Nel libro di Alfio Caruso riemergono gli scenari
inquietanti di collusione tra Cosa nostra
e i vertici dello Stato. E nel processo di Palermo
due ufficiali dell’Arma dei Carabinieri
si accusano reciprocamente. Chiunque abbia
ragione, siamo tutti a perdere
Il 1992 è stato un anno drammatico per il nostro Paese. A febbraio, a Milano, vi fu l’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa, che diede l’inizio all’inchiesta “Mani Pulite” della Procura della Repubblica meneghina che travolse la cosiddetta “Prima Repubblica”, retta dal Pentapartito formato da Dc, Psi, Pli, Pri, Psdi. Nei mesi che precedettero le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino si respirava un’aria foriera di tragici avvenimenti. E così fu. “Milano ordina uccidete Borsellino”, scritto da Alfio Caruso e edito da Longanesi, è un libro sconvolgente, che ogni cittadino italiano dovrebbe leggere per cercare di comprendere la genesi della stagione delle stragi, che ha sconvolto l’Italia tra la primavera del ’92 e l’estate del ’93.
“U curtu”, al secolo Salvatore Riina, aveva deciso di sfidare lo Stato italiano con una strategia terroristica e spietata. La Prima Repubblica, sotto le inchieste della magistratura di mezz’Italia, stava crollando e molto probabilmente i referenti politici di Cosa nostra non erano più in grado di mantenere le loro promesse. A marzo, a Palermo, fu assassinato Salvo Lima, considerato il proconsole di Giulio Andreotti nella regione siciliana. All’epoca, i nemici più acerrimi della mafia, comandata dai corleonesi di Riina e Provenzano, erano i due magistrati, nonché amici d’infanzia e per la pelle, Falcone e Borsellino. Entrambi avranno il loro appuntamento con la morte rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio di quel maledetto anno.
Falcone collaborava con l’allora ministro di Grazia e Giustizia Martelli, per cui spesso era a Roma. Il Ministro socialista era intenzionato a nominare Falcone a capo della Direzione nazionale Antimafia, struttura creata, assieme alla Direzione Investigativa Antimafia, dal governo presieduto da Giulio Andreotti. Falcone sapeva di essere nel mirino della mafia. Un primo attentato, quello dell’Addaura del 1989, era fallito, seppure in circostanze misteriose. Ma la mafia non sbaglia una seconda volta. A premere il telecomando dell’esplosivo, che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, nell’“attentatuni” di Capaci, fu Giovanni Brusca. La spettacolarità dell’attentato fu una precisa volontà di Riina.
Dopo la morte di Falcone, Borsellino ne aveva raccolto il testimone. Il magistrato sapeva di essere un morto che cammina, sapeva che presto sarebbe toccato a lui. A distanza di diciotto anni ci sono molti punti oscuri sulla strage di via D’Amelio. Gli investigatori, cui furono affidate le indagini dalla Procura di Caltanissetta, erano guidati dal capo della Squadra Mobile della questura di Palermo Arnaldo La Barbera. Le prime conclusioni a cui giunse La Barbera furono due: qualcuno aveva avvisato i killer degli spostamenti di Borsellino e chi azionò il telecomando non poteva trovarsi nelle vicinanze di via D’Amelio, altrimenti sarebbe stato investito dall’esplosione. Ci sono forti sospetti, non suffragati da prove, che un ruolo nell’attentato di via D’Amelio lo abbiano ricoperto alcuni esponenti del Sisde, il servizio segreto civile, collusi con la mafia. C’è chi giura che, dopo l’esplosione che costò la vita a Borsellino e la sua scorta, Bruno Contrada fosse presente in via D’Amelio. Circostanza mai comprovata.
Uno dei due punti fondamentali di questo appassionante libro è che Milano è la capitale della mafia. Falcone tra il ’91 e il ’92 rilascia delle dichiarazioni che lo condannano a morte. Il magistrato spiega che “Cosa nostra si è infiltrata nella Borsa. Per Borsa non si intende il semplice mercato azionario, bensì un reticolo molto più vasto che ha il proprio epicentro nella Milano delle banche, delle imprese, delle finanziarie, delle multinazionali, in cui si coagulano interessi illeciti spesso cementati dall’appartenenza alle loggi massoniche e operanti attraverso branche dei due servizi segreti, il Sismi e il Sisde”. Il Procuratore nazionale Antimafia in pectore ha colpito nel segno, ha individuato i legami tra la mafia e il mondo della finanza, dell’economia e della grande industria. Ecco perché è stato ucciso: bisognava impedirgli di scoprire complicità insospettabili.
