tutela della loro sicurezza, pronti ancora prima che il legislatore metta a nostra disposizione norme e risorse. Perché ne va del nostro presente ma soprattutto del nostro futuro.
FOTO: Felice Romano, Segretario generale del Siulp
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