Per lo stesso motivo è stato assassinato Borsellino. Se la strage di Capaci è stata voluta da Cosa nostra e appoggiata da una entità esterna, quella di via D’Amelio è stata decisa dall’entità esterna e benedetta dalla mafia. Per sconfiggere definitivamente le cosche bisognava far luce sulle operazioni di riciclaggio del denaro sporco, frutto del traffico internazionale di stupefacenti, che si svolgevano nel capoluogo lombardo. E’ quasi certo che Falcone abbia rivelato le sue intuizioni al collega Borsellino. Ma l’assalto a Milano, alla sua imprenditoria collusa con Cosa nostra, ai clan presenti nel listino della Borsa s’inserisce in un mosaico molto articolato.
Conoscendo i perversi intrecci delle famiglie con i mille misteri d’Italia, Falcone voleva approfondire anche il ruolo svolto da Gladio nei delitti politici di Palermo (Reina, La Torre, Mattarella). Gladio, anche conosciuto come Stay behind, era una struttura militare segreta, che avrebbe dovuto organizzare la resistenza nell’eventualità di una invasione sovietica. Purtroppo le intenzioni di Falcone resteranno lettera morta. Questo nella prima parte.
La seconda parte del libro è incentrata sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra al fine di far cessare le stragi. Ci sono diversi indizi che fanno ritenere verosimile una trattativa tra Cosa nostra e i vertici istituzionali ma certezze non ve ne sono. Le richieste della mafia, oggetto della trattativa, sarebbero state contenute nel famoso “papello” rivelato da Massimo Ciancimino, figlio di Vito, sindaco di Palermo colluso con Cosa nostra. Il papello era composto da dodici punti: 1) Revisione sentenza maxiprocesso; 2) Annullamento decreto 41/bis [il carcere duro]; 3) Revisione legge Rognoni-La Torre [la confisca dei patrimoni mafiosi]; 4) Riforma legge pentiti; 5) Riconoscimento benefici dissociati-Brigate rosse- per condannati di mafia; 6) Arresti domiciliari dopo i 70 anni; 7) Chiusura super carceri; 8) Carcerazioni vicino le case dei familiari; 9) Niente censura posta familiare; 10) Misure prevenzione-Rapporto con familiari [esclusione di mogli e figli dalle misure di prevenzione]; 11) Arresto solo in flagranza di reato; 12) Levare tasse carburanti come ad Aosta. Sulla presunta trattativa non ci sono in modo assoluto prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Secondo un’ipotesi, piuttosto verosimile, sarebbe stato Provenzano a “vendere” Riina, consegnandolo ai Carabinieri del capitano “Ultimo”. Il ruolo svolto dai Carabinieri, nella cattura di Riina, è stato oggetto di un processo in cui è stato coinvolto il generale Mori, accusato di aver omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa [di Riina ndr] era stato sospeso, accusa da cui è stato assolto. Un’altra supposizione, contenuta nel libro, è che Mori e Ultimo non avrebbero perquisito il nascondiglio di Riina dopo il suo arresto, come corrispettivo della cattura. Secondo molti collaboratori di giustizia, ma soprattutto secondo Massimo Ciancimino, in quella villa venivano conservate carte che avrebbero riscritto la storia d’Italia.
Il generale Mori è attualmente sotto processo a Palermo, assieme al colonnello Obinu, accusato di favoreggiamento alla mafia, a causa della mancata cattura, nel 1995, di Provenzano. Secondo il teste d’accusa colonnello Michele Riccio, smentito e querelato da Mori e Obinu, furono quest’ultimi ad avergli impedito la cattura di Provenzano in un casolare di Mezzojuso (Pa), indicato dal suo confidente Luigi Ilardo. Ilardo sarà assassinato poco dopo aver accettato di collaborare con la giustizia.
Nel processo si è incastonata la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, già ammessi in più sedi da Mori, con il padre Vito. Secondo Ciancimino jr, quei contatti avevano come obiettivo la sospensione delle stragi in cambio dell’accoglimento delle richieste contenute nel papello. Secondo Mori, invece, quei contatti servirono per acquisire notizie sui clan e per giungere alla cattura dei grandi padrini di Cosa nostra. Mori ha dichiarato in Tribunale che il Ros nutriva parecchie riserve su Riccio e sui suoi metodi d’indagine.
Dov’è la verità? L’Arma dei Carabinieri è scossa dalle accuse reciproche di Riccio e Mori. Entrambi sono validi militari, fedeli al proprio Paese e sicuri di servirlo al meglio. Ciò che li divide è l’idea del servizio da rendere. L’insanabile contrapposizione tra i due alti ufficiali pone l’Arma in una situazione molto delicata: non importa chi dei due ne uscirà vincitore. I veri perdenti saranno i Carabinieri. Se prevarrà la tesi di Riccio, significherà che Mori ha cospirato per anni contro lo Stato, che avrebbe dovuto difendere e invece è sceso a patti con la mafia. Se sarà Mori a vincere, vorrà dire che Riccio ha manovrato, corroso inchieste molto delicate senza che i suoi superiori ne avessero il benché minimo sospetto.
Il mistero ancora irrisolto di via d’Amelio continua a diffondere questi ed altri veleni.
